Zen Movie Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 01 Sep 2021 14:52:54 +0000 it-IT hourly 1 Accamòra, un’estate dolceamara https://www.fabriqueducinema.it/festival/accamora/ Fri, 30 Jul 2021 13:13:40 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15897 C’è un’immagine ne La ricerca del tempo perduto di Proust: lo scrittore, seduto in treno, cerca di rincorrere il tramonto, senza riuscire però mai a raggiungerlo. Appena pensa di poterlo vedere bene da vicino, il treno avanza e il sole sembra spostarsi. C’è qualcosa di proustiano nelle immagini ruvide e melanconiche di Accamòra (In questo […]

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C’è un’immagine ne La ricerca del tempo perduto di Proust: lo scrittore, seduto in treno, cerca di rincorrere il tramonto, senza riuscire però mai a raggiungerlo. Appena pensa di poterlo vedere bene da vicino, il treno avanza e il sole sembra spostarsi. C’è qualcosa di proustiano nelle immagini ruvide e melanconiche di Accamòra (In questo momento), il cortometraggio della giovanissima Emanuela Muzzupappa presentato in concorso alla prima edizione del Cinelido, festival dedicato ai cortometraggi fondato da Giulio Mastromauro, Andrea Cicini e Alberto De Angelis e organizzato da Zen Movie al Porto Turistico di Roma. Al Cinelido Accamòra ha vinto il premio per il miglior attore andato ai due protagonisti, Carmelo Macrì e Giovanni Spanò.

Con diverse metafore, come il rito estivo della raccolta dei fichi (contemporaneamente faticoso e dolce) o l’aneddoto dell’arcobaleno e dei bossoli dei proiettili del fucile (un gioco innocente dell’infanzia legato però a qualcosa, come i bossoli, che è concettualmente opposto alla purezza infantile), Emanuela Muzzupappa affronta con semplicità un concetto profondo come quello dell’ineluttabilità del tempo, dandogli un sapore familiare.

Come nasce Accamòra?

Accamòra nasce in un momento difficile della mia vita e infatti conserva qualcosa di molto autobiografico. In quel periodo, io e tutta la mia famiglia temevamo che il terreno che aveva sempre fatto da sfondo alla mia infanzia, potesse essere venduto; inoltre, per una serie di vicissitudini, da Roma sono dovuta ritornare a vivere in Calabria. Mi sono sentita mancare la terra sotto i piedi, sia metaforicamente che letteralmente. Accamòra racchiude quei sentimenti di estrema paura e perdita di ogni certezza, assieme a quel sapore dolce e amaro che il passaggio dall’infanzia all’età adulta porta con sé e che la perdita di quel terreno, che conservava tutti i miei ricordi da bambina, ha esemplificato.

Accamora
I due protagonisti di “Accamora”, Carmelo Macrì e Giovanni Spanò.

Sia a livello di dialoghi che di regia, si ha la sensazione di giocare con un non detto, cosa volevi enfatizzare?

È una scelta stilistica con la quale volevo far sentire lo spettatore che qualcosa che non va. Il non detto, inoltre, è anche il riflesso del mio dolore e di come, in quel momento, ho vissuto i rapporti familiari, il tentativo degli adulti di trattenere informazioni al fine di proteggere l’altro. Così ho “puntellato” il corto con gli sguardi del fratello maggiore che dissimulano, ma ci segnalano anche la presenza di qualcosa da cui però siamo ancora esclusi. 

Già dal titolo fai riferimento a un “qui ed ora”: che ruolo ha il tempo all’interno del tuo racconto?

Nel corso del film il protagonista vive costantemente dei momenti che non fanno che finire e il rito della raccolta dei fichi è rappresentativo di tutto questo, proprio perché ha un inizio e una fine. Un’idea che arriva al culmine quando il ragazzo ritrova i cimeli d’infanzia che sono anche visivamente sepolti da un telo e che rappresentano un momento che ha già avuto fine. La parola “accamòra” vuole rappresentare perciò proprio l’incedere molto lento di un tempo che finisce e ricomincia continuamente, che sembra mettere un punto, ma poi riparte.

È per questo che hai scelto un finale aperto?

Sì, da un lato il finale aperto mi serviva perché proprio lo scorrere del tempo non può essere descritto come qualcosa che ha una fine, dall’altro lato volevo enfatizzare, anche con lo sguardo e la domanda senza risposta del giovane protagonista, quella sensazione di  dolore e insieme dolcezza che porta con sé la consapevolezza. Il finale aperto rendeva questo binomio tra la bellezza e la malinconia, come quando si pensa a un ricordo passato e sei felice perché il ricordo è bello, ma al contempo triste perché non c’è più. Anche ciò che releghiamo alla quotidianità avviene in quel preciso attimo: inizia, ma è destinato a una fine e se ciò per un verso ci “toglie la terra sotto i piedi”, per un altro ci fa capire l’importanza di ogni singolo momento.

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Finis terrae: due amici, una scomparsa https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/finis-terrae-due-amici-una-scomparsa/ Sun, 25 Jul 2021 14:25:12 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15857 Tommaso Frangini, milanese, ha convinto i selezionatori di vari festival con il suo cortometraggio Finis terrae, a partire dalla Settimana Internazionale della Critica veneziana della scorsa edizione fino al Figari Film Fest dello scorso giugno. Il battesimo cinematografico Tommaso lo ha ricevuto da Andrea Pallaoro di cui è stato assistente sul film Hannah (con Charlotte […]

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Tommaso Frangini, milanese, ha convinto i selezionatori di vari festival con il suo cortometraggio Finis terrae, a partire dalla Settimana Internazionale della Critica veneziana della scorsa edizione fino al Figari Film Fest dello scorso giugno. Il battesimo cinematografico Tommaso lo ha ricevuto da Andrea Pallaoro di cui è stato assistente sul film Hannah (con Charlotte Rampling, in concorso alla 74ª edizione del Festival di Venezia) e, seguendo le orme del regista trentino ormai trapiantato all’estero, ha continuato con studi al CalArts (California Institute of the Arts) di Los Angeles, scuola fondata da Walt Disney ma con una forte anima indipendente e sperimentale. Finis terrae (distribuito da Zen Movie) è appunto il corto di diploma che Tommaso ha girato negli USA poco prima del rientro (causa Covid) a Milano.

«I miei primi lavori erano fantasy, Finis terrae è la prima volta in cui mi sono voluto dedicare a un cinema personale e intimista: l’idea mi è venuta durante uno dei ritorni a casa per le vacanze in Italia, quando studiavo negli USA. Fra gli amici di sempre, qualcuno non c’era più e mi dicevano che si era perso, che aveva interrotto i contatti. Ho cominciato a chiedermi come mai ragazzi che vivono in una condizione privilegiata, al centro di Milano, possono arrivare a perdersi. Inoltre una sera, uscendo con un amico, mi sono reso conto che non avevamo granché da dire, non parlavamo più la stessa lingua: da lì è nata la prima scena del corto, che ho poi sviluppato decidendo di ambientarlo in un luogo del tutto diverso, una costa rocciosa a picco su un mare invernale».

A proposito, dove l’hai girato?

È un parco naturale in California che si chiama Montaña de Oro: me lo ha consigliato il mio direttore della fotografia. È un parco suggestivo ma poco conosciuto, non troppo grande, scarsamente frequentato, quindi ideale per girare.

La storia dei due ragazzi sfrutta un modello narrativo nobile, a partire dal capostipite dei film sulla scomparsa improvvisa di un personaggio, L’avventura di Antonioni. È stato il tuo esempio?

È una cosa che in molti hanno osservato, ma anche se amo molto il cinema di Antonioni L’avventura non era fra le mie reference: piuttosto ho guardato a film come Jerry di Gus van Sant e Old Joy di Kelly Reichardt (ora sugli schermi con First Cow). Anche a livello stilistico e visivo, Antonioni era molto lontano da quello che volevo fare. Diverso se vogliamo guardare ai temi, che sicuramente hanno molto in comune: c’è il tema dell’incomunicabilità fra i due amici e quello del del malessere esistenziale di Peter, che è resa dal suo essere fisicamente ferito, danneggiato, ha dei cerotti sulle mani e sul volto di cui non viene detta la causa.

La dinamica fra Peter e Travis richiama quella di un’attrazione fisica: si può leggere anche come una storia di amore non corrisposto?

Quando sviluppavo la sceneggiatura al CalArts, la mia professoressa mi disse che sentiva una grande tensione anche sessuale fra i due ragazzi, le sembrava che uno fosse un po’ innamorato dell’altro. Ho deciso però di non esplicitarlo, anche perché non volevo addentrami in un terreno complesso (soprattutto in America) come le questioni sessuali, gender e così via senza conoscerle a fondo, senza averle vissute. Invece volevo che il punto fosse quella sorta di amore platonico che si crea fra amici soprattutto in una situazione di bisogno, che la tensione fosse nell’aria ma non fosse assolutamente dichiarata. Ho voluto raccontare un momento fra amici che non sanno più come comunicare. Finis terrae significa la fine del mondo conosciuto, che per loro era l’amicizia, la loro vita post adolescenziale.

Una tensione efficace anche grazie all’interpretazione e alla fisicità di Ryan Masson, Peter.

Ryan era un attore amico di amici, ci incontravamo ogni tanto alle feste e all’inizio non mi era nemmeno molto simpatico: poi, durante un barbecue ad Halloween, un po’ brillo, ho avuto l’intuizione che fosse perfetto per la parte e gliel’ho proposto lì seduta stante. Da allora siamo diventati molto amici e ci teniamo sempre in contatto. L’altro attore era più giovane e meno professionale, un surfista di Santa Barbara che un giorno, fra una ripresa e l’altra, è andato appunto a surfare ed è tornato in ritardo tutto bagnato, ma abbiamo lavorato bene, se i due attori non avessero funzionato insieme il corto non sarebbe così efficace.

Adesso? Torni in America o resti in Italia?

Per ora resto qui, sto lavorando a un lungometraggio: continuo ad aver voglia di raccontare qualcosa che conosco ovvero, l’ho già detto [ride], la vita di un ragazzo in una società privilegiata come quella della Milano-bene. Stando negli USA mi sono accorto quanto questo ambiente sia superficiale, chiuso alle novità, si vive dai 14 anni ai 50 chiusi negli stessi gruppi. Anche qui c’è un ragazzo in cerca di identità. Forse non è un tema di per sé originale, ma oggi non sono molti i film che ne parlano: invece penso che la mia generazione abbia bisogno di essere raccontata, c’è poca indipendenza vera, molta precarietà e mancanza di passioni. Ci è stato promesso un mondo che in realtà non avremo, e questo ha creato un dissesto che credo sia importante descrivere in un film.

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