Wim Wenders Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 18 Sep 2023 16:53:48 +0000 it-IT hourly 1 Una sterminata domenica, l’esordio di Alain Parroni a Venezia 80 https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/una-sterminata-domenica-lesordio-di-alain-parroni-a-venezia-80/ Tue, 25 Jul 2023 10:49:11 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18613 Chi scrive lo considera uno dei suoi più cari amici, ma questo non conta più: ormai sono subentrati anche i pezzi grossi a credere in lui (piccola rivincita: noi lo scriviamo su queste pagine dal lontano 2017). Oggi, invece, a produrre il suo esordio Una sterminata domenica sono Giorgio Gucci (Alcor), Domenico Procacci (Fandango) e […]

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Chi scrive lo considera uno dei suoi più cari amici, ma questo non conta più: ormai sono subentrati anche i pezzi grossi a credere in lui (piccola rivincita: noi lo scriviamo su queste pagine dal lontano 2017). Oggi, invece, a produrre il suo esordio Una sterminata domenica sono Giorgio Gucci (Alcor), Domenico Procacci (Fandango) e Wim Wenders (Road Movies), e il film sarà in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 80.

La difficoltà della chiacchierata non sta tanto nell’evitare spoiler e linciaggio, ma nell’offrire un assaggio dell’atipicità del personaggio e della sua opera prima. Questo film esiste, senza esistere davvero, da almeno sei anni. Nel frattempo Parroni ha vissuto in un bunker, si è infilato in situazioni al limite della follia, ha combattuto contro chi avrebbe potuto produrlo. Alla fine ha vinto lui. È riuscito a fare esattamente il film che voleva fare: un film assurdo. E per un esordiente è quasi impossibile. Chi scrive ha goduto e subìto in prima persona i risvolti di questa estenuante gestazione, per questo, quando Parroni dice: «Non mi sembra che questo film mi abbia completamente risucchiato», io alzo un sopracciglio. E poi scoppiamo a ridere.

Nel 2017 la nostra intervista su Fabrique si chiudeva con te che già parlavi di questo film. Dicevi che sarebbe stato «un lavoro collettivo, quel circo che tanto mi diverte». Lo è stato?

Caspita! Un lavoro di cinque anni dev’essere per forza collettivo, sennò diventi pazzo. Eppure tante persone avrebbero potuto dirmi: «Adesso però sticazzi, è il tuo lavoro, non il nostro». Questo circo invece ci ha permesso di fare tantissime cose improvvisate, che forse sono le più belle del film. Penso alla mia famiglia numerosa, che mi ha aiutato con i provini in un periodo in cui ad Ardea stava succedendo di tutto: facevo i casting mentre giravano Super Sex, sembrava la città del cinema. Ho vissuto questi anni come una jam session, ma in realtà è andata abbastanza come avevo programmato.

Ecco, Ardea: tutto inizia e torna lì, per te.

Il film è ambientato nel luogo in cui sono cresciuto e da cui, come tutti durante gli studi, mi sono allontanato. Lo dico senza voler fare la classica vignetta di Alain che prende il treno e va in città, però è così. In terza media marinavo la scuola per andare a Piazza del Popolo e il film questa dimensione ce l’ha. Già questo è stato doloroso: girare un film a Napoli sarebbe stata una vacanza, invece tornare a casa e provare ad essere sincero è un’altra cosa. Ho vissuto con i ragazzi del film situazioni e serate distruttive che ogni adolescente di provincia conosce. Ho scoperto un sacco di cose sui miei genitori che non sapevo, ho trascorso molto tempo al bar dove mio padre usciva da ragazzino, i suoi amici dell’epoca mi hanno raccontato storie che probabilmente lui non mi avrebbe mai detto. Non fanno parte del film, ma mi hanno permesso di crescere per girare questo film.

Tre personaggi principali: Alex, Brenda e Kevin. Hai scelto degli sconosciuti.

Sono giovanissimi, non hanno grandi esperienze alle spalle. Ho fatto moltissime interviste nel corso degli anni a ragazzi reali, perché mi serviva partire da lì per scrivere la sceneggiatura. Quelle testimonianze le ho poi infilate a forza dentro gli attori che ho scelto, cioè la realtà della campagna romana impiantata in un attore di Torino e uno del Lago di Garda. Quello che ho sempre immaginato era prima di tutto visivo, quindi non mi interessava se Zac non fosse cresciuto ad Ardea: dopo una settimana gli si è attaccata addosso.

una sterminata domenica
Alain Parroni sul set di “Una sterminata domenica” (ph: Roberto Pioli).

Molto prima dei casting, e molto prima che qualcuno volesse produrti, hai iniziato a fare delle interviste per trovare gli attori giusti. Racconta.

Dopo aver letto la sceneggiatura, un produttore mi aveva detto: «Non esistono adolescenti così. Dove sono i genitori? Perché non gliene frega un cazzo della scuola?». Io gli avevo risposto: «Perché, i genitori di Sailor Moon dove erano mentre combatteva?». Ma dovevo anche dimostrarglielo, così il giorno dopo sono tornato a provocarlo con le prime dieci interviste: «Sicuro che non esistono questi adolescenti?». Ho iniziato a cercare ragazzi giovanissimi, i miei cugini, i loro amici e gli amici degli amici. Li intervistavo e a distanza di due anni tornavo a parlare con tutti.

Una sterminata domenica: che storia è questa?

Come me la racconto io: è un triangolo amoroso estivo, che parte equilatero e in autunno diventa scaleno. Come la racconterei ai distributori: è un film di formazione su tre adolescenti, tra i 16 e i 20 anni, che cercano di affermarsi nel mondo attraverso l’unico strumento che hanno: attirare l’attenzione in qualsiasi modo. Che poi è anche quello che dovresti fare quando giri il tuo primo film. Nella nostra intervista del 2017 dicevamo che avrebbe dovuto essere un proiettile. Piombo puro. Credo lo sia, soprattutto a livello visivo. Questo è quello che ho dentro: adesso lo vedete?

Se questo film avesse un genere?

Se proprio dovessi scegliere, mi farebbe sorridere se venisse etichettato come un coming of age o come un teen drama. È un genere con cui sono cresciuto. E poi realizzare questo film è stato anche il mio, di coming of age.

Qual è il pubblico per un film come il tuo?

In fase di casting mi hai detto che, secondo te, le scelte che stavo facendo non avrebbero reso il film accessibile a tutti.

Ti ho detto che il rischio era quello di impacchettarlo come un film pop, ma che poi l’avrebbero preso come un presuntuoso film d’autore.

Però anche le scelte d’autore oggi sanno essere stordenti. Io credo che alle basi del film ci sia un teen drama a tutti gli effetti, che ne possa godere qualsiasi ragazzino, e nella prima parte del film ci crederanno. Poi forse rischieranno di sentirsi bombardati.

Tu non volevi solo fare la tua opera prima, volevi anche dimostrare che si può girare un film in modo diverso rispetto a quello che ti viene imposto.

Io non capisco come gli altri non lo capiscano. Quando non trovavo i produttori sono arrivato a riprogettare tutto come un film fotografico, l’avrei fatto da solo, così. Come puoi farti mettere sotto dalla visione di un produttore? Se credi in un’idea, come fai a non girarla come vuoi tu? Io non penso che ci sia tutta questa competizione come ci vogliono far pensare quando siamo giovani. Sembra che tutti vogliano fare un film, ma non è davvero così.

Dopotutto, adesso sei prodotto da Wim Wenders. Se lo chiederanno tutti: come l’hai agganciato?

Avevo un film pronto ma non lo stavo girando e quindi stavo impazzendo. Sognavo il Giappone da una vita: ci vado. Come itinerario uso Tokyo-Ga di Wim Wenders, un film bellissimo che racconta Ozu. Vado nello stesso bar del film e conosco la signora che ha incontrato Wenders quarant’anni prima e via così, finché non arrivo alla tomba di Ozu. Gli porto il whisky come ha fatto Wenders e poi gli dico: «Ozu, porco Giuda, io non riesco a fare un film». Dopo due settimane Giorgio Gucci mi chiama: «Sono andato al MIA, c’è Wenders che cerca opere prime da realizzare. Ci ha detto di inviargli il tuo materiale». Poco dopo mi sono ritrovato con la fotocopia del passaporto di Wenders per partecipare al bando del Ministero. Oggi stiamo chiudendo il film sempre con il Giappone di mezzo: è surreale che mi abbia detto di sì il compositore di Evangelion, l’anime che guardavo da ragazzino ad Ardea. Alla fine di tutto dovrò tornare lì, ringraziare Ozu e portargli un’altra bottiglia di whisky.

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Papa Francesco – Un uomo di parola: il messaggio di speranza di Wim Wenders https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/papa-francesco-uomo-di-parola-il-messaggio-di-speranza-di-wim-wenders/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/papa-francesco-uomo-di-parola-il-messaggio-di-speranza-di-wim-wenders/#respond Fri, 28 Sep 2018 09:28:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11407 Il film che Wenders ha dedicato a Papa Francesco arriva nelle sale dopo molti rumors e svariati anni di lavorazione. Stando alle dichiarazioni del cineasta tedesco, rilasciate durante la conferenza stampa di qualche giorno fa alla Casa del Cinema di Roma, sono stati anni di assoluta libertà, senza alcun tipo di ingerenza, dalla pre-produzione al […]

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Il film che Wenders ha dedicato a Papa Francesco arriva nelle sale dopo molti rumors e svariati anni di lavorazione. Stando alle dichiarazioni del cineasta tedesco, rilasciate durante la conferenza stampa di qualche giorno fa alla Casa del Cinema di Roma, sono stati anni di assoluta libertà, senza alcun tipo di ingerenza, dalla pre-produzione al final-cut.

Al centro del cinema di Wenders resta sempre la struttura del road movie, stavolta inteso come viaggio, dialogo e confronto a due. Wenders ha infatti condotto personalmente questa lunga e intensa intervista con Francesco, capace di attraversare le spazio e il tempo, per affrontare in modo diretto i grandi temi del pontificato. Per tutta la durata del film e del viaggio la voce narrante resta quella dello stesso Wenders (che scopriamo parlare un perfetto italiano) mentre Jorge Mario Bergoglio non parla come d’abitudine la lingua di Roma e del Vaticano, ma il suo «spagnolo delle Americhe», il dialetto argentino.

papa francesco

Qualcuno sarà già perplesso: Papa Francesco – Un uomo di parola (qui il trailer ufficiale) non era un titolo prevedibile nella filmografia di Wenders (che ha incontrato il Papa presentandosi subito come protestante). I rischi infatti erano tanti: presentare un omaggio devoto al capo della Chiesa Cattolica, oppure un insipido documento di celebrazione, affidandosi alla grande tradizione dell’agiografia del santo di secolare memoria. Il film di Wenders su Francesco ha l’ambizione di evitarli tutti. Protagonista assoluto del film è naturalmente Papa Francesco: primo pontefice dall’America Latina, primo pontefice di formazione gesuita, il primo che abbia scelto il nome di San Francesco d’Assisi. Come voce narrante, è lo stresso Wenders che presenta Bergoglio con questi tratti biografici, che alludono a scelte radicali, espresse e concretizzate con coraggio.

Con Papa Francesco – Un uomo di parola, molti biglietti saranno venduti a chi desidera vedere un buon film d’autore sul Papa. Forse ci saranno spettatori atei o agnostici, incuriositi da un’opera dirompente per la sua autenticità. Altri avranno perfino l’ardire di pagare un biglietto, solo per vedere il nuovo film di Wim Wenders. Quel ragazzo che inizia come critico innamorato del cinema, arriva al lungometraggio e scopre il successo con Alice nella città (1973).

Il film su Papa Francesco arriva in un momento preciso della storia di Wim Wenders. I suoi documentari più recenti erano quello su Pina Baush del 2011 e quello realizzato nel 2014 con Juliano Ribeiro Salgado: Il sale della terra. Ma il progetto di un film su Francesco (che integra il reportage e l’intervista con ampi inserti in bianco e nero, dedicati al Santo di Assisi e affidati al volto di Ignazio Oliva) è paradossalmente più prossimo al primo documentario del giovane Wenders: Nick’s Movie – Lampi sull’acqua (1980). Un esemplare straziante di direct-cinema, mentre Wenders filma l’amico Nicholas Ray (alias il regista di Gioventù bruciata – Rebel Without a Cause) che affronta il cancro, perde la sua battaglia e muore. Quell’idea di verità radicale, dove il primissimo piano e lo sguardo in macchina sono praticamente un gesto d’amore, anche adesso è alla base di Papa Francesco – Un uomo di Parola.

papa francesco

Nell’arco degli anni Papa Francesco e Wim Wenders hanno modo di affrontare i temi più disparati. Anche per Wenders, il cardinale argentino è il più moderno tra i successori di Pietro. Soprattutto, è un uomo che non ha paura di nulla. Parleranno di Grazia ma soprattutto di povertà, fame, ecologia e sfruttamento della madre terra, della tolleranza zero verso i casi di pedofilia interni alla Chiesa – e molte altre ferite della realtà contemporanea.

Per quanto riguarda lo specifico filmico, Wenders fa una scelta che si rivela determinante: una macchina da presa equipaggiata nella parte anteriore con un dispositivo Intertron. Per Wenders, «una sorta di teleprompter invertito». In parole più semplici: un monitor che permette al regista e al pontefice di dialogare, guardandosi costantemente negli occhi. Inutile dire che ogni spettatore al mondo avrà la sensazione che Francesco lo stia fissando in volto. È forse questa la chiave di volta di un film complesso, affascinante, che raggiunge pienamente il suo scopo. Ovvero: oltrepassare i confini delle religioni, delle certezze e dei popoli, per consegnare il suo messaggio di speranza universale.

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Wim Wenders – in me non c’è interesse che per il futuro https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/wim-wenders-in-me-non-ce-interesse-che-per-il-futuro/ Mon, 16 Feb 2015 10:09:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=852 Al Festival di Roma per presentare il documentario Il sale della terra sul fotografo brasiliano Sebastião Salgado, firmato insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado, il cineasta del Cielo sopra Berlino ha incontrato il pubblico in un’affollatissima Master Class. Ecco integralmente la lezione di cinema di un maestro. Mario Sesti: Il rapporto del suo cinema con […]

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Al Festival di Roma per presentare il documentario Il sale della terra sul fotografo brasiliano Sebastião Salgado, firmato insieme al figlio Juliano Ribeiro Salgado, il cineasta del Cielo sopra Berlino ha incontrato il pubblico in un’affollatissima Master Class. Ecco integralmente la lezione di cinema di un maestro.

Mario Sesti: Il rapporto del suo cinema con la fotografia è di lunghissima data. Lei stesso è fotografo…

Wim Wenders: «Più invecchio e meno capisco il significato della fotografia. Tutto è reso più complesso dall’evoluzione della tecnologia digitale. Ma c’è un fenomeno che da sempre mi affascina: è come se in ogni fotografia vi fosse un controcampo incorporato, invisibile, ma riusciamo a percepirlo. E da quando ho incontrato le foto di Sebastião Salgado ho avvertito fortemente la presenza di questo controcampo. Per me era il controcampo di un’avventura, ma anche di qualcuno con grande rispetto e amore per il suo lavoro. Non riuscivo però a comprendere tutto ciò fino in fondo, a immaginare la persona che aveva prodotto queste opere, e dunque ho voluto incontrarla. Quindi per una volta ho deciso di sollevare questo velo invisibile e fare un film proprio su questo controcampo».

Sesti: Lei ha scritto che viaggio e fotografia sono intimamente legati: Salgado è un perfetto esempio di viaggiatore fotografo, che inoltre passa molto tempo nei luoghi che visita e ritrae…

Wenders: «L’aspetto del tempo è stato fondamentale per questo film, questa avventura. Inizialmente pensavo che in un paio di settimane avrei potuto completare le riprese, e sapere tutto di questo fotografo. Abbiamo cominciato con le interviste, ma mi sono subito reso conto che la sua opera si basava su un senso del tempo completamente diverso, e la profondità del suo lavoro era tale da non consentirmi di fare un film rapidamente. Avevo bisogno di tempo, come lui dedica molto tempo a ogni tema che sceglie, sparisce addirittura per mesi per arrivare a un grado di verità straordinario».

Sesti: Tornando al rapporto tra fotografia e cinema, guardando le foto di Salgado si ha l’impressione che siano prese da un film muto, sembrano immagini di Griffith, Murnau, Gance, Ėjzenštejn. C’è molto cinema in lui.

Wenders: «La prima volta che ho visto immagini della miniera d’oro, ho avuto precisamente l’impressione di trovarmi di fronte a un enorme set cinematografico: ma sapevo che era verità, non finzione. Il che mi ha fatto riflettere ancora sul tempo che quest’uomo ha passato in mezzo ai minatori, perché c’è una complicità evidente fra lui e loro. Vi racconto un episodio significativo. Quando Salgado è sceso per la prima volta giù nel buco con la sua fotocamera, ha sentito una forte ostilità nei suoi confronti: gli uomini non volevano essere visti, tantomento ripresi, tanto che lui ha pensato “non riuscirò mai ad avere buoni scatti”. Poi per qualche ragione è arrivata la polizia e l’ha arrestato di fronte a tutti. Così, una volta rilasciato, quando è tornato alla miniera gli uomini si sono fermati e hanno cominciato a battere con i piedi per terra in segno di approvazione: avevano capito che non era amico della polizia. Da quel momento ha potuto scattare liberamente qualsiasi tipo di foto, viveva con loro e si è instaurata la perfetta complicità che si vede nelle immagini. Ma l’osservazione che hai fatto è giusta: Salgado racconta questa storia come farebbe un regista, con inquadrature diverse. In ogni fotografia vediamo un frammento di tempo, e tutte insieme creano una serie che si avvicina in maniera impressionante a un film».

Sesti: Uno dei problemi che lei si è posto era come inserire Salgado nel film, e a un certo punto ha capito che il modo migliore era di riprenderlo e registrare le sue reazioni alle sue stesse fotografie. Ed è uno dei momenti più emozionanti del film, perché Salgado reagisce con una sensibilità palpitante e ci comunica quella sorta di tremore che ha nei confronti di ciò che ritiene angoscioso ma anche particolarmene importante da testimoniare.

Wenders: «Questo in realtà è un film che è stato girato due volte: la prima volta abbiamo filmato per diverse settimane, e poi mi sono reso conto che non poteva essere questo il mio film. Avevo deciso di adottare un’impostazione convenzionale, noi due seduti a un tavolo con due telecamere e una terza che riprendeva le foto. Ma quando Salgado si avvicinava per esaminare un’immagine, il carico emotivo diventava fortissimo perché ritrovava il momento in cui l’aveva scattata: poi si girava verso di me ed entrava in un diverso stato d’animo, vòlto a spiegarmi la foto. Una volta finito questo primo film, ero arrivato ad avere una vaga idea di che cosa era stato il suo percorso e la sua opera, e volevo vederlo più preso, più coinvolto, ciò che accadeva appunto quando scrutava non me o la cinepresa, ma le proprie foto. Così, quando poi abbiamo iniziato a girare il “secondo” film, abbiamo adottato un’altra tecnica: la camera oscura, più familiare a un fotografo. Lì dentro era solo, vedeva unicamente le sue foto, una dopo l’altra, non su carta, ma su quello che in televisione si chiama gobbo elettronico, una sorta di schermo semitrasparente dietro cui era collocata la cinepresa. Guardando gli scatti lui guardava direttamente nella cinepresa, verso di me, anche se non mi vedeva. Ed era proprio questa intimità che cercavo: gli ho fatto poche domande, dovevo solo lasciare che lui parlasse».

Sesti: Un’idea che lei ha espresso sovente è che il guardare implichi anche una posizione morale: è attraverso ciò che si guarda che si può essere dalla parte di chi soffre, di chi è stato condannato dalla storia, dall’economia, dalla politica. Guardare significa costruire un’intimità, anche se immaginaria, con ciò che si guarda. Ho l’impressione che questo sia il film in cui lei lavora più in profondità su quest’idea. E che Salgado ne sia una testimonianza strepitosa: si è nascosto in una parte della terra così lontana e diversa, perché era necessario per poterla “guardare”. Un’idea, questa dello spaesamento, che molto cinema contemporaneo condivide. Bertolucci ad esempio ha detto: “Vorrei arrivare bendato in un posto di cui non so niente e lì cominciare a filmare”.

Wenders: «Devo dire che anch’io ho il medesimo desiderio di sparire in un luogo di cui non so niente, in cui non ho punti di riferimento. Prima di diventare fotografo di professione Salgado era un economista, ma poiché non poteva rientrare in Brasile a causa della sua appartenenza politica di sinistra (erano gli anni della dittatura) ha voluto ritrovare parte della sua patria nei paesi del Sudamerica confinanti, appunto come fotografo, scomparendo per mesi e mesi. Ecco, questo rappresenta per me uno stato ideale sia per chi vuole fare cinema sia per chi vuole fare fotografia: abbandonare tutto e diventare ciò che noi vediamo, che vogliamo conoscere».

Sesti: Lei racconta con grande delicatezza anche le dinamiche particolari all’interno della famiglia Salgado: un padre che lascia tutto per il suo lavoro, una moglie che sacrifica il suo per stargli a fianco, un figlio che poi lo aiuterà (e che è co-regista del Sale della terra)…

Wenders: «Juliano è cresciuto con un padre assente per la maggior parte del tempo, e che quando c’era era ugualmente assorbito dal lavoro, aiutato da Leila, sua moglie e sua editor, la forza trainante della sua opera. Juliano praticamente non conosceva il padre e, una volta divenuto documentarista, ha deciso che la cosa più avventurosa da fare era compiere un viaggio con lui per scoprirlo. Abbiamo quindi lavorato assieme e per me la cosa è risultata molto stimolante, perché il suo punto di vista era per forza di cose diverso dal mio. Insieme abbiamo realizzato un film complesso e vero, più di quanto non sarebbe stato possibile –credo – individualmente».

Sesti: In questo film c’è qualcosa di sconvolgente. Da una parte fa esclamare allo spettatore: com’è possibile che ci sia tanta bellezza su questo pianeta? e dall’altra: com’è possibile che ci sia tanto dolore e povertà? Ho l’impressione che la grandezza di Salgado e del modo in cui lei lo ha raccontato sia proprio la capacità di tenere assieme due emozioni così diverse e profonde.

Wenders: «Nel corso della sua carriera Salgado è stato accusato spesso di fare fotografia in modo estetizzante: ne ho parlato con lui, ma ho deciso di non inserire questo colloquio nel film perché non volevo fare una sorta di meta-discussione sul suo lavoro, volevo solo mostrarlo. Però ero ben consapevole della questione, conoscevo il modo in cui si poneva nei confronti di persone che soffrono la fame, la fatica, le conseguenze della guerra. Io credo che piuttosto che parlare di foto belle, sia più appropriato parlare di foto giuste, perché in questo ambito la bellezza non c’entra. Sì, si può dire che ogni sua foto è ben fatta, corretta per l’inquadratura, senso del bianco e nero e così via: ma non era questo il suo scopo, cioè non era cercare la bellezza, ma la verità. Non c’è dubbio che si tratti di immagini bellissime, ma per me era il suo modo di mostrare rispetto per queste situazioni, la dignità di queste persone. Sarebbe assurdo vietare di rappresentare la morte, il dolore, e se c’è un modo giusto di farlo è farlo con dignità. Ecco, trovo che il dibattito fra bellezza e verità sia superato, quello che conta per me sono il rispetto e la dignità».

ALCUNE DOMANDE DEL PUBBLICO

Spettatore: La questione del tempo, centrale nella sua poetica, nella dinamica fra presente e passato, mi ha fatto pensare a Nick’s movie. Era consapevole di questo richiamo?

Wenders: «Devo premettere che non ho nessuna inclinazione nostalgica: in me non c’è alcun interesse se non nel futuro, come fotografo e come regista. Vivere il presente, pur sapendo che entrambi i mezzi hanno una lunga storia che influenza il modo in cui oggi li usiamo. Vedendo il film si potrebbe pensare che parli del passato, in realtà tratta del futuro, e del futuro dell’umanità».

Spettatore: Qualche anno fa da presidente dell’EFA lei sottolineò la diversità del cinema europeo da quello americano. È ancora così?

Wenders: «Nonostante i tanti cambiamenti tecnologici e politici la protezione della diversità esiste ancora. Esistono cinema nazionali, come quello italiano che è come una fenice che è risorta dalle sue ceneri, quello francese, tedesco, norvegese etc., ma tutti esistono grazie all’ombrello protettivo del cinema europeo. Senza la collaborazione e la solidarietà fra i paesi all’interno dell’Europa il nostro cinema non credo sarebbe sopravvissuto. E non è stato protetto il cinema tanto e solo come industria (come avviene negli USA), ma come cultura. Possiamo affermare che il cinema europeo ha bisogno di interagire con la cultura e viceversa».

Ringraziamo il Festival Internazionale del Film di Roma, Luca Ottocento e Dario Ceruti.

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