Vitaliano Trevisan Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 18 Jun 2021 15:51:47 +0000 it-IT hourly 1 “Senza lasciare traccia” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/senza-lasciare-traccia-2/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/senza-lasciare-traccia-2/#respond Tue, 01 Nov 2016 15:35:42 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3746 In un pigro pomeriggio testaccino, Fabrique ha incontrato Gianclaudio Cappai per parlare di Senza lasciare traccia, il suo interessante esordio, in pellicola, dietro la macchina da presa. Dopo un corto vincitore al Festival di Torino del concorso dedicato al cinema breve (Purché lo senta sepolto, 2006) e un’opera di finzione di trenta minuti presentata nella […]

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In un pigro pomeriggio testaccino, Fabrique ha incontrato Gianclaudio Cappai per parlare di Senza lasciare traccia, il suo interessante esordio, in pellicola, dietro la macchina da presa.

Dopo un corto vincitore al Festival di Torino del concorso dedicato al cinema breve (Purché lo senta sepolto, 2006) e un’opera di finzione di trenta minuti presentata nella sezione “Corto Cortissimo” a Venezia (So che c’è un uomo, 2009), Gianclaudio Cappai lavorava da qualche anno alla realizzazione del suo primo lungometraggio. Senza lasciare traccia conferma il talento per la messa in scena del quarantenne regista sardo e si avvale di un cast affiatato e di ottimo livello composto da Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich e Fabrizio Ferracane. Prodotta dalla società fondata nel 2009 dallo stesso regista e sceneggiatore, Hira Film, l’opera prima è ambientata in una località rurale in provincia di Lodi e affronta i tormenti di un giovane uomo che improvvisamente si ritrova immerso nei meandri del proprio passato.

Tutti i tuoi lavori ruotano attorno a traumi che condizionano pesantemente il presente dei protagonisti. Cos’è che ti interessa in questo tema?

In effetti Senza lasciare traccia può essere considerata l’ultima parte di una trilogia che ha come focus proprio quanto hai appena detto. Di sicuro c’è da parte mia l’interesse di indagare il modo in cui la malattia influenza non solo chi ne è affetto, ma anche coloro che gli vivono vicino. Rispetto alle mie due opere precedenti, in questo film ho cercato di focalizzarmi sulla percezione soggettiva del protagonista: Bruno infatti si convince che il suo tumore sia strettamente collegato a un passato traumatico che non ha mai raccontato a nessuno. In fase di scrittura, con la co-sceneggiatrice Lea Tafuri eravamo molto intrigati da questo spunto narrativo, ispirato all’esperienza personale di una nostra amica. Era necessario però inserirlo all’interno di una drammaturgia di finzione e così abbiamo cercato di sviluppare un percorso a ritroso nel passato di Bruno, come fosse una sorta di viaggio esistenziale nell’arco di una sola giornata.

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Proprio a proposito della struttura del film, alcuni passaggi tra le dimensioni del passato e del presente sono molto suggestivi. Era già tutto preventivato in fase di scrittura?

In questo contesto la fase di montaggio è stata fondamentale. In sceneggiatura i flashback erano molto più descrittivi e carichi di informazioni sul passato (era molto più chiaro il rapporto di inquietante complicità tra la bambina e il fuochista, così come il passato di Vera e del padre) e si concentravano nella parte iniziale. Al montaggio poi li abbiamo asciugati e frammentati lungo tutto l’arco del film. Il racconto più dettagliato del passato aveva certamente i suoi punti di forza, ma toglieva mistero ai personaggi ed efficacia allo sviluppo narrativo in termini di coinvolgimento emotivo. Così con Lea e il montatore Alessio Doglione abbiamo scelto di andare in questa direzione confidando nel fatto che sarebbe stato il pubblico, seguendo il percorso di Bruno, a mettere a posto i vari tasselli del puzzle. In tal modo credo che il film sia divenuto più enigmatico, rarefatto e interessante.

Sul piano visivo Senza lasciare traccia ha l’indubbia capacità di creare una costante atmosfera di tensione. Come hai lavorato sulla messa in scena e a che tipo di estetica cinematografica ti sei ispirato?

Dal punto di vista visivo ero alla ricerca di qualcosa che mi ricordasse la New Hollywood statunitense degli anni Settanta. Il mio punto di riferimento era il cinema di registi come Robert Altman o Michael Cimino. Alcuni tra i loro primi lavori – per Altman penso soprattutto a Images, Il lungo addio e Tre donne – presentano storie molto potenti che fanno leva su una notevole messa in scena, rigorosa ma allo stesso tempo fluida, mobile e soprattutto furtiva. Da questi film per esempio abbiamo preso l’attitudine all’utilizzo di focali lunghissime per le riprese. Adottando uno stile del genere volevo affinare ed esplorare in maggiore profondità una serie di scelte espressive cui avevo già fatto ricorso nei miei precedenti lavori.

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Sei riuscito a produrre il film con la tua società, senza l’aiuto di altri produttori…

Dopo aver rinunciato ad alcuni progetti più costosi a causa del mancato accordo con dei produttori, per questo film avevamo dei punti su cui non transigevamo e che sapevamo avrebbero infastidito i nostri interlocutori: girare fuori Roma per sfruttare le location più adatte, realizzare il film in 16 mm e in non meno di sei settimane. Di conseguenza, occuparci della produzione è divenuta l’unica via ed è stato possibile grazie a finanziamenti provenienti dalla Regione Lombardia e da altri bandi. Trovare i soldi è stato senz’altro complicato, ma in questi casi non è da sottovalutare neppure la difficoltà nell’individuare un arco di tempo in cui il cast artistico su cui si vuole puntare sia disponibile. Può forse sembrare assurdo, ma spesso i film slittano e poi non si fanno più proprio per questo motivo. Appena abbiamo potuto contare sulla disponibilità di tutti gli attori principali siamo partiti con la preparazione del film, anche se avevamo a disposizione meno della metà del budget necessario. Durante la preparazione poi abbiamo continuato parallelamente la ricerca dei fondi. Alla fine è andato tutto bene e questo doppio binario ha funzionato in maniera perfetta.

Hai già in mente quale sarà il tuo prossimo film?

In questi mesi sono ancora impegnato ad accompagnare Senza lasciare traccia in tutte le città in cui viene richiesto. Per ora non riesco a isolarmi per mettermi al lavoro su un nuovo progetto, ma dopo l’estate c’è tutta l’intenzione di farlo. Ho comunque già iniziato a pensare a degli spunti che potrebbero diventare un argomento di discussione con altri sceneggiatori e, in particolare, ho individuato un tema che mi attrae moltissimo. Rispetto all’esperienza fatta con il mio primo lungometraggio vorrei però trovare qualcuno che sostenga il progetto fin dall’inizio. Scrivere un soggetto e una sceneggiatura senza avere già alle spalle un produttore, infatti, crea poi difficoltà inaudite nel far partire la realizzazione del film.

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Il primo lungometraggio del cagliaritano Gianclaudio Cappai è un noir sulla rabbia e la vendetta assolutamente da non perdere.

Bruno convive con una terribile malattia, un dolore che ha radici in un tempo lontano di cui nemmeno la moglie Elena è a conoscenza. Fino a quando Bruno avrà l’occasione di tornare nei luoghi da dove tutto è cominciato, una fornace in dis uso divenuta rifugio di un uomo e della figlia. Atmosfere claustrofobiche ed inquietanti, in cui lo spazio non è solo un luogo fisico ma l’unica forma di espiazione per un uomo che del passato porta i segni tra le pieghe del corpo e dell’anima.

Prodotto dall’indipendente Hirafilm, con un budget di 578mila euro, il contributo di Regione Lazio e Regione Lombardia, in associazione con Media Sponsor e Obiettivo Energia, con il sostegno di Lombardia Film Commission, il film è stato presentato in anteprima al Bif&st 2016 nella sezione ItaliaFilmFest/Nuove Proposte e proprio in questi giorni è nelle sale.

Senza lasciare traccia è il tuo primo lungometraggio, interamente autofinanziato. È stato difficile trovare i fondi?

Produttivamente questo film nasce come reazione, concreta e indipendente, a due miei progetti ambiziosi che sul punto di partire si erano arenati per colpa del solito procrastinare che ammorba diversi produttori cinematografici italiani. Non due treni persi, bensì due treni deragliati. Un ko dopo l’altro. Abbiamo deciso quindi, noi come società Hirafilm, di “partire” da soli per mettere in piedi finanziariamente il film con un budget stimato medio/basso, poco meno di 600.000,00 euro. Periodo? Fine estate del 2013. Non volendo perdere altro tempo, parallelamente alla ricerca dei fondi, abbiamo iniziato di fatto a preparare il film con le risorse economiche che avevamo a disposizione. Tenere vivo questo doppio binario è stato determinante, perché i due aspetti (budget ed esecutivo) si corroboravano a vicenda, permettendoci step by step di rendere plausibili le date di inizio riprese che ci eravamo prefissati, ovvero inizio marzo 2014. Quando a questi due aspetti si è aggiunta l’effettiva disponibilità del cast artistico principale, allora era evidente a tutti che non si poteva più tornare indietro. E a quel punto, venendo alla tua domanda, una delle difficoltà maggiori è stata convincere la banca (una delle tante) a farci un prestito per chiudere le sei settimane di riprese senza panico o spargimenti di sangue. E così è stato, soprattutto grazie a un paio di preziose consulenze finanziarie, quelle giuste per intenderci…

Il tax credit è stato fondamentale per la realizzazione del film?

Assolutamente decisivo: diciamo che un terzo del budget è stato coperto dal tax credit, sia esterno e interno. Tuttavia anche in questo caso, va detto, c’è stato un perseverante lavoro “ai fianchi” che veniva da lontano, proprio da quei due film non realizzati ma le cui sceneggiature avevano calamitato l’interesse di alcuni imprenditori privati. Imprenditori che fortunatamente ci hanno sempre sostenuto, nonostante lo sviluppo del progetto ogni tanto si frenasse per poi riprendersi. Altri tasselli produttivi dipendevano dalla scelta delle location, di qui il Fondo della Regione Lombardia (abbiamo girato in parte nel basso lodigiano) e a seguire  quello della Regione Lazio. Aggiungi sponsor vari e, last but not least, un finanziamento diretto da parte nostra come aumento di capitale della società.

Foto 1 SLTQuali consigli ti senti di dare a dei giovani autori che spesso si trovano ad avere difficoltà produttive e di finanziamento?

Non credo di essere portato a dare consigli in merito, perché su questo tema sono spesso istintivo e radicale, né d’altra parte vorrei che si finisse sempre per dire banalità del tipo: “Facciamo di necessità virtù… prodursi da soli ti dà una libertà creativa che non avresti ecc.” In realtà l’autoproduzione è un gioco insano, molto spesso frustrante, quasi sempre devastante. In tutta onestà mi viene difficile consigliarla come iter produttivo. A mente fredda dico che è sempre meglio cercare un produttore che creda in te, qualcuno con cui avere un costante scambio dialettico sul film e per il film, che lo arricchisca, perfino lo rimetta in gioco ma senza sabotarlo e che alla fine lo porti a termine.

Il film esce fuori dagli stereotipi del cinema italiano. Drammi domestici e famiglie in crisi lasciano spazio a un linguaggio nuovo, oserei dire inaspettato, un po in linea con i registi del momento Mainetti e Rovere

Complesso e sperimentale insieme sono due concetti che alle mie orecchie suonano come un complimento. Credo tuttavia che rispetto ai miei lavori precedenti questo film sia quello più leggibile, incastonato com’è tra alcuni elementi di “genere” e tensioni drammatiche da Kammerspiel. Francamente non lo accosterei troppo ai nomi da highlights, eppure in effetti ad accomunarli è proprio quella pura e ludica voglia di utilizzare il genere, decontestualizzarlo per poi approdare a qualcos’altro. Se poi questo qualcos’altro diventa un film di culto, come sembra stia accadendo a Lo chiamavano Jeeg Robot, be’, non si può che esserne felici.

Da cosa nasce l’idea del film?

Nasce da un storia vera, o almeno lo spunto iniziale si riallaccia al fatto che una mia amica, malata di tumore, associasse con convinzione la sua malattia a un intimo trauma della sua infanzia. Il mistero di quel trauma e soprattuto le reazioni ed emozioni da esso innescate, sono stati il punto che ha dato il via allo script. Questo film è un’intromissione nel “lato oscuro” della vita. Solitamente non ho alcun interesse a trattare argomenti da ricerca sociologica. Per me è molto importante tradurre delle esperienze personali con i miei mezzi estetici. È un fatto di precisione. Tutto ciò che è “macroscopico” rende la precisione impossibile e si corre il rischio di perdersi in un falso pathos.

Un cast d’eccezione (Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich) per un’opera prima: come sei riuscito a mettere insieme attori di questo calibro?

In effetti, devo ammettere che l’ottimo ed eterogeneo cast di questo film, essendo un’opera prima, non era affatto scontato. Anzi. In fase di sceneggiatura non mi ero focalizzato su nessun attore in particolare, eccetto Vitaliano Trevisan, straordinario scrittore prestato al cinema, che per me rappresenta la combinazione perfetta di stranezza, profondità e originalità. Per tutti gli altri ruoli mi sono avvantaggiato dell’esperienza preziosa e paziente della casting director Stefania De Santis, con la quale mi sono trovato molto bene. Il resto del lavoro di convincimento, probabilmente, lo ha fatto la storia e la possibilità per gli attori di sperimentare certe cose con più libertà.

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