L'articolo Happy Winter, un diorama balneare proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Il movimento perpetuo di un venditore abusivo di bevande e snack è il metronomo che segna il ritmo, la linea d’entrata e d’uscita dalla dimensione intima e riparata delle cabine: davanti agli sportelli aperti, la sintesi e la riconfigurazione di una piazza di paese, con i tavoli, le carte, le radio, i teleschermi, le partire, le chiacchiere e perfino piccoli aspiranti politici in cerca di voti; dentro, tante piccole parodie d’abitazione, regge in miniatura ognuna ricostruita e agghindata secondo il gusto e i desideri del rispettivo occupante temporaneo.
Bastano pochi minuti di visione per scoprire l’anima divisa in due di Happy Winter: da una parte la pura e semplice fascinazione per l’atto del guardare, del raccogliere e conservare pezzi di tempo riscritti da un cinema puro e semplice in un racconto implicito ma diretto; dall’altra il film, prodotto dalla giovane società indipendente torinese Indyca insieme a RAI Cinema, sembra conoscere e consapevolmente frequentare l’efficienza standardizzata della narrazione paradocumentaristica di tanta televisione contemporanea, pronto per allettare un pubblico famelico ma distratto.
Totaro dimostra una sapienza non comune nel circoscrivere un luogo facendone proliferare immagini e immaginari, nello smontarlo in parti, nel penetrarne gradualmente gli anditi più nascosti, spiandolo dalle fessure tra le cose; sapienza nel cercare e trovare il suo gruppo di protagonisti, nel coglierne e annotarne con sagacia vezzi, tic, mostruosità e grazia, innescando nello spettatore la disposizione allo stupore.
Stupore che però non arriva mai perché Totaro, forse distratto dalla comprensibile preoccupazione di non sbagliare al primo colpo, predilige la battuta a effetto, il bozzetto impressionistico, un’osservazione frenata che si limiti ad alimentare una giostra narrativa semplice, fondata sul piacere elementare e confortante del riconoscimento; del rispecchiamento offerto allo spettatore invitato a riconoscere nel piccolo mondo del film la riduzione romanzata del piccolo mondo che pensa già di conoscere.
Così Happy Winter resta la promessa di un film che ancora non è, capace di scorgere le passioni, i desideri, le tensioni, le delusioni e frustrazioni dei suoi protagonisti senza mai farcene assaggiare neppure un grammo; lasciando che le persone servano da macchiette in un piccolo diorama balneare; fermando il gioco del racconto all’evocazione di un sentimento, senza prendersi mai il rischio d’inoltrarsi sull’impervia strada dell’emozione.
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]]>L'articolo Beautiful Things, sinfonia dei cinque sensi proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Selezionato da Biennale College – bottega d’arte alla sua quinta edizione che ogni anno dà la possibilità a tre giovani autori di realizzare film low budget – Beautiful Things è l’opera prima di Giorgio Ferreri, fotografo ma soprattutto compositore e musicista torinese, che ha avuto 8 mesi per realizzarla. Il film, molto più che sperimentale, è un eccentrico tentativo – assolutamente riuscito – di racchiudere immagini, parole e suoni in un’ipnotica sinergia.
In Beautiful Things s’intrecciano 4 storie, 4 personaggi che probabilmente non si incontreranno mai, 4 esistenze ai limiti dell’isolamento, 4 eremiti della società, imperatori di regni fantasma e sotterranei che a nessuno interessa scoprire. 4 capitoli (Petrolio, Cargo, Metro e Cenere)per svelare chi c’è dietro alla gigantesca macchina produttiva di quelle “cose bellissime” di cui noi esseri umani siamo ghiotti, per raccontare le 4 fasi principali, dalla nascita alla morte, dalla creazione alla distruzione, passando per il trasporto e la commercializzazione, di qualsiasi cosa teniamo in mano, guidiamo, indossiamo.
C’è Van, manutentore di pozzi petroliferi, che nel deserto texano conduce la vita dell’ultimo uomo sulla terra; Danilo, che ricorda tanto il Novecento di Alessandro Baricco, un ingegnere meccanico filippino che vive su una nave cargo; Andrea, che da sempre trascura l’aspetto esteriore per curare la mente, scienziato bolognese votato al silenzio che si occupa di testare le proprietà acustiche di oggetti d’ogni tipo nelle immobili e silenziosissime camere anecoiche e, infine, Vito, che indossa sempre una maschera e trascorre le sue giornate dentro a una fossa di rifiuti.
Uomini soli per scelta, il “lato oscuro” della nostra bulimia consumistica, che ogni giorno creano, misurano, testano e poi distruggono quegli oggetti che amiamo, odiamo, annusiamo, collezioniamo, che a volte ci precedono e sempre ci sopravvivono.
Il punto di vista del regista è preciso ma mai imposto: lo spettatore è messo di fronte a uno specchio ed è lui a dover decidere se guardarsi dritto negli occhi o trovare l’ennesimo escamotage per non riflettersi. D’altronde siamo sempre noi a rinunciare al nostro stesso spazio vitale per fare posto a oggetti che ci ricordano qualcosa o che semplicemente crediamo ci possano rendere migliori.
Le 4 storie sono orchestrate da una regia e un ritmo rigorosi, simmetrici, ma è la musica a rendere questo documentario un’opera che sarà difficile dimenticare: tutto diviene colonna sonora, dai movimenti cadenzati della mostruosa Pumpjack petrolifera, fino a una musica diegetica realizzata da un bambino con un bastone e alcuni oggetti trovati nel deserto,per un risultato che toglie il fiato.
Storditi e quasi feriti da immagini, parole e suoni che insieme collaborano fino a fondersi, ancora confusi sul senso del film, la scena finale arriva inaspettata: un incredibile piano sequenza accompagnato da una musica capace di entrare davvero nel cervello. Due ballerini si esibiscono in un centro commerciale in una coreografia precisa e insieme scatenata che non è né la soluzione, né tantomeno la via d’uscita al nostro modo di vivere, ma in qualche modo ha il sapore della liberazione, della catarsi.
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]]>L'articolo Festival: i premi aiutano i giovani proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>A ciascuno il suo premio: festival e territorio tra indotto, identità ed empowerment locale il titolo dell’incontro, animato da un parterre di livello, con i direttori di alcune tra le manifestazioni più importanti: Giorgio Gosetti, membro del direttivo dell’AFIC (Associazione Festival Italiani di Cinema), Boris Sollazzo, Codirettore dell’Ischia Film Festival, Pedro Armocida, Direttore della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Roberto De Feo, Distributore cinematografico Prem1ere Film e coproduttore dei Fabrique Awards, Daniele Urciuolo, produttore cinematografico e direttore, tra gli altri, del Catania Film Fest e Valerio Carocci, Presidente dell’Associazione Piccolo America. Assieme a loro Elena Mazzocchi, qui nella duplice veste di Direttore Editoriale della nostra rivista e Responsabile dei Fabrique Awards, il premio dedicato alla creatività e alla sperimentazione in ambito filmico nato con lo scopo di dare il giusto riconoscimento a quanti nel cinema si impegnano con ogni mezzo a dar vita a progetti originali sia nelle forme che nei contenuti. Ha moderato il dibattito Ilaria Ravarino, giornalista e Direttore Responsabile di Fabrique.
Proprio Elena Mazzocchi ha aperto il dibattito, presentando insieme a Roberto De Feo le novità di quest’anno, con un premio – Fabrique Awards, che si celebrerà a Roma il 15 dicembre – che per la prima volta apre alle cinematografie internazionali, aggiungendo alle cinque categorie in concorso delle passate edizioni del Premio Fabrique (Miglior opera prima, Miglior opera innovativa e sperimentale, Attore rivelazione, Attrice rivelazione e Miglior tema musicale) ulteriori sezioni: Miglior film, Miglior cortometraggio, Miglior sceneggiatura, Migliore webserie e Miglior documentario.
Il dibattito subito si anima, con Boris Sollazzo, codirettore di Ischia, «un festival di locations, che vive proprio grazie al suo legame col territorio», che sottolinea quanto fondamentale e gratificante sia la risposta del pubblico a questo tipo di manifestazioni: «Vedere John Turturro applaudito da una platea entusiasta non meno di lui di essere in un luogo magico come Ischia» è uno dei segnali che dicono come un progetto culturale a cui si lavora con passione e competenza sia prezioso e riconosciuto dal pubblico. Ma, si chiede anche il giovane direttore, con una punta di provocazione, non sono forse troppi i premi cinematografici in circolazione in Italia?
«Al contrario, i premi servono – risponde Elena Mazzocchi – soprattutto ai giovani autori. L’idea che sottende i Fabrique Awards è proprio quella di evidenziare quanto ci sia di innovativo e creativo nel panorama italiano, e che spesso, ma non necessariamente, si sposa anche con criteri anagrafici». «Un festival – aggiunge Giorgio Gosetti – deve rispondere a due precise caratteristiche, identità e necessità, due delle parole chiave dello statuto dell’AFIC, che sono ancora oggi i due valori in cui crediamo di più. L’identità è data da un vero progetto culturale, mentre cosa sia la necessità ce lo dice il pubblico: un festival vuoto non è mai un festival necessario. Un festival, se non lo si costruisce per lo spettatore, non ha senso farlo».
Di spettatori ha parlato anche Daniele Urciuolo, raccontando la sua esperienza a Catania, «una splendida piazza, che tra centro città e comuni della provincia conta 600.000 abitanti e potenziali utenti». E proprio il suo festival è tra quelli più radicati sul territorio, «riuscendo a portare sul palco ospiti spesso legati alla Sicilia, dagli attori (Stella Egitto e Katia Greco su tutti) a tecnici, direttori della fotografia, operatori, montatori».
Ugualmente fruttuosa rispetto al rapporto con il territorio è l’esperienza di Pedro Armocida, direttore di un festival dalla spiccata connotazione culturale. «Pesaro nasce nel 1975, fondato da Lino Micciché e Bruno Torri. Fin dagli inizi è stato uno principali festival internazionali, e ha ospitato intellettuali come Pier Paolo Pasolini, Roland Barthes, Umberto Eco, Roberto Rossellini. Il nostro impegno è quello di mantenere quell’ispirazione, anche dando vita a momenti unici che avvengono solo durante il festival. Ad esempio ci stiamo specializzando sulla pellicola, che a torto si penserebbe superata, e abbiamo una sala interamente dedicata a questo tipo di proiezioni, con i cineasti che commentano con il pubblico il loro lavoro. E qualche volta il pubblico ci sorprende, come quando ha riempito la sala del film supertintellettuale con i sottotitoli, snobbando quella che proiettava il blockbuster americano».
Con Valerio Carocci si è passati infine ad analizzare un fenomeno forse più marginale ma di grande impatto, come l’esperienza dell’arena del Festival Trastevere Rione di Cinema, «nato come un atto politico per ottenere la riapertura della storica sala del Cinema America». Muovere dalla politica alla cultura è stato un passo necessario, ottenuto – puntualizza Valerio Carocci – anche «imparando da quanti, come i direttori qui presenti, hanno un’esperienza di peso alle spalle. Quello che forse a Roma manca è un festival che dialoghi davvero con la città, che abbia la città come sua perla principale. Trastevere è il rione del cinema, quello con più sale chiuse e aperte, quello con il maggior numero di set attivi, e volevamo raccontare questa esperienza, questo rapporto tra cinema e territorio». E conclude: «la nostra presenza ha anche apportato una serie di vantaggi a tutto l’indotto: si pensi ad esempio al mercato rionale che era sempre solo aperto al mattino e che quest’anno abbiamo portato ad aprire anche di notte».
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]]>L'articolo “Ammore e malavita”: che Napoli, quella dei Manetti proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Intanto le buone notizie: Ammore e malavita è un buon film. Di più: un ottimo film, di quelli da far crescere caparbiamente col passaparola. La musica innanzitutto, che in un musical è appunto la grammatica principale: partenza in levare, con il sound trascinante di “Scampia Disco Dance” e poi a cascata una serie di numeri destinati a diventare tormentone, da “Guaglione ‘e malavita” a “L’amore ritrovato”, remix mariano (geniale il balletto nella corsia d’ospedale con una madonna ricoperta di lumini elettrici) di “What a Feeling” dal musical Flashdance. Curata dai fratelli Pivio e Aldo De Scalzi, con testi di Nelson, la soundtrack di Ammore e malavita è un efficace mix tra folk, disco, rap e neomelodico capace di accontentare i palati musicali più raffinati, e di entrare diegeticamente nella storia in maniera talmente efficace da farsi desiderare, ancora e di più – avremmo voluto vedere più coreografie, più balletti, più numeri musicali.
E poi le facce. Una Serena Rossi così, capelli afro e ugola d’oro, in Ammore e malavita si affaccia allo spartiacque di una carriera che dovrebbe puntare adesso solo sul cinema, per capitalizzare una performance che è il film. Fatte le debite proporzioni, Rossi sta al partner di scena Giampaolo Morelli come Meryl Streep a Pierce Brosnan in Mamma Mia: lui in parte ma non avvezzo al canto, lei trascinante, energica, intonata, elemento che accorda la coppia all’armonia generale. E ancora Rais, voce autentica e volto stropicciato, e Claudia Gerini che in coppia con Carlo Buccirosso (altra idea di casting azzeccata) e in un colpo solo (“Il numero della serva”: eseguito con tanta ispirazione che ne avrebbe meritato un altro) si riconquista un livello di stima che solo ai tempi di Viaggi di nozze. E che Napoli, quella dei Manetti. Una Napoli povera ma sexy, quella delle Vele e di Scampia, ma raccontata in chiave di favola a lieto fine, tra mucchi di cozze che nascondono cadaveri e barche che contrabbandano ragazze innamorate, sparatorie tra i container e amori sospirati tra i blocchi di cemento armato sui moli di Castellammare.
Piccolo gioiello di un genere ingiustamente considerato “impossibile” in Italia, e per contrappasso unico italiano a passare il test della critica statunitense a Venezia, Ammore e malavita commette solo un errore, un peccato d’orgoglio, nel non volersi separare da qualche sequenza di troppo nella parte centrale. Meno sparatorie e più canzoni, più fiori e meno cannoni, e la ricetta sarebbe stata perfetta. Ma ci si può accontentare. È un film che si fa godere, e soprattutto, come ogni musical che si rispetti, gioiosamente cantare.
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]]>L'articolo “Una famiglia”: Riso amaro a Venezia 74 proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>In Una famiglia, selezionato abbastanza incomprensibilmente in concorso a Venezia 74, non c’è la potenza di quello sguardo, l’urgenza di quel racconto, ma solo la ricerca di una storia disturbante, posticcia, insopportabile sia per una scrittura piena di lacune che per una regia supponente e dedita a virtuosismi nel migliore dei casi pleonastici.
Il soggetto era sì rischioso, ma allo stesso tempo esplosivo: una coppia che si ama di una passione sorridente e potente, di gesti teneri e corpi pieni di desiderio sembra alla ricerca del coronamento della propria felicità. Dietro quella rincorsa, però, c’è ben altro, un abisso difficile anche solo da immaginare. E se il film tiene, per qualche decina di minuti (ma probabilmente neanche in quelli) è solo perché Patrick Bruel, il protagonista maschile, riesce a dare un minimo di spessore al suo personaggio e quindi anche alla storia. Non ci riesce, purtroppo, Micaela Ramazzotti, brava nel suo ruolo che è però viziato da dialoghi e (re)azioni assolutamente inadeguate anche ad un amore cieco come quello di Maria: in un ruolo materno così deviato e dolente, serviva l’istinto puro di quest’attrice che sa dare il meglio quando indossa personaggi scomodi e non quand’è costretta a interpretare una donna impossibile, irreale, irritante. È generosa la Ramazzotti nel darsi a un ruolo che non la meritava.
È interessante l’uso della macchina da presa, molto presente e a tratti irruenta, non alla Kechiche ma comunque spesso addosso ai protagonisti, in particolare a lei, e così risulta pregevole il lavoro di Piero Basso – direttore della fotografia e qui anche operatore -, sebbene poi si perda negli arzigogoli creativi del film che coinvolge anche la grammatica visiva del film, sempre più calligrafica man mano che va avanti.
Non riesci a credere nell’oscuro cavaliere Vincent, cinico portatore di vita e morte e allo stesso tempo in attesa di salvare damigelle in pericolo per poi portarle con lui nell’oscurità e farle vivere infelici e scontente (che spreco la brava Matilda De Angelis nel ruolo incompiuto e marginale di “riserva”), non riesci a soffrire per Maria, troppo ingenua e succube, incapace di trovare se stessa ma solo di specchiarsi, deformandosi, in lui, urlandogli contro, ma poi servendolo cieca. C’è forse in Fortunato Cerlino e ancora di più in Ennio Fantastichini – che attore! – un barlume, un momento importante che nasce dai rispettivi talenti, capace di dare tridimensionalità laddove non c’è.
Una famiglia è la dimostrazione di quanto i giovani autori italiani a volte tendano a rinchiudersi in un cinema autoreferenziale, completamente distaccato dal pubblico e dal mondo (assomigliano, in questo, ai colleghi degli anni ’90), fortemente schematico e pregiudiziale. Quando non è noioso, Una famiglia diventa grottesco, in particolare nelle metafore ridicole (il Cupolone in lontananza sulla tirata anti vaticano farebbe diventare simpatico Adinolfi) o in scene tragiche che non tengono la tensione emotiva.
Riso forse, con questo secondo film, fa anche un giusto atto di arroganza artistico: sa di avere talento e tenta la scommessa rischiosa, non la crescita graduale. La sua caduta è fragorosa, ma noi aspettiamo che ricominci da tre. E si rialzi.
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]]>L'articolo “Ella & John”, l’on the road romantico di Paolo Virzì proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Togli insomma tutto quel che ti puoi aspettare da Paolo Virzì come autore, toglilo e sostituiscilo con qualcosa di nuovo: gli Stati Uniti, i campeggi davanti ai laghi, i fast food e le autostrade, la musica di Janis Joplin, una storia che più romantica non si può, due interpreti che più bravi non si può (Helen Mirren, Donald Sutherland), i silenzi che trovano finalmente spazio in copione, il ritmo da ballata, l’on the road come genere su cui far nascere germogli di commedia.
È dunque un Virzì completamente nuovo quello di Ella & John, il film presentato in concorso a Venezia e tratto, con molte e significative libertà, dal romanzo di Michael Zadoorian uscito in Italia con l’orrendo titolo In viaggio contromano: e alla sua prima prova in lingua inglese, girata sul suolo americano, il regista di Livorno sembra volersi godere lo spettacolo di una macchina che va avanti (quasi) da sola, senza doverne oliare i cardini a colpi di trovatine di sceneggiatura, rimontine brillanti, omaggi e citazioni da pagare a maestri, padri, tradizione.
Per una volta invisibile, o meglio in trasparenza, Paolo Virzì sceglie l’on the road come cornice per raccontare una storia d’amore, quella di due anziani alla guida di un camper lanciato – con estrema probabilità – in un viaggio che non prevede ritorno. Lei malata terminale, lui d’Alzheimer, sullo sfondo un’America malata di rabbia che non ruba mai la scena alla vera protagonista di questa storia: l’emozione.
Sia chiaro: si ride, e anche tanto (soprattutto nelle sequenze originali, quelle scritte appositamente per il film). Ed è forse questo a rendere Ella & John un’operazione molto rischiosa. Perchè Paolo Virzì sceglie, sì, l’on the road e la commedia, ma li tradisce entrambi realizzando un film in cui il viaggio è un pretesto e la commedia solo un trucco per allontanare la morte. Tradimento? Forse. Ma Ella & John, per sincerità e urgenza emotiva, è uno dei migliori film firmati da Virzì negli ultimi anni.
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]]>L'articolo “Il contagio” di Botrugno e Coluccini proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Per l’opera seconda – punto cruciale nella carriera di un regista – i due confermano la direzione intrapresa con il film precedente, alzando coraggiosamente il tiro e ingrandendo la dimensione delle aspirazioni: la base è l’adattamento dell’omonimo imponente romanzo di Walter Siti, dal quale il film trae direttamente l’idea di un racconto pendolare che mette orizzontalmente in comunicazione il centro e la periferia della capitale; l’orizzonte è quello di una nuova tragedia urbana che tiene insieme lirismo e verismo, narrazione corale e consapevolezza politica.
Il film cerca di trovare una forma audiovisiva per il libro che traduca sullo schermo – ritrovandone l’essenza, senza imitarne pedissequamente la struttura – il congegno verbale complesso e stratificato della pagina scritta. Anche solo per questo Il contagio è già di per sé un caso raro, quasi eccezionale nel panorama del cinema italiano, condensando gli sforzi di due giovani autori che provano a raccontare il presente, lontano dalla tentazione di compiacere il pubblico, seguendo invece la difficile strada di una ricerca autentica.
Così nell’incipit prevale il gioco di esplorazione e descrizione del microcosmo costituito da un piccolo pezzo del più vasto continente della borgata romana, passando in rassegna i volti, i gesti, le voci, i dialetti e i linguaggi, la geografia caotica di un nuovo deserto urbano. Una carrellata di personaggi e situazioni che gradualmente rallenta, per riordinarsi e riconfigurarsi presto – prima della metà – in un più compatto e circoscritto montaggio di storie che scorrono vicine, fino a un finale ricongiungimento narrativo che è anche ricapitolazione di anime e d’esistenze.
L’impianto del racconto trova coerente rispecchiamento nello stile visivo – frutto anche del lavoro a tre con Davide Manca, già responsabile della fotografia del film precedente: le inquadrature e i movimenti di macchina che si alternano e articolano tra loro in serie ordinate quasi musicalmente; la scrittura cromatica e luministica che dalle tinte chiare e calde dell’inizio degrada, come in un precipizio dell’occhio e dell’emozione, ai colori freddi e cupi che connotano e definiscono il passaggio dalla periferia al centro della città, nella seconda parte del film, la più oscura. Quasi che l’intenzione all’origine del progetto fosse quella di far crescere lo stile proprio dei due registi in una forma matura e canonica, insinuando nell’estetica corrente del cinema italiano di questi anni gli elementi fondamentali della grammatica formale dei due romani, Botrugno e Coluccini selezionano e montano insieme molti, forse troppi materiali senza riuscire sempre a farli brillare, a costruirli in un circuito che produca uno scarto di senso.
Il contagio funziona a fasi alterne, qua e là assortendo punti d’inerzia e momenti di sintesi eloquente, ma cerca una via originale e alternativa zigzagando tra generi e clichè, evitando le secche del film denuncia tanto quanto la sterile inerzia del bozzettismo, e conferma in fondo la verità del lavoro di due registi ancora orgogliosamente in cammino.
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]]>L'articolo Venezia 74: Nico, 1988 apre Orizzonti proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Come hai “incontrato” Nico?
Ho sempre avuto la passione per la musica. A 16 anni ascoltai per la prima volta The Velvet Underground & Nico, il famoso album con la banana, e continuo a farlo ancora oggi. Non mi ha mai stufato. Ricordo che Nico mi colpì subito. Ma quando chiesi ai miei amici chi fosse, loro mi dissero che era una che dopo i Velvet aveva fatto solo “roba inascoltabile”. Lessi poi un libro di interviste in cui si parlava di lei come di una che era stata a letto con tanta gente, con Bob Dylan, Jim Morrison, Iggy Pop, e che dopo i 34 anni era “una donna finita”. A quel punto cominciai a innervosirmi. Ho cercato di capire cosa avesse fatto dopo quel famoso disco, che aveva registrato a 28 anni, e ho scoperto un’artista meravigliosa.
Cosa le era successo dopo i Velvet?
Nel corso degli anni Sessanta aveva avuto una storia turbolenta con Jim Morrison, durata qualche mese ma molto importante. Fu lui, uno dei più grandi amori della sua vita, a insegnarle a scrivere i testi delle canzoni. «Scrivi i tuoi sogni», le diceva. Certo, loro si facevano di acidi e di LSD… poi Nico rimediò un harmonium, uno strumento che si suonava anche senza grandi conoscenze musicali, e così lei cominciò a comporre. All’inizio degli anni ’70 scrisse i suoi dischi più belli, fece le colonne sonore per Garrel, con cui ebbe una lunga storia d’amore. Faceva una musica tenebrosa, sperimentale, strana. Di fatto influenzò quello che sarebbe stato il gothic e la new wave. Lei, che era stata l’icona bionda e algida di Warhol, diventò per tutti la sacerdotessa delle tenebre. Non era vero che a 34 anni era finita.
Però il film esplora i suoi ultimi due anni: perché?
Perché è dopo i quarant’anni che Nico ha ripreso il controllo della sua vita. È vero che nei Settanta la sua produzione era splendida, ma aveva problemi di eroina, era senza una lira, era in piena decadenza. All’inizio degli anni Ottanta invece ha messo ordine nella sua vita: si è trasferita a Manchester, ha trovato un manager, il manager le ha aperto un conto in banca, e con il metadone è riuscita a tenere sotto controllo la dipendenza dall’eroina, ritrovando il rapporto con il figlio.
Ci vuole coraggio ad affrontare un mito come Nico?
No, perché questa è una storia europea che andava raccontata con un film europeo. Nico era tedesca, era inglese la band con cui andava in giro, il figlio era francese, hanno suonato in Italia e oltre cortina… Nico non era una star americana, anche se la fama l’ha trovata negli Stati Uniti.
Ci vuole coraggio a girare un film su questa Nico?
Ecco, sì. Quando cercavo finanziamenti, spesso mi sentivo rispondere che avrei fatto meglio a fare un film sulla Nico “icona”, e non sulla Nico “vecchia”. È il meccanismo crudele della fabbrica dei miti: prima ti innalzano come icona, poi ti denigrano dandoti della sfigata. E invece Nico dopo Nico è la donna che è sempre stata dietro all’icona. L’icona non era niente, lei stessa diceva di essere diversa da quella che cantava canzoni di altri suonando il tamburello. Non è un film patetico su una star decaduta, ma un anti-biopic sulla donna aldilà dell’icona.
Come si lega questo film ai tuoi precedenti?
I miei film hanno in comune il rapporto con la Storia che si intreccia con le storie private. E la dimensione antinostalgica, l’idea di capovolgere l’immagine sempre idealizzata che si ha del passato.
E arriviamo a Trine. Perché lei?
Avevo bisogno di un’attrice brava, che avesse anche energia e positività. Mi serviva qualcuno con cui potessi lavorare sul personaggio. Una che non avesse paura di non apparire abbastanza bella, o invecchiata. Trine aveva sia la tecnica che l’umanità. E da ragazzina ha vinto un concorso canoro europeo, ha inciso due dischi… la verità? Canta meglio di Nico. E riarrangiare le canzoni, con lei e i Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo, è stato divertentissimo.
Leggi l’intervista completa sul prossimo numero di “Fabrique du Cinéma”, disponibile nelle sale cinematografiche, nelle scuole e nelle accademie di cinema dal 2 settembre.
L'articolo Venezia 74: Nico, 1988 apre Orizzonti proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>L'articolo Casa Fabrique a Venezia 74 proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>Casa Fabrique, una meravigliosa villa a 200 metri dal Palazzo del Cinema (lungomare G. Marconi, 25) è la cornice ideale per ospitare i protagonisti del nuovo cinema italiano, presenti al Festival di Venezia, intervistati ogni giorno per Fabrique du Cinéma dalla fashion blogger Alessandra Airò.
Tra le tante attività che si svolgeranno a Casa Fabrique lo showroom della celebrity stylist Stefania Sciortino, la gift room per i nostri ospiti, e l’intervento quotidiano di addetti ai lavori e giornalisti sui film e gli eventi presenti alla Mostra, a cura della direttrice responsabile di Fabrique du Cinéma Ilaria Ravarino. Il portfolio di Fabrique sarà realizzato da Roberta Krasnig.
Inoltre da Casa Fabrique l’1 settembre verrà lanciato il concorso Tweet Your Script che coinvolgerà gli appassionati del grande schermo, chiedendo loro di condensare in 140 caratteri (incluso l’hashtag #FabriqueTYS) un’idea vincente per un film mai realizzato prima.
Il contest sarà aperto a ricevere i tweet dei concorrenti fino al 15 ottobre, accompagnando la fase di selezione del Fabrique International Awards, il premio con cui la rivista promuove la creatività e la sperimentazione in ambito cinematografico, aperto da quest’anno alla produzioni di tutto il mondo.
Tutte le idee presentate saranno selezionate e giudicate dalla redazione di Fabrique du Cinéma e l’autore/autrice dell’idea vincente sarà premiato in occasione dell’evento conclusivo del Fabrique International Awards, che si terrà a Roma il 15 dicembre prossimo.
Infine, il 2 settembre alle ore 17 presso l’Hotel Excelsior, nello Spazio della Regione del Veneto si svolgerà la tavola rotonda dal titolo:
“A ciascuno il suo premio: festival e territorio tra indotto, identità ed empowerment locale”
Il dibattito della tavola rotonda, stimolato dalla presenza di importanti direttori di festival cinematografici nazionali, avrà l’obiettivo di identificare l’indotto sociale, economico e culturale di eventi, premi e rassegne cinematografiche sul proprio territorio.
Sarà anche l’occasione per presentare il nuovo numero della rivista con la cover delle gemelle Fontana, gli approfondimenti su John Turturro, i consigli di Ferzan Ozpetek ai giovani registi, e il focus su Susanna Nicchiarelli e la sua “Nico 1988” post rock, film di apertura a Venezia nella sezione “Orizzonti”.
CASA FABRIQUE
LUNGOMARE G. MARCONI 25
LIDO DI VENEZIA
INFO
https://www.fabriqueducinema.it/
https://www.facebook.com/FabriqueDuCinema
[email protected]
UFFICIO STAMPA Fabrique du Cinéma
Antonella Bartoli | [email protected] | 339 7560222
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]]>L'articolo Venezia 74, virtuale e nazionale proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>È il programma, e finalmente nella sua interezza – Venezia 74, Cinema nel Giardino, Orizzonti, Venice Virtual Reality – il primo effetto speciale della 74a edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. È un’impressione, ma al giro di boa della prima metà della conferenza stampa il pensiero comune è che con il solo cartellone di Orizzonti, 19 proiezioni precedute da piccole cine-pillole sull’Istituto Luce, si sarebbe potuto allestire un dignitosissimo festival. Apertura con Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, tre film iraniani, un’opera prima italiana di genere (Brutti e cattivi di Cosimo Gomez), un film d’animazione (il napoletano La Gatta Cenerentola di Alessandro Rak), il gioiellino poetico franco-giapponese La nuit où j’ai nagé, un paio di film shock tratti dalla cronaca nera (l’americano The Rape of Recy Taylor di Nancy Buirski e Caniba di Lucien Castaing-Taylor), un film che analizza il fallimento delle primavere arabe. E ancora, tra i cortometraggi, i tre italiani L’ombra della sposa di Alessandra Pescetta, Mon Amour, Mon Ami di Adriano Valerio e Futuro Prossimo di Salvatore Mereu.
Un cartellone di respiro internazionale quello di Orizzonti, attento alle opere prime e all’equilibrio (ideale: certamente non ancora raggiunto) di genere, che non teme il confronto con il concorso, tra i più riusciti – almeno su carta – degli ultimi anni. Venezia 74 si aprirà dunque con l’annunciato fanta-ecologico Downsizing di Alexander Payne e si chiuderà con Lutrage Coda di Takeshi Kitano; tra i 21 titoli ben quattro sono italiani, Paolo Virzì con Ella & John-The Leisure seeker ispirato al romanzo di Michael Zadoorian, il musical Ammore e malavita dei Manetti Bros (“Il nostro azzardo, una scommessa”, ha detto il direttore Alberto Barbera), Una famiglia di Sebastiano Riso e Hannah di Andrea Pallaoro. In concorso anche Suburbicon, sesta regia di George Clooney che reinterpreta in chiave politica uno script inedito dei fratelli Coen, Abellatif Kechiche con il primo atto di una (possibile) trilogia Mektour, My Love, canto uno, il messicano Guillermo del Toro con il fanta-romantico The shape of water (La forma dell’acqua), il libanese Ziad Doueiri con L’insulte, La villa di Robert Guediguan, Lean on pete dell’inglese Andrew Haigh e ancora il thriller Mother di Darren Aronofsky con Jennifer Lawrence. Completano il cartellone di Venezia 74 Three billboards outside Ebbing, Missouri (Tre manifesti a Ebbing) di Martin McDonagh con Frances McDormand, l’australiano Sweet country del regista aborigeno Warwick Thornton, il maestro Frederick Wiseman con Ex libris-The New York Public library e il 71enne Paul Schrader con First reformed con Ethan Hawke e Amanda Seyfried. Unica donna in concorso la cinese Vivian Qu, con Jia Nian hua (Gli angeli vestono in bianco) sulla violenza di genere.
E intorno ai due concorsi ancora molte altre cose, prima fra tutte la realtà virtuale su cui Venezia scommette arditamente e con decisione, rianimando per l’occasione una location speciale, l’isola del Lazzaretto Vecchio. Ventidue i film VR in concorso, fruibili nella sala “tradizionale” con sedie girevoli, in 5 postazioni standup live, e ancora attraverso sei installazioni interattive. Presenti, e questa è la novità, anche alcuni titoli italiani in VR: Gomorra Vr – We Own The Streets di Enrico Rosati, Chromatica di Flavio Costa e Denoise (Beautiful Things) di Giorgio Ferrero. Fuori concorso, e per il Cinema nel Giardino, ancora tanta Italia: Controfigura di Ra Di Martino, Manuel di Dario Albertini, Nato a Casal di Principe di Bruno Oliviero e la serie Suburra firmata per Netflix da Michele Placido.
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