Valerio Mastandrea Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:08:48 +0000 it-IT hourly 1 Troppo azzurro, il nostro Woody Allen millenial https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/troppo-azzurro-la-dolce-tossicita-di-un-woody-allen-millenial/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/troppo-azzurro-la-dolce-tossicita-di-un-woody-allen-millenial/#respond Fri, 10 May 2024 12:48:31 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19136 Da tutto il 2023 a oggi sono uscite alcune opere prime che messe insieme iniziano a comporre un significativo mosaico di sogni, paure, speranze e delusioni dei giovani dagli under 20 fino a quelli più in prossimità dei 30, gli Z e i millenials. Se con Una sterminata domenica di Alain Parroni «credere in qualcosa […]

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Da tutto il 2023 a oggi sono uscite alcune opere prime che messe insieme iniziano a comporre un significativo mosaico di sogni, paure, speranze e delusioni dei giovani dagli under 20 fino a quelli più in prossimità dei 30, gli Z e i millenials. Se con Una sterminata domenica di Alain Parroni «credere in qualcosa è impegnativo» per un trio di ventenni intorno a graffiti e a una gravidanza, con Non credo in niente di Alessandro Marzullo il manifesto sulla disillusione potrebbe ritenersi compiuto fin dal titolo. Ma se con la tossica relazione di non-amore del suo Patagonia Simone Bozzelli ci ha infilati in un dramma dirompente quanto rassegnato nel suo finale, Pilar Fogliati e le sue quattro ragazze Romantiche ci hanno portati in una dimensione umoristica più leggera e spensierata dove le eroine hanno un atteggiamento tutto sommato costruttivo. Si potrebbero citare pure i road movie Noi anni luce di Tiziano Russo e Io e il secco di Gianluca Santoni, o i visionari Space Monkeys di Aldo Iuliano e Amanda di Carolina Cavalli, che però sono del 2022. La tessera più recente di questo mosaico del più nuovo cinema italiano è Troppo azzurro di Filippo Barbagallo.

Il venticinquenne Dario vive ancora accudito dai suoi genitori, circondato dagli amici ex-liceali di sempre e dietro al sogno di una ragazza “impossibile”. In un’estate romana di casa vuota e genitori in vacanza ne conoscerà un’altra di ragazza, e da lì si accavalleranno amori e occasioni. La confezione colorata, pop e stilisticamente ineccepibile rende questo primo lavoro di Barbagallo piacevole come una bibita fresca con retrogusto un po’ amaro. Storia umoristica di un ragazzo romano del centro, delle sue insicurezze esistenziali e delle sue molteplici scuse per tirarsi indietro, allungare la coperta del proprio quartiere bene per scacciare quell’ansietta, per riuscire a respirare in una sempiterna comfort zone, anche al costo di soffocare chi da fuori l’alimenta e chi lo vorrebbe accogliere nel proprio mondo.

Barbagallo nasce come sceneggiatore fresco di Centro Sperimentale di Cinematografia, un paio di film come assistente alla regia, Tito e gli alieni di Paola Randi e Ride di Valerio Mastandrea. Seppur figlio d’arte, il padre è il produttore Angelo Barbagallo, estraneo però a questo progetto, il giovane regista, e per la prima volta anche attore, mette su un piccolo pamphlet di nevrosi metropolitane giovanili.

Il suo Dario, con la sua dolce tossicità sembra a volte un piccolo Woody Allen millenial, la sua New York è Roma, e il suo Gershwin Pop X, che ha composto le musiche. Un’elettronica pop con suoni saltellanti da videogame alternati a momenti più contemplativi. Visivamente il regista forse smarmella un po’ rendendosi patinato, magari per ammiccare al pubblico giovane, ma in realtà quella solarità è proprio il lievito madre del suo sguardo. Poi ti splitta sullo schermo varie istantanee di corpi avvinghiati e discorsi teneri in un letto dopo un amplesso, o stringe il formato come Dolan in Mommy, adattando però il nostro schermo alla forma verticale di uno smartphone per la soggettiva di una chat. E non manca di alternare scenari di periferia alla contemplazione di ruderi o isole tirreniche. Tutto molto gratificante al nostro sguardo, certo, ma sotto sotto il disagio di una generazione dove i maschietti passano spesso per tontoloni e le ragazze ambiscono a svegliarli è un fil rouge.

Se non il papà, Barbagallo ha avuto un braccio destro d’eccezione, Gianni Di Gregorio, come supervisore artistico che lo ha plasmato in attore. Insomma, un po’ come Sergio Leone per il novello regista Carlo Verdone, o come Giovanni Veronesi per l’esordio di Pilar Fogliati dietro la macchina da presa. Sceglie un cast autoironico e funzionale alla sua scrittura, Barbagallo. Il padre appiccicoso lo interpreta proprio Mastandrea, le due contendenti di Dario hanno i visi e gli stupori di Martina Gatti e Alice Benvenuti, mentre l’inseparabile amico grillo parlante è Brando Pacitto. Questa scacchiera per «raccontare le sensazioni speciali che durano un attimo», ha dichiarato il regista. Ma se da una parte un’adolescenza prolungata si fa comodo rifugio dall’ansia verso «futuri che non si sono mai avverati», dall’altro ogni occasione si fa metafora del trampolino, quel buttarsi nella vita che prima o poi tutti dovranno affrontare. Come quelli citati all’inizio è un nuovo autore Barbagallo, ha da dire cose piuttosto interessanti in forma e sostanza, e per questo andrebbe tenuto d’occhio da chi si chiede dove stia andando il nuovo cinema italiano.

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Siccità, la Roma più arida di sempre è targata Paolo Virzì https://www.fabriqueducinema.it/festival/siccita-la-roma-piu-arida-di-sempre-e-targata-paolo-virzi/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/siccita-la-roma-piu-arida-di-sempre-e-targata-paolo-virzi/#respond Fri, 09 Sep 2022 07:24:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17625 Tanti, troppi film sono ambientati a Roma, non è una novità. Ma quando un autore ne fa una distopia decidendo di prosciugarla per una crisi idrica, ovviamente giusto con effetti visivi, la cosa si fa più interessante. Mettiamoci pure un bel cast numeroso messo in scena con bilanciata coralità aggiunto alla firma di Paolo Virzì […]

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Tanti, troppi film sono ambientati a Roma, non è una novità. Ma quando un autore ne fa una distopia decidendo di prosciugarla per una crisi idrica, ovviamente giusto con effetti visivi, la cosa si fa più interessante. Mettiamoci pure un bel cast numeroso messo in scena con bilanciata coralità aggiunto alla firma di Paolo Virzì e il gioco è fatto. Almeno per le prime aspettative che si erano già viste dal trailer. Il regista livornese sbarca al Lido ufficialmente fuori concorso, inoltrandosi nelle spire del drammatico, non sempre generose con lui, ma lo spettacolare azzardo per Siccità ci conduce quasi dalle parti del disaster movie. E anche per la situazione di surreale stasi apocalittica nel cuore della nostra Italietta di sfruttatori e di sfruttati, nonché per il generoso parterre di attori, ricorda vagamente L’ingorgo di Luigi Comencini.

In questa Roma anche sui pavimenti delle case borghesi vivono di nascosto gli scarafaggi, Virzì ci tiene sempre a farci notare quanto la sete e la sporcizia diventino generali e trasversali in questa Roma in caduta libera. L’acqua è razionata e i vigili urbani inseguono i trasgressori che utilizzano l’acqua per lavare l’auto. Cosa vietatissima. Intanto l’estate torrida ha seccato il Tevere mostrandocelo vuoto come una specie di giallastra discarica abusiva.

Dai quartieri bene l’influencer Tommaso Ragno dispensa saggezze fioccanti di like e commenti col suo smartphone; l’autista Valerio Mastandrea attraversa invece la città e le manifestazioni violente alle prese con allucinazioni dal suo passato sedute sul suo sedile posteriore; Elena Lietti spreca acqua annaffiando di nascosto una piantina mentre messaggia febbrilmente; Silvio Orlando fa un carcerato di Rebibbia, sorridente pure se di lungo corso; e Gabriel Montesi è un borgataro che ricomincia a lavorare dopo un difficile periodo di stop.

Ma ci sono pure Vinicio Marchioni, Sara Serraiocco, Monica Bellucci, Max Tortora, Emanuela Fanelli, Claudia Pandolfi e Diego Ribon (gustosissimo il suo serioso climatologo veneto salito agli onori delle cronache). Tutti personaggi necessari i loro, ognun col proprio peso narrativo, e perfettamente stilizzati. Pregio di una scrittura orizzontale che tesse una rete abilmente snodata dall’inizio alla fine lasciandoci esplorare i meandri di un mondo-Roma inedito e stupefacente. E, nella loro tragicità, prendendo vita dal calamaio di un commediografo, non mancano neanche di farci sorridere amaramente.

Giunge alla sua opera più matura Virzì, complice anche la pandemia Covid. Siamo di fronte a un affresco distopico e di costume perché racconta non proprio un futuro, ma un oggi diverso, possibile e speriamo non probabile, fatto di anime che sono tra noi. Forse è questo lo spirito del tempo colto da un regista come lui. Per questo Siccità è accostabile alla sua pièce teatrale Se non ci sono altre domande, ma pure al suo più celebre Ferie d’agosto. Entrambi corali, totali, e guarda caso, con Silvio Orlando.

Impressionano il dramma ambientale e sociale, il senso di sconforto e disorientamento di fronte alla privazione di acqua. H2O come elemento fondamentale della vita, dell’equilibrio e della sanità. Toglierla a un paese e alla sua capitale fa venire quasi le traveggole, come una visione di pre-Natività in mezzo al letto seccato del Tevere, quando uno dei protagonisti guarderà attonito un uomo simile a un San Giuseppe immigrato, in cammino a condurre con sé un asinello sul quale siede una ragazzina incinta. Insomma, Siccità vi potrebbe seriamente scoppiare dentro al cuore quando uscirà al cinema. Non all’improvviso, ma il 29 settembre.

 

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A Cannes l’Euforia di Valeria Golino supera l’esame https://www.fabriqueducinema.it/festival/a-cannes-leuforia-di-valeria-golino-supera-lesame/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/a-cannes-leuforia-di-valeria-golino-supera-lesame/#respond Thu, 17 May 2018 07:03:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10391 In concorso nella sezione “Un certain regard” del Festival di Cannes 2018, Euforia, seconda regia cinematografica di Valeria Golino, conferma tutti i difetti e i pregi del cinema italiano medio d’autore: il focus sui personaggi più che sull’intreccio, la capacità di creare singole sequenze d’impatto emotivo e poetico (più spesso poeticizzante), la cronica difficoltà nel […]

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In concorso nella sezione “Un certain regard” del Festival di Cannes 2018, Euforia, seconda regia cinematografica di Valeria Golino, conferma tutti i difetti e i pregi del cinema italiano medio d’autore: il focus sui personaggi più che sull’intreccio, la capacità di creare singole sequenze d’impatto emotivo e poetico (più spesso poeticizzante), la cronica difficoltà nel costruirci intorno un film propriamente detto.
Une veloce sinossi: Matteo (Riccardo Scamarcio) e Ettore (Valerio Mastandrea) sono due fratelli estremamente diversi, il primo è un imprenditore carismatico e apertamente omosessuale, mentre il secondo è un uomo pacato che vive ancora nella piccola città di provincia dove entrambi sono nati e cresciuti. La scoperta della malattia di Ettore permette ai due fratelli di avvicinarsi e conoscersi veramente, di evidenziare le differenze e di comporre le distanze.
euforia diretto da valeria golino
Non riconosciamo una personalità registica peculiare nella Golino, ma di sicuro una solida preparazione tecnica e una capacità di trovare la giusta distanza dagli eventi messi in scena. L’omosessualità di Marco non è per nulla caricata dei luoghi comuni a cui (troppo) spesso il nostro cinema ancora si affida, e l’evento da cui prende le mosse la vicenda (la malattia di Ettore, che lo costringe a trasferirsi a Roma a casa del fratello) non scade mai nel pietismo o nella lacrima facile.
Mastandrea offre una prova misurata senza rinunciare ad alcuni vezzi di repertorio, ma è Scamarcio, dopo l’ottima prova in Loro di Sorrentino, a confermare di star vivendo una seconda fase di carriera migliore di quanto la prima avrebbe potuto far credere. Fase iniziata proprio qui a Cannes due anni fa, e ancora al Certain regard, con Pericle il nero di Stefano Mordini.
Una ridda di comprimari più o meno indovinati accompagnano la strana coppia di questa sorta di anomalo “buddy movie” (Isabella Ferrari, Jasmine Trinca, che al Regard rimette in palio il titolo di miglior interprete portato a casa l’anno scorso con Fortunata di Castellitto), il cui unico difetto, non da poco, è, come già anticipato, quello di essere scevro di snodi narrativi davvero convincenti, e di andare avanti a strappi.
Una visione non indimenticabile ma, quando i due protagonisti danzano sulle note di Guardo gli asini che volano nel ciel, celebre numero di Stanlio e Ollio, un velo di commozione vi stringerà inevitabilmente la gola. Non più di una sufficienza piena, ma neanche meno.

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“Fai bei sogni”, Bellocchio torna a convincere https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/fai-bei-sogni-bellocchio-convince-di-nuovo/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/fai-bei-sogni-bellocchio-convince-di-nuovo/#respond Thu, 10 Nov 2016 09:27:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3778 Esce oggi nelle sale il nuovo lavoro di Marco Bellocchio, un dramma commovente e appassionante, già molto ben accolto allo scorso Cannes come film d’apertura alla Quinzaine des Réalisateurs.  Se si esclude l’interessante e in fondo poco conosciuto Sorelle mai (2010), risultato dell’unione di una serie di cortometraggi realizzati nel contesto del corso di regia da lui curato da […]

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Esce oggi nelle sale il nuovo lavoro di Marco Bellocchio, un dramma commovente e appassionante, già molto ben accolto allo scorso Cannes come film d’apertura alla Quinzaine des Réalisateurs. 

Se si esclude l’interessante e in fondo poco conosciuto Sorelle mai (2010), risultato dell’unione di una serie di cortometraggi realizzati nel contesto del corso di regia da lui curato da diversi anni a Bobbio, era dai tempi di Vincere (2009) che Marco Bellocchio non dirigeva un film davvero convincente e al livello della sua produzione dei primi anni duemila (L’ora di religione, 2002; Buongiorno, notte; 2003; Il regista di matrimoni; 2006).

Gli ultimi due suoi lavori Bella addormentata (2012) e il recente Sangue del mio sangue (2015) infatti, entrambi presentati in concorso al Festival di Venezia, per motivi e in misure differenti non erano risultati riusciti. Se il primo, pur potendo contare su dei buoni momenti, si caratterizzava per uno squilibrio tra le diverse linee narrative, il secondo era stato addirittura una vera e propria delusione, dividendosi in due macro-parti troppo lontane tra loro e in particolare con una seconda metà esplicitamente farsesca ben poco ispirata, forzata e troppo sopra le righe.

Con Fai bei sogni però, a sette anni di distanza dal potente e stilisticamente assai affascinante Vincere, Marco Bellocchio si è ritrovato. E piuttosto sorprendentemente lo ha fatto adattando l’omonimo best-seller autobiografico del 2012 di Massimo Gramellini, in cui il noto giornalista ha raccontato la propria vita e il lungo percorso che lo ha condotto ad affrontare il passato, la perdita della madre avvenuta quando era bambino e la verità su quel traumatico accadimento, scoperta solo in età adulta.

Pur rimanendo fedele al romanzo, il settantaseienne autore bobbiese ha modificato la struttura temporale del racconto originale (il cui cuore è rappresentato da un unico lungo flashback), affidandosi a numerosi salti in avanti e indietro nel tempo al fine di mostrare sul grande schermo i traumi infantili del protagonista e le difficoltà da adulto ad essi connessi con notevole pathos.

La forza di Fai bei sogni sta in primis nel riuscire a mettere in campo, ad ogni istante, uno sguardo sincero e vivo. Tra i momenti del passato in cui Massimo è bambino colpiscono ad esempio alcune immagini attraverso le quali viene restituito con tatto e semplicità il mondo della fanciullezza: il gioco con le dita della mani che simulano il movimento delle gambe a scuola, la raccolta delle molliche con un coltello mentre è a tavola con il padre, i salti sul divano per imitare i tuffi dal trampolino che sta vedendo in tv. Molto intensi sono poi alcuni momenti della vita da adulto, come quelli che lo vedono protagonista insieme alla dottoressa di cui si innamora (si pensi al bizzarro incontro in ospedale dopo l’attacco di panico e alla bella scena in piscina) o nel caso dell’incontro notturno rivelatore con la zia anziana.

In questo contesto, Bellocchio è anche molto abile ad evitare il ricorso a ogni tipo di retorica. Persino uno dei momenti da questo punto di vista più a rischio, in cui Piera Degli Esposti appare in un cameo, viene infine stemperato da una efficace battuta in grado di conferire alla scena un tono ironico e completamente diverso rispetto a quanto ci si potesse aspettare.

Nonostante alcuni passaggi narrativi possano risultare un po’ troppo veloci e non particolarmente approfonditi, dunque, Fai bei sogni non ha mai cali di ritmo per le oltre due ore di durata, si avvale di un ottimo cast (dal giovanissimo Nicolò Cabras a Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo, passando per Guido Caprino e Barbara Ronchi) e rappresenta un convincente ritorno dietro la macchina da presa per uno dei registi più importanti del panorama cinematografico italiano.

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Fabrique con il cinema italiano a sostegno del Baobab https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/fabrique-con-il-cinema-italiano-a-sostegno-del-baobab/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/fabrique-con-il-cinema-italiano-a-sostegno-del-baobab/#respond Thu, 21 Jul 2016 12:58:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3420 Il 19 luglio 2016 moltissimi autori e protagonisti del cinema italiano si sono mobilitati a sostegno del Baobab, associazione che si occupa dei migranti transitanti a Roma. Moltissimi sono stati i sostenitori di questa iniziativa, fra cui: Gianni Amelio, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Gianfranco Rosi, Daniele Vicari, Andrea Segre, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Valeria Golino, […]

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Il 19 luglio 2016 moltissimi autori e protagonisti del cinema italiano si sono mobilitati a sostegno del Baobab, associazione che si occupa dei migranti transitanti a Roma.

Moltissimi sono stati i sostenitori di questa iniziativa, fra cui: Gianni Amelio, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Gianfranco Rosi, Daniele Vicari, Andrea Segre, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Valeria Golino, Luca Zingaretti, Claudio Santamaria, Mario Martone, Maya Sansa, Sabina Guzzanti.

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Matteo Martari https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/matteo-martari/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/matteo-martari/#respond Fri, 08 Jul 2016 14:57:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3353 Entusiasmo, umiltà e tanta voglia di mettersi in gioco. L’attore veronese si racconta, dagli esordi nel mondo della moda ai primi passi sui set cinematografici. Matteo nasce 32 anni fa nella città di Romeo e Giulietta e oggi è uno dei talenti emergenti del cinema italiano. Nel mezzo, naturalmente, non sono mancati i colpi di […]

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Entusiasmo, umiltà e tanta voglia di mettersi in gioco. L’attore veronese si racconta, dagli esordi nel mondo della moda ai primi passi sui set cinematografici.

Matteo nasce 32 anni fa nella città di Romeo e Giulietta e oggi è uno dei talenti emergenti del cinema italiano. Nel mezzo, naturalmente, non sono mancati i colpi di scena. Per primo, il debutto davanti agli obiettivi delle più prestigiose case di moda. Ma, più che la passerella, Matteo sogna da sempre il palcoscenico, che calca per la prima volta con l’opera teatrale Un angelo è sceso a Babilonia, per la regia di Fernanda Calati.

«Sin da piccolo organizzavo messe in scena con i miei amici, e col tempo quello che era un gioco si è trasformato in un’esigenza espressiva. A 26 anni ho deciso di mettere da parte la carriera da modello per trasferirmi a Milano a studiare recitazione presso una scuola teatrale. Il corso durava in tutto quattro anni ma, terminati i primi tre, non ho accettato la borsa di studio e mi sono spostato a Roma».

Il primo set arriva nel 2014 con la webserie Under, di Ivan Silvestrini: «È stata la protagonista femminile, Valentina Bellè, a suggerire il mio nome a Ivan per il casting. Gliene sono grato perché ho lavorato benissimo con lui, in grande sintonia. Il bello della webserie è la coesione che si crea a livello di gruppo. Inoltre, il web offre grande autonomia registica e la possibilità di assecondare la propria fantasia. Prendere parte da attore a un progetto di questo tipo comporta sicuramente una responsabilità artistica, ma è un’esperienza estremamente positiva».

Cover2LOWDopo il web, è il momento delle fiction e, finalmente, del cinema. In televisione Matteo ha recitato accanto a Miriam Leone in Non uccidere e con Luisa Ranieri in Luisa Spagnoli, nel ruolo di Giovanni Buitoni. Sul grande schermo, lo abbiamo visto nella commedia “esistenziale” La felicità è un sistema complesso di Gianni Zanasi e lo vedremo nel provocatorio film indipendente 2night, ancora per la regia di Silvestrini. «Ho partecipato a progetti molto interessanti e diversi fra loro. Dove non c’erano fondi, c’erano passione, spirito di comunità e voglia di fare. Lavorando con grandi professionisti come Valerio Mastandrea, ho scoperto persone fantastiche, sempre disponibili a darmi consigli. Giovanni Buitoni è stato probabilmente la figura più complessa che ho affrontato. Aveva un carattere molto lontano dal mio, ma mi son ritrovato nella sua intraprendenza e determinazione, spesso scambiate per arroganza».

Esperienze poliedriche ed eterogenee, in ogni campo artistico: «Il web, la TV e il cinema sono affini tra loro sotto numerosi aspetti. Quello della moda è un mondo a sé. La fotografia, per definizione, è statica. Negli scatti c’è un finto movimento che il fotografo riesce a catturare e che il pubblico percepisce come dinamico. Sul set, tutt’altro discorso: bisogna ricercare una propria fisicità per il lavoro sul personaggio. Io sono arrivato davanti alle telecamere con una preparazione teatrale e la relazione con lo spettatore cambia profondamente, tra cinema e teatro. Tuttavia, grazie al lavoro come modello, ho superato subito lo scoglio dello “shock da obiettivo”».

Quali progetti ti aspettano? «Spero di continuare con la settima arte. Non ho un genere preferito o di riferimento. Adoro il cinema di Charlie Chaplin e di Ettore CoverLOW3Scola, ma sono tanti i registi che hanno saputo colpirmi raccontando storie eccezionali. Se dovessi indicare il ruolo dei miei sogni, direi Tony Montana in Scarface: Al Pacinosi è calato nei panni del personaggio per ben otto mesi della sua vita! Il cinema, inoltre, offre un a
pproccio profondo al lavoro dell’attore e allo stesso tempo più rischioso, rispetto, ad esempio, alla televisione, fatta di tempistiche serrate. Ma è proprio rischiando che, spesso, si ottengono le cose migliori».
Credi che esista un futuro, in Italia, per le nuove promesse come te? «Il nostro paese ha rappresentato il cinema per tanti anni e spero che potremo avere la nostra rivincita, in quel ruolo. In questo momento in Italia c’è un’interessante ripresa; è un buon momento per i giovani talenti e non c’è bisogno di scappare. Uno degli aspetti migliori del lavoro nella moda è che mi ha offerto la possibilità di girare il mondo. Proprio perché ho viaggiato molto mi son fatto l’idea che andare all’estero debba essere una scelta dettata dalla ricerca e dalla voglia di sfide, non dalla mancanza di alternative. Ciascuno è il motore della propria vita; restare o meno dipende dalle proprie aspirazioni».

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Cannes 2016/ Giovannesi e il “Fiore” dell’innocenza https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/cannes-2016-giovannesi-e-il-fiore-dellinnocenza/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/cannes-2016-giovannesi-e-il-fiore-dellinnocenza/#respond Thu, 19 May 2016 07:27:40 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3178 Molto apprezzato dal pubblico della Quinzaine, “Fiore” di Claudio Giovannesi è l’ultimo dei sei film italiani presentati alla 69a edizione del Festival di Cannes. Fin da Fratelli d’Italia, il documentario del 2009 in cui si mostrava la quotidianità di due stranieri e un italiano di origini egiziane che frequentavano la stessa scuola, il cinema di […]

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Molto apprezzato dal pubblico della Quinzaine, “Fiore” di Claudio Giovannesi è l’ultimo dei sei film italiani presentati alla 69a edizione del Festival di Cannes.

Fin da Fratelli d’Italia, il documentario del 2009 in cui si mostrava la quotidianità di due stranieri e un italiano di origini egiziane che frequentavano la stessa scuola, il cinema di Claudio Giovannesi è quasi sempre incentrato sulla narrazione di adolescenti ai margini. A quattro anni di distanza da Alì ha gli occhi azzurri, in Fiore il 38enne regista romano torna a utilizzare nel contesto del cinema di finzione attori non professionisti (ottime le prove dei protagonisti Daphne Scoccia e Josciua Algeri) e a ispirarsi a vicende reali, apprese da ricerche sul campo.

Questa volta l’intento è raccontare una storia d’amore sui generis. Il punto di vista infatti è quello di Daphne, giovane rapinatrice della periferia capitolina che tira avanti rubando cellulari dopo aver minacciato i malcapitati con un coltello. Finché non viene catturata e si ritrova in un carcere minorile, dove ragazzi e ragazze sono rinchiusi in ali separate con l’assoluto divieto di relazionarsi fra loro. È qui che Daphne incontra Josh, un neodiciottenne milanese cui sono rimasti da scontare ancora due mesi di detenzione. Tra messe domenicali, ore d’aria e segrete corrispondenze epistolari, i due iniziano a conoscersi e si innamorano, arrivando infine a sperare di avere un futuro insieme.

Dopo aver frequentato un carcere minorile di Roma ed essere entrato in contatto con diversi detenuti, Giovannesi si concentra sullo sviluppo dei rapporti che Daphne stabilisce sia con Josh che con il padre (Valerio Mastandrea), reduce da sette anni di prigionia. E lo fa con mirabile delicatezza e senza concedere nulla al sentimentalismo.

Un esempio paradigmatico è legato a un particolare momento del film: dopo aver appreso che può uscire qualora il genitore accetti l’affidamento in custodia, Daphne ascolta con il lettore mp3 Sally di Vasco Rossi. L’accostamento tra le parole della canzone e il primo piano della ragazza felice è assai efficace ed emoziona, eppure il regista decide di interrompere la musica dopo pochi secondi, staccando sulla scena successiva per mandare subito avanti la narrazione. All’insegna di un’essenzialità che è il carattere distintivo della poetica dell’autore.

Con questo ultimo lavoro Giovannesi, da sempre interessato a tratteggiare umanità e innocenza dei propri personaggi senza mai giudicarli, continua a portare avanti un’idea di cinema ben definita, legata a doppio filo alla rappresentazione del reale e all’ardua vita degli ultimi. Un cinema che tiene presente la tradizione del neorealismo, di una certa Nouvelle Vague e la poetica del primo Pasolini (non a caso esplicitamente citato già nel titolo di Alì ha gli occhi azzurri), ma che allo stesso tempo è in grado di proporre uno sguardo personale e sempre più maturo.

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“Fai bei sogni”: Bellocchio convince di nuovo https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/cannes-2016-fai-bei-sogni-bellocchio-convince-di-nuovo/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/cannes-2016-fai-bei-sogni-bellocchio-convince-di-nuovo/#respond Fri, 13 May 2016 06:57:38 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3127 Esce oggi nelle sale il nuovo lavoro di Marco Bellocchio, un dramma commovente e appassionante, già molto ben accolto allo scorso Festival di Cannes come film d’apertura alla Quinzaine des Réalisateurs.  Se si esclude l’interessante e in fondo poco conosciuto Sorelle mai (2010), risultato dell’unione di una serie di cortometraggi realizzati nel contesto del corso di […]

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Esce oggi nelle sale il nuovo lavoro di Marco Bellocchio, un dramma commovente e appassionante, già molto ben accolto allo scorso Festival di Cannes come film d’apertura alla Quinzaine des Réalisateurs. 

Se si esclude l’interessante e in fondo poco conosciuto Sorelle mai (2010), risultato dell’unione di una serie di cortometraggi realizzati nel contesto del corso di regia da lui curato da diversi anni a Bobbio, era dai tempi di Vincere (2009) che Marco Bellocchio non dirigeva un film davvero convincente e al livello della sua produzione dei primi anni duemila (L’ora di religione, 2002; Buongiorno, notte; 2003; Il regista di matrimoni; 2006).

Gli ultimi due suoi lavori Bella addormentata (2012) e il recente Sangue del mio sangue (2015) infatti, entrambi presentati in concorso al Festival di Venezia, per motivi e in misure differenti non erano risultati riusciti. Se il primo, pur potendo contare su dei buoni momenti, si caratterizzava per uno squilibrio tra le diverse linee narrative, il secondo era stato addirittura una vera e propria delusione, dividendosi in due macro-parti troppo lontane tra loro e in particolare con una seconda metà esplicitamente farsesca ben poco ispirata, forzata e troppo sopra le righe.

Con Fai bei sogni però, a sette anni di distanza dal potente e stilisticamente assai affascinante Vincere, Marco Bellocchio si è ritrovato. E piuttosto sorprendentemente lo ha fatto adattando l’omonimo best-seller autobiografico del 2012 di Massimo Gramellini, in cui il noto giornalista ha raccontato la propria vita e il lungo percorso che lo ha condotto ad affrontare il passato, la perdita della madre avvenuta quando era bambino e la verità su quel traumatico accadimento, scoperta solo in età adulta.

Pur rimanendo fedele al romanzo, il settantaseienne autore bobbiese ha modificato la struttura temporale del racconto originale (il cui cuore è rappresentato da un unico lungo flashback), affidandosi a numerosi salti in avanti e indietro nel tempo al fine di mostrare sul grande schermo i traumi infantili del protagonista e le difficoltà da adulto ad essi connessi con notevole pathos.

La forza di Fai bei sogni sta in primis nel riuscire a mettere in campo, ad ogni istante, uno sguardo sincero e vivo. Tra i momenti del passato in cui Massimo è bambino colpiscono ad esempio alcune immagini attraverso le quali viene restituito con tatto e semplicità il mondo della fanciullezza: il gioco con le dita della mani che simulano il movimento delle gambe a scuola, la raccolta delle molliche con un coltello mentre è a tavola con il padre, i salti sul divano per imitare i tuffi dal trampolino che sta vedendo in tv. Molto intensi sono poi alcuni momenti della vita da adulto, come quelli che lo vedono protagonista insieme alla dottoressa di cui si innamora (si pensi al bizzarro incontro in ospedale dopo l’attacco di panico e alla bella scena in piscina) o nel caso dell’incontro notturno rivelatore con la zia anziana.

In questo contesto, Bellocchio è anche molto abile ad evitare il ricorso a ogni tipo di retorica. Persino uno dei momenti da questo punto di vista più a rischio, in cui Piera Degli Esposti appare in un cameo, viene infine stemperato da una efficace battuta in grado di conferire alla scena un tono ironico e completamente diverso rispetto a quanto ci si potesse aspettare.

Nonostante alcuni passaggi narrativi possano risultare un po’ troppo veloci e non particolarmente approfonditi, dunque, Fai bei sogni non ha mai cali di ritmo per le oltre due ore di durata, si avvale di un ottimo cast (dal giovanissimo Nicolò Cabras a Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo, passando per Guido Caprino e Barbara Ronchi) e rappresenta un convincente ritorno dietro la macchina da presa per uno dei registi più importanti del panorama cinematografico italiano.

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I film ambientati in una sola location sono perfetti per tirar fuori dai personaggi le sfumature caratteriali meno prevedibili. Sono sufficienti una cena e un gruppo di personalità differenti e ben definite che nel lasso di tempo limitato di una serata entrano in conflitto a causa dello spazio ristretto in cui si trovano e di un pretesto come, in questo caso, un gioco basato sulla sincerità: tutti decidono di mostrare, infatti, da un certo momento in poi, il contenuto dei propri telefoni cellulari. Chiamate, messaggi, email. Quel che è privato viene svelato. Non ci sono più segreti, e il film così ci mostra senza freni e senza timidezza per la sua intera durata ogni possibile conseguenza derivante dalla sospensione della sfera privata.

La forza di Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese sta nell’utilizzare al meglio il potere del cinema di rendere parlato il pensiero per mezzo di una sceneggiatura che non si vergogna di scavare a fondo. La nascita di vari equivoci provoca difatti reazioni che mostrano i lati oscuri dei caratteri, la polvere celata sotto il tappeto della coscienza. Una volta frantumato l’involucro del comune buon senso, l’immondizia accantonata è pronta a incendiarsi attraverso dialoghi feroci e intelligentemente scritti, pronunciati da attori a loro agio proprio perché liberi di incattivirsi laddove necessario. È la scrittura, ancor prima della regia, che quindi aiuta un cast ben assortito come questo (con le vette raggiunte dal trio Giallini – Mastandrea – Battiston) a scaldarsi e dominare la scena.


Nel frattempo, fuori dalla casa in cui i commensali litigano, è in corso un’eclissi lunare, metafora di una minaccia incombente così come il passaggio di una cometa lo era nell’indipendente Coherence (altro caso di film su una cena che prende una piega imprevedibile), o l’imminente impatto del pianeta Melancholia nell’omonima e più nota opera di Von Trier. Sembra che certi film ambientati soprattutto in interni, nel momento in cui si aprono all’esterno, abbiano bisogno di guardare a qualcosa di incredibilmente distante eppure angosciante come l’universo per raffigurare paure inconsce. E nel nostro caso il lato oscuro della luna sta a rappresentare il più grande terrore, il più grande tabù, che è quasi sempre lo stesso nel cinema e nell’arte in generale: il tradimento. La paura che il vincolo dell’esclusività possa rompersi, per via di quel delitto che risiede nel desiderare qualcun altro al di fuori del sistema-coppia.

Quest’angoscia la avvertiamo anche noi spettatori, che ci riconosciamo nei brevi e intensi scambi di sguardi tra i protagonisti, colti dai numerosi cambi di inquadratura con cui Genovese interviene registicamente, anche se è pur vero che qualche stacco in meno ci avrebbe fatto godere maggiormente della contemporaneità delle risposte emotive di ciascun personaggio. Il regista tuttavia preferisce la sottolineatura, con singoli (primi) piani d’ascolto che per fortuna non sfociano mai nella didascalia.
Anche la musica ha il compito di sottilineare, ma se fosse stata completamente assente non ne avremmo sentito più di tanto la mancanza, così come non ne sentiamo in altri film di “tavolate” come Il fascino discreto della borghesia, per citare un esempio eccellente.

Va detto però che c’è il preciso intento da parte di Genovese di movimentare dall’interno l’impostazione teatrale della narrazione mediante gli strumenti resi disponibili dal cinema come, oltre al commento musicale e al montaggio, alcune lievissime ma frequenti carrellate presenti in situazioni in cui non sarebbe stato un problema lasciare la macchina da presa fissa su un treppiedi. Al di là di questo, in ogni modo, il risultato è efficace, pungente e l’amaro che lascia in bocca ci ricorda quello assaggiato su vecchie terrazze scoliane.

E chissà se è un caso che il film si chiuda con la visione di un palazzo in Piazzale delle Belle Arti che appariva proprio in quel film del 1980, che portava via con sé tutta la vecchia commedia all’italiana, la quale però a quanto pare continua a pulsare, pronta a esplodere con buoni risultati come è successo stavolta, nel cuore di ogni italiano, di ogni perfetto sconosciuto.

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Generazione anime https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/generazione-anime/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/generazione-anime/#respond Sun, 10 Jan 2016 18:39:09 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2481 “ Il paradiso risiede nei ricordi della nostra infanzia”: è la frase dell’ineguagliabile Hayao Miyazaki che apre il documentario Animeland – Racconti tra manga, anime e cosplay, opera prima interamente realizzato in low budget dal regista Francesco Chiatante, che ne ha curato anche montaggio, fotografia e post produzione. Animeland è un vero proprio viaggio tra cartoni animati […]

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“ Il paradiso risiede nei ricordi della nostra infanzia”: è la frase dell’ineguagliabile Hayao Miyazaki che apre il documentario Animeland – Racconti tra manga, anime e cosplay, opera prima interamente realizzato in low budget dal regista Francesco Chiatante, che ne ha curato anche montaggio, fotografia e post produzione.
Animeland è un vero proprio viaggio tra cartoni animati giapponesi e non, manga, anime e cosplay, attraverso ricordi, aneddoti e sogni di personaggi degli ambiti più disparati il cui immaginario e la cui vita sono stati influenzati da fumetti e cartoni animati. Da Heidi a Goldrake, da Jeeg Robot a Dragonball e Naruto, dalla fine degli anni Settanta è iniziata in Italia una vera e propria invasione “animata” giapponese. Animeland, più che un film è un documento che intende ricostruire e ripercorrere quello che erano e sono poi diventati manga, anime e cosplay in Italia, segnando l’intero immaginario pop delle generazioni degli ultimi quarant’anni con robot, maghette e orfanelli.

HEIDI La Polvera
Numerosi i personaggi noti intervistati nel film, dall’animatrice e mangaka Yoshiko Watanabe, già assistente di Osamu Tezuka, allo stilista Simone Legno alias Tokidoki, da cantanti come Caparezza, che nelle canzoni spesso introduce citazioni tratte da manga giapponesi, ad attori come Paola Cortellesi – che canta la sigla di un cartone animato della propria infanzia – e Valerio Mastandrea. Ma anche i racconti di Giorgio Maria Daviddi del Trio Medusa e un’intervista esclusiva al misterioso cosplay Goldy. Registi italiani quali Maurizio Nichetti e Fausto Brizzi e registi stranieri come Shinya Tsukamoto e il Premio Oscar Michel Gondry. Tra i nomi italiani spiccano quelli dei giornalisti Luca Raffaelli, filo conduttore del racconto e di Vincenzo Mollica, ma c’è spazio anche per un sociologo, Marco Pellitteri, per un saggista come Fabio Bartoli e per la squadra dei Kappaboys, che per primi importarono i manga giapponesi in Italia.

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«Ho sempre sognato – sottolinea il regista – di raccontare i mondi di manga, anime e cosplay a modo mio. E quale idea migliore del farlo coinvolgendo tutti i miei “miti”, creando un film da tutti i loro racconti? Con Animeland ho trovato il modo di poter contribuire a questi immaginari fantastici che hanno influenzato i ragazzi, per generazioni, da fine anni ’70 a oggi!».
Francesco Chiatante, tarantino classe 1981, videomaker di cortometraggi, documentari e video, ha lavorato per post-produzioni di film e fiction e realizzato backstage dei film diretti da Ivano De Matteo Gli equilibristi e I nostri ragazzi (vincitore del Premio Miglior Backstage 2015 – Festival del Cinema Città di Spello) e della serie TV RAI Il sistema diretta da Carmine Elia. Animeland – Racconti tra Manga, Anime e Cosplay è il suo esordio nel lungometraggio.

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