Toni Servillo Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 19 Jul 2023 13:09:49 +0000 it-IT hourly 1 Il ritorno di Casanova. Salvatores torna a volare alto https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/il-ritorno-di-casanova-salvatores-torna-a-volare-alto/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/il-ritorno-di-casanova-salvatores-torna-a-volare-alto/#respond Tue, 28 Mar 2023 12:54:36 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18335 Due storie parallele si rincorrono in questo nuovo lavoro di Gabriele Salvatores, che dopo Comedians continua a seguire la strada della bottega dei sogni. Se nel film del 2021 setacciava un laboratorio attoriale, i drammi da spogliatoio e le ambizioni di un gruppo d’attori, con Il ritorno di Casanova sdoppia la sua attenzione su un […]

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Due storie parallele si rincorrono in questo nuovo lavoro di Gabriele Salvatores, che dopo Comedians continua a seguire la strada della bottega dei sogni. Se nel film del 2021 setacciava un laboratorio attoriale, i drammi da spogliatoio e le ambizioni di un gruppo d’attori, con Il ritorno di Casanova sdoppia la sua attenzione su un regista di successo e lunga esperienza giunto a una resa dei conti con la propria vita, parallelamente al Casanova imbolsito del suo film da ultimare.

In questo raffinato snodo di metacinema i timonieri sono Toni Servillo, avvolto con il suo regista Leo Bernardi da un bianco e nero che ridisegna morbidamente il piano della vita reale, e Fabrizio Bentivoglio, il Casanova decadente del film di Bernardi, che respira a colori le sue ultime avventure tra vizi sopiti e amare constatazioni. Bernardi è un uomo solo con la sua fredda domotica e il suo montatore e amico accogliente interpretato da Natalino Balasso. L’incontro con una contadina molto più giovane di lui, durante il set, gli ha cambiato l’esistenza facendogli perdere ogni certezza. Così come Casanova, spirito avvizzito e squattrinato nuovamente investito dal desiderio. Entrambi i personaggi dovranno vedersela col tempo che passa, anzi, già passato, così Salvatores intreccia una doppia riflessione sulla vecchiaia e la passione per una donna molto più giovane. Ognuno di loro confligge con un giovane antagonista, che sia un ufficiale spadaccino o un regista all’opera seconda poco importa, perché in regista di Mediterraneo sfodera un’opera solida e densissima.

Il ritorno di Casanova Pieno d’idee registiche ben realizzate, colpi di scena gustosi, ricollocazioni di attori comici – Ale & Franz in testa – momenti magici tra Servillo e Serraiocco da cinema francese vecchio stile, citazioni di Banksy e un velo di nostalgia che sfiora ogni momento del suo procedere, questo Casanova tra le mani di Salvatores brilla di maturità. Forse anche troppa, ma solo nel senso di un pubblico di riferimento che tenderà a escludere probabilmente il giusto appeal di massa per i giovani in sala. Sulla carta fuori target.

Fino a pochi anni fa una durata di un’ora e mezza non avrebbe destato interesse, ma al tempo della competizione più ardua contro le serie tv, questo film dimostra pragmaticamente come si possa raccontare in maniera concisa, profonda, sfaccettata, complessa, e soprattutto completa, una doppia storia. Due pletore di personaggi che ruotano armonicamente nella sceneggiatura firmata da Umberto Contarello, Sara Mosetti e dallo stesso Salvatores. Uno dei rari registi di casa nostra a destreggiarsi senza rete tra i generi, non sempre con risultati felici (come i due Ragazzi invisibili), ma affamato di novità e generoso con le nuove sfide, il regista milanese sembra aver trovato una nuova dimensione di saggezza matura nel raccontare il mondo artistico dal quale proviene.   

Infatti c’è una piccola perla venuta fuori dalla masterclass di Bentivoglio al Bari International Festival, dove è stato presentato ufficialmente il film. L’attore ha voluto rivelare un particolare inedito: “Quando Gabriele mi diede da leggere la sceneggiatura, il mio personaggio era genericamente indicato come ‘l’attore che interpreta Casanova’. Terminato di leggerla, lo chiamai al telefono e gli dissi: il mio personaggio si chiama Federico Lolli, come quello che avevo interpretato in Turné. E lui mi ha risposto: ‘mi hai fatto venire i brividi!’. Questa cosa è rimasta tra me e lui, nessuno della troupe ne è mai venuto a conoscenza. Ma è per dire che nel film c’è un sottotesto, quello per cui in un certo modo esso racconta tutta la nostra vita!”.

 

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Esterno notte, la sinfonia della storia di Marco Bellocchio https://www.fabriqueducinema.it/serie/esterno-notte-la-sinfonia-della-storia-di-marco-bellocchio/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/esterno-notte-la-sinfonia-della-storia-di-marco-bellocchio/#respond Mon, 23 May 2022 08:44:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17222 Marco Bellocchio è prossimo agli 83 anni ma la sua linfa cinematografica è a un punto inarrivabile, per ispirazione, per ambizioni tematiche e visive, per profondità di indagine sul cinema, sulla Storia, perfino su se stesso: Esterno notte, l’opera monumentale che è stata presentata a Cannes e uscirà nelle sale italiane divisa in due tranche, […]

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Marco Bellocchio è prossimo agli 83 anni ma la sua linfa cinematografica è a un punto inarrivabile, per ispirazione, per ambizioni tematiche e visive, per profondità di indagine sul cinema, sulla Storia, perfino su se stesso: Esterno notte, l’opera monumentale che è stata presentata a Cannes e uscirà nelle sale italiane divisa in due tranche, da tre episodi ciascuna, è un richiamo al Buongiorno, notte del 2003 ma ne rappresenta il controcanto.

Un controcanto sinfonico nella misura in cui quello era una lettura cameristica di una pagina oscura della storia italiana: l’autore getta contro la sua creatura (peraltro, una creatura meravigliosa, considerabile un classico della modernità) un guanto di sfida, un processo condotto con il codice del cinema, cambia l’angolazione da cui osserva l’affaire Moro e lo espande in un affresco corale con tanti protagonisti, ognuno con una statura epica, avvolgendo il tutto nei toni foschi della fotografia di Francesco Di Giacomo e nella partitura drammatica, bellissima, di Fabio Massimo Capogrosso.

La prima grande virtù dell’opera di Bellocchio è già nella scrittura, e un plauso va tributato a Ludovica Rampoldi, Davide Serino, Stefano Bises e il regista stesso: la più coraggiosa e anche più vincente delle idee è stata quella di raccontare la prigionia di Moro attraverso le reazioni dei politici, dei suoi cari, dei brigatisti stessi. Un “colore”, come insegnano nelle scuole di sceneggiatura: un evento che non è in primo piano, ma influenza tutto quello che vediamo sullo schermo.

Mantenendo la struttura corale del racconto, ci sono comunque personaggi che si elevano a protagonisti di puntata (espressione televisiva, non proprio piacevole da usare per un’opera come questa): è il caso di Toni Servillo nel secondo episodio, straordinario per l’intensità sofferta che ha conferito a papa Paolo VI, dapprima apparentemente padrone della situazione quando illustra alla signora Moro “lo sterco del diavolo” e i suoi impieghi, ma poi in preda a una dolente crisi quando arriva il fatidico momento della scrittura della lettera ai brigatisti.

Ma su tutti, probabilmente, svetta il Cossiga di Fausto Russo Alesi, che già era stato Giovanni Falcone ne Il traditore: è stata decisiva la scelta in sceneggiatura di dare la giusta centralità al ministro degli interni, di fatto il primo a dover correre ai ripari quando la situazione precipita, quando c’è uno stato di allerta da gestire e gli equilibri non si decidono più nelle stanze del palazzo fra un compromesso e l’altro. Cossiga era molto affezionato a Moro, il loro rapporto è molto ben raccontato, e l’impossibilità di trovare una soluzione per l’amico rapito (nonostante l’imponente e avveniristico impiego di risorse investigative), la successiva crisi e il definitivo senso di colpa rendono il personaggio drammaturgicamente fondamentale.

Non si può non ammirare, infine, il Moro di Fabrizio Gifuni: il grande, grandissimo attore riesce a fugare fin dalla prima scena, fin dal discorso all’assemblea, il sospetto della semplice imitazione e grazie a un sapiente uso del corpo, delle mani soprattutto, il suo Moro è più vero del vero: la scena del ritorno a casa e della umile cena a base di uova è una vetta poetica, da parte sua e da parte di Bellocchio.

Esterno notteè più vicino a Todo modo e Cadaveri eccellenti che non ad altri film orientati verso la cronaca e la ricostruzione d’epoca: nella modellazione plastica degli uomini di potere, le cui fisionomie e fisicità sono esaltate, sottolineate, scolpite quasi a fare di loro delle maschere piuttosto che fac-simile storici fedelmente ricostruiti col trucco e il parrucco, Bellocchio raggiunge il difficile e sempre insidioso traguardo del grottesco. Ma sarebbe riduttivo limitare a questo aspetto la riuscita dell’opera di Bellocchio: come ha bene scritto su Quinlan Alessandro Aniballi, “Bellocchio si sta imponendo di fare grandi film, grandi affreschi storici. E meno male, viene da concludere. Perché, oltre a Martone, non c’è nessun altro nel cinema italiano contemporaneo che sia in grado di farlo, nessun altro che abbia la volontà, la voglia e la capacità di scavare a fondo nei nostri misteri e nelle nostre ambiguità, in quei fatti e in quegli snodi che in fin dei conti formano la nostra identità”.

 

 

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Ariaferma, il carcere (metaforico) di Servillo e Orlando https://www.fabriqueducinema.it/festival/ariaferma-il-carcere-metaforico-di-servillo-e-orlando/ Mon, 06 Sep 2021 15:34:59 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15970 È sempre una gioia quando vede la luce delle sale un nuovo film di Leonardo Di Costanzo, autore poliedrico, mente dai vasti orizzonti che per il cinema cosiddetto di finzione ha sempre attinto alla lunga e fruttuosa esperienza da documentarista, e ha portato avanti un percorso coerente, come se si fosse prefissato fin dall’esordio di […]

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È sempre una gioia quando vede la luce delle sale un nuovo film di Leonardo Di Costanzo, autore poliedrico, mente dai vasti orizzonti che per il cinema cosiddetto di finzione ha sempre attinto alla lunga e fruttuosa esperienza da documentarista, e ha portato avanti un percorso coerente, come se si fosse prefissato fin dall’esordio di imporsi come il regista degli spazi chiusi, dei microcosmi, dell’isolamento, delle fughe surreali dai luoghi reali. Ariaferma, scritto dal regista insieme a Valia Santella e Bruno Oliviero (una sceneggiatura che non ha un solo cedimento, né nella struttura, né nei dialoghi), racconta un momento critico all’interno di un carcere situato in un luogo imprecisato, come sempre in Di Costanzo la geografia si dirada e perde via via la sua connotazione, e il teatro dell’azione diventa come sospeso in una nube: la casa circondariale chiude, ma i trasferimenti vengono bloccati per problemi burocratici, e dodici detenuti devono restare lì, in un luogo abbandonato e spettrale, e con loro tutto il personale di guardia, a capo del quale c’è Toni Servillo, che per schematizzare come si fa nei polizieschi americani fa lo sbirro buono, in coppia con lo sbirro cattivo che invece è Fabrizio Ferracane.

I dodici ospiti del carcere sono tutti molto diversi fra loro, ognuno a rappresentare un “tipo”: c’è il giovane con istinti suicidi, ci sono gli extracomunitari, c’è il pedofilo da tutti messo al bando, e c’è quello misterioso, il più mite, che però – viene detto a un certo punto, senza rivelare pienamente il mistero – è anche il più pericoloso di tutti: si chiama Carmine Lagioia (interpretato magistralmente e in sottrazione da Silvio Orlando), e gli viene successivamente conferito l’incarico di chef, diventando di conseguenza un po’ il “sindaco” del carcere, da tutti rispettato, e l’unico con l’autorità di trattare con il Gaetano Gargiulo di Servillo.

È questo incontro a generare la tensione narrativa che dà l’acqua della vita alla storia, con Gargiulo che prova a porre le distanze fra sé e il detenuto, ma col passare del tempo i due trovano i punti d’incontro: il culmine è uno scambio di battute che potrebbe fare da epigrafe a tutto il film, che suona tipo “Lagioia, sei tu che sei in carcere”, e il detenuto ribatte “E perché, voi no?”. Non potrebbe avere più ragione.

Ariaferma segna un po’ una svolta, un’evoluzione, e perché no una summa nel cinema di Di Costanzo: c’è una regia solidissima, splendida somma non algebrica di direzione degli attori e gusto figurativo, coadiuvato dalla fotografia di Luca Bigazzi che con Di Costanzo riesce a esprimersi sempre ad altissimi livelli, come già ne L’intervallo. Importante anche il sonoro di Xavier Lavorel, che ha il suo momento trionfale a chiusura della scena più importante del film e anche una delle più belle e memorabili di questo festival: la cena, di notte, a lume di torce elettriche a causa della mancanza di elettricità, con detenuti e agenti che siedono al tavolo insieme, annullando l’effetto del carcere diventando quello che sono: esseri umani.

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È stata la mano di Dio, a Venezia 78 per Sorrentino applausi a scena aperta https://www.fabriqueducinema.it/festival/e-stata-la-mano-di-dio-a-venezia-78-per-sorrentino-applausi-a-scena-aperta/ Fri, 03 Sep 2021 08:59:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15948 Dopo il road movie statunitense, primo approdo oltreoceano, dopo le flaneries disilluse e decadenti di Jep Gambardella sul lungotevere e nei palazzi romani, dopo il racconto di due dolorose senilità in una gabbia dorata in Svizzera, dopo il mega affresco di due pontefici, il divo e Mefistofele, e dopo il magniloquente dittico sul Cavaliere, Paolo […]

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Dopo il road movie statunitense, primo approdo oltreoceano, dopo le flaneries disilluse e decadenti di Jep Gambardella sul lungotevere e nei palazzi romani, dopo il racconto di due dolorose senilità in una gabbia dorata in Svizzera, dopo il mega affresco di due pontefici, il divo e Mefistofele, e dopo il magniloquente dittico sul Cavaliere, Paolo Sorrentino torna a Napoli con È stata la mano di Dio.

È un ritorno felice, felicissimo, cinematograficamente parlando, pur con al centro un enorme dolore, che qui l’autore semina e dissemina in un memoir, in un racconto di formazione, in un coming of age sulla base di una scrittura che quasi mai è stata così precisa, essenziale, leggera. In una parola: vera.

Vera, nonostante il racconto di È stata la mano di Dio cominci subito con un’evocazione che più napoletana non si può: un enorme abbraccio alla città, che comincia dal mare, individua Castel dell’Ovo, la collina di San Martino, finisce sul mare e poi si inoltra, di notte, insieme niente di meno che a San Gennaro, nei meandri oscuri della città dove facciamo la conoscenza di una presenza misteriosa, che a Napoli – come racconta Matilde Serao – esiste dalla notte dei tempi: il munaciello. Lo possono vedere solo in pochi. Lo può vedere solo chi ha il dono.

L’alter ego che Sorrentino sceglie per questa trasposizione divertita e insieme commovente della propria giovinezza si chiama Fabietto Schisa, interpretato dal giovane Filippo Scotti che è bravissimo. Certo, è stato guidato da un grande direttore di attori, ma il ragazzo ha stoffa.

Questo giovanotto solitario, allampanato, caratterizzato splendidamente dall’inseparabile walkman con le cuffie, si muove nella Napoli alta della metà degli anni ’80, l’epoca che potremmo chiamare a.D., avanti Diego, se è vero che un Messia venuto dall’Argentina ha segnato in questa città un evidente prima e dopo che ancora oggi porta i suoi malinconici strascichi.

Napoli alta perché Sorrentino racconta una classe sociale che nella proficua produzione cinematografica napoletana si vede rarissimamente: la borghesia. Gli Schisa abitano al Vomero, in un parco sobrio e pieno di gente per bene, al piano di sopra c’è una baronessa decaduta e decadente ma che gioca un ruolo decisivo in questa storia, la dirimpettaia è un’aspirante attrice che sogna di fare la protagonista per Zeffirelli e per un attimo sembra esserci riuscita, c’è anche il fool dal cuore d’oro che si traveste da Super Mario. E poi le vacanze: i momenti di svago, meravigliosamente corali, con una rappresentazione precisa, impietosa ma affettuosa, del caleidoscopio di umanità di Napoli e dintorni riunita tutta insieme, coppie male assortite, anziane uccellacce del malaugurio che poi avranno il loro riscatto, la zia bellissima che genera i primi pruriti adolescenziali, lo zio che agisce al limite dell’illegalità ma ha il cuore d’oro, e tanti altri.

In È stata la mano di Dio Sorrentino ha dato fondo a una mole sconfinata di ricordi, di immagini, di parole ascoltate o origliate in quel momento della sua vita, che verrebbe voglia di guardare questo film seduti accanto a lui e chiedergli cosa sia accaduto davvero e cosa no, cosa sia troppo assurdo per non essere successo invece veramente oppure cosa sia stato ammorbidito per pudore, o per qualunque altro motivo.

Eppure, in questo romanzo per immagini vivace, colorato, divertente come forse mai è stato Sorrentino, c’è anche un’immane sofferenza, la più grande che un adolescente, già di per sé fragile, potrebbe incontrare sul suo cammino. E quel momento, proprio quella tragica agnizione, è un momento altissimo del film, quasi buzzatiano, con questa surreale impossibilità dei medici di riuscire a dire al ragazzo cosa sia successo ai suoi genitori.

In chiusura, il dialogo con l’agognato maestro Antonio Capuano: quante grandi verità quel profeta è capace di dire al giovane Sorrentino, che illuminazione, che rivelazione devono essere state per lui quelle parole. Che le abbia pronunciate davvero, poco importa, perché il futuro regista dimostra di aver appreso la lezione.

Ultima menzione per gli attori. Già detto del sorprendente Scotti, sugli altri non ci potevano essere dubbi: Servillo e Saponangelo, Betti Pedrazzi memorabile nel ruolo della baronessa, Renato Carpentieri con le sue solite sublimi fiammate, Ciro Capano nei panni di Capuano, il bravissimo Biagio Manna che è il contatto del film – e di Fabio – con il ventre di Napoli, Luisa Ranieri, che in questa storia, della città di Napoli, è un po’ l’incarnazione.

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Venezia 76: 5 è il numero perfetto, Igort e il suo esordio riuscito solo a metà https://www.fabriqueducinema.it/festival/venezia-76-5-e-il-numero-perfetto-igort-e-il-suo-esordio-riuscito-solo-a-meta/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/venezia-76-5-e-il-numero-perfetto-igort-e-il-suo-esordio-riuscito-solo-a-meta/#respond Thu, 29 Aug 2019 16:52:00 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13206 Quello di Igort, al secolo Igor Tuveri, era uno degli esordi più attesi della 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia apertasi ufficialmente ieri con la proiezione dell’intenso La vérité di Kore-eda. Dell’adattamento cinematografico del suo romanzo grafico più noto, 5 è il numero perfetto, se ne parlava difatti da più di un decennio. […]

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Quello di Igort, al secolo Igor Tuveri, era uno degli esordi più attesi della 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia apertasi ufficialmente ieri con la proiezione dell’intenso La vérité di Kore-eda. Dell’adattamento cinematografico del suo romanzo grafico più noto, 5 è il numero perfetto, se ne parlava difatti da più di un decennio. Inizialmente tra i produttori doveva figurare l’ex direttore del Festival di Venezia Marco Müller e dietro la macchina da presa nel corso degli anni si è pensato al regista romano classe 1955 Egidio Eronico e al cineasta cinese Johnnie To, con Igort che avrebbe dovuto partecipare solo in veste di sceneggiatore. Il progetto però ha preso definitivamente piede solo quando il nostro, in assoluto uno dei più celebri autori di fumetti e illustratori italiani a livello internazionale insieme a Lorenzo Mattotti (curioso come anche quest’ultimo abbia esordito nel lungometraggio con l’ottimo La famosa invasione degli orsi in Sicilia), ha accettato di curarne la regia.

Presentato in concorso alle Giornate degli Autori, 5 è il numero perfetto è un adattamento piuttosto fedele della pluripremiata graphic novel edita in Italia nel 2002 e poi pubblicata in numerosi paesi del mondo: siamo a Napoli nel 1972 e il vecchio guappo Peppino Lo Cicero (Toni Servillo), ritiratosi da tempo a vita privata, si trova costretto a tornare in azione per vendicare il figlio, giovane sicario ucciso durante una notte di lavoro in seguito al tradimento di un uomo di cui non si conosce l’identità. Per raggiungere il proprio scopo, Peppino coinvolge di nuovo il suo storico braccio destro, il temibile Totò ‘o Macellaio (Carlo Buccirosso), con il quale farà scorrere molto sangue per le vie del capoluogo campano alla ricerca della verità sulla morte dell’amato figlio.

5 è il numero perfetto

Fumettista, illustratore, saggista e musicista, con questo suo esordio dietro la macchina da presa Igort conferma la propria fama di artista poliedrico e, coadiuvato in primis dall’ottimo direttore della fotografia Nicolaj Brüel (Dogman) e dallo scenografo Nello Giorgetti, dimostra di avere anche una buona sensibilità sul piano dello sguardo cinematografico. Se dal punto di vista visivo il film risulta senz’altro affascinante con i numerosi riferimenti al cinema noir e nella ricostruzione di un’inedita Napoli cupa e piovosa, a convincere meno è lo sviluppo della storia e del rapporto tra i personaggi principali, il cui approfondimento psicologico rimane il più delle volte in superficie. Per quanto Igort avesse già esperienza in qualità di sceneggiatore cinematografico (negli ultimi anni ha co-sceneggiato L’accabadora di Enrico Pau e Last Summer di Leonardo Guerra Seràgnoli), infatti, è proprio lo script il punto debole della sua opera prima. 

Dopo una buona prima mezz’ora in cui vengono introdotti in maniera piuttosto intrigante vicenda e personaggi, il film non riesce a restituire ritmo e densità del romanzo grafico e, pur intrattenendo discretamente lo spettatore, si perde in alcune lungaggini e ridondanze di troppo (la stessa struttura divisa in cinque capitoli sul piano narrativo non risulta particolarmente efficace). Ad eccezione del protagonista ottimamente interpretato da Toni Servillo, gli altri personaggi sono troppo deboli sul piano della scrittura e diviene così difficile per chi guarda appassionarsi fino in fondo a quanto avviene sullo schermo. Sebbene 5 è il numero perfetto cerchi con coraggio di far dialogare i linguaggi del fumetto e del cinema, dunque, complessivamente non può considerarsi un’operazione del tutto riuscita. Davvero un peccato.

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Mario Martone, Elena Ferrante e la Morte di un matematico napoletano https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/mario-martone-elena-ferrante-e-la-morte-di-un-matematico-napoletano/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/mario-martone-elena-ferrante-e-la-morte-di-un-matematico-napoletano/#respond Wed, 10 Oct 2018 08:09:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11536 Mario Martone ha concluso quest’anno la trilogia iniziata da Noi credevamo e Il giovane favoloso con Capri-Revolution, presentato alla 75° Mostra del Cinema di Venezia, un film corale con una bravissima Marianna Fontana come protagonista. Il regista napoletano incarna poco lo stereotipo dell’artista: intellettuale ma senza esibizionismi, sognatore ma concreto artigiano della sua arte, decisamente […]

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Mario Martone ha concluso quest’anno la trilogia iniziata da Noi credevamo e Il giovane favoloso con Capri-Revolution, presentato alla 75° Mostra del Cinema di Venezia, un film corale con una bravissima Marianna Fontana come protagonista.

Il regista napoletano incarna poco lo stereotipo dell’artista: intellettuale ma senza esibizionismi, sognatore ma concreto artigiano della sua arte, decisamente un uomo di teatro con la vocazione per il cinema. Fa parte di quella corrente che viene chiamata il risorgimento napoletano: quell’affacciarsi del cinema come una vrenzola dal balcone, quello sguardo sulle cose che trasforma il privato in pubblico. La poetica di Martone è tutta lì, nella ricerca di una verità nascosta sotto la pelle quando si fa sottile, insieme a quel mescolarsi continuo e perfetto tra letteratura e cinema.

Uno dei film più famosi di Martone è la sua opera seconda, L’amore molesto (1995), tratto dal romanzo d’esordio di Elena Ferrante, la sua tetralogia pubblicata dalle Edizioni E/O è stata portata di recente sul grande schermo dai primi due episodi de L’Amica Geniale, la serie diretta da Saverio Costanzo e realizzata dall’inedita alleanza tra HBO, Wildside, RAI, Tim Vision e Fandango .

mario martone

L’opera prima di Mario Martone è meno famosa, nonostante la vittoria ai David e ai Nastri d’argento per il miglior esordio: Morte di un matematico napoletano (1992) è la storia del luminare Renato Caccioppoli, uno scienziato talentuoso ma tormentato, consumato da un logorio interiore che l’ha portato al suicidio. La pellicola mostra l’ultima settimana di vita di Renato (Carlo Cecchi), a partire dalla stazione in cui viene fermato dalla polizia per ubriachezza, per passare poi alle lunghe passeggiate e agli incontri con il fratello Luigi (Renato Carpentieri), l’ex moglie (Anna Bonaiuto), i compagni del PCI e gli studenti; soprattutto Pietro, interpretato da Toni Servillo in una delle sue prime apparizioni cinematografiche.

Martone dipinge, in un modo un po’ naïf, un uomo disilluso e stordito dall’alcol, ma soprattutto ne tratteggia il rapporto conflittuale con Napoli, che accoglie ma prosciuga e sa negarsi come la più crudele delle madri. La regia è aspra e secca e la macchina da presa, con l’ottima direzione della fotografia di Luca Bigazzi, segue Renato tra le viscere di una Napoli crepuscolare. E pensare che il film, Martone, lo voleva girare in bianco e nero, ma poi Bigazzi gli ha fatto cambiare idea, colpito dal giallognolo della luce napoletana. Morte di un matematico napoletano è una pellicola realizzata camminando a lungo, un po’ come Caccioppoli, che si spostava solo a piedi. Nel film quasi non compaiono automobili e, dopotutto, sono proprio le lunghe passeggiate del matematico ad averlo reso un personaggio impresso nella memoria collettiva: genio errante, emaciato e dall’impermeabile logoro.

morte di un matematico

Caccioppoli diceva «Quelli che si limitano saggiamente a ciò che pare loro possibile non avanzeranno mai di un passo», così Martone lo gira lo stesso, questo film quasi senza budget, e riesce a realizzare una pellicola ambientata nel ’59 riprendendo la Napoli del ’91. Mancavano i soldi per fare il film, trovare i costumi e ricostruire le scenografie con la cartapesta, allora ha cercato la Napoli del passato in quella presente. Non è un’operazione che sarebbe riuscita ovunque, perché Napoli è tante città in una e quello di Martone è un lavoro quasi archeologico, uno scavare. Un po’ come cercarsi dentro e trovare un dolore che ci somiglia e che ricorda il passato, come quella Facoltà di Matematica abbandonata, ancora con le tribune e i palchi a restituire quel senso di soggezione, distanza e spettacolo accademico.

Caccioppoli e Martone non avevano in comune solo la città, il matematico aveva abitato proprio nel palazzo dove Martone aveva vissuto in adolescenza «un grande palazzo napoletano, di quelli che sono più che altro delle piccole città» e allora, forse, questa storia ha scelto Martone e non il contrario. Ed è un po’ tutto lì, quel senso ancestrale di cinema, quell’esorcizzare i propri fantasmi sul grande schermo per lasciarseli alle spalle.

Per Martone, il cinema è fatale, accade e non si può cambiare mai più, lo paragona al tirare frecce: c’è tutta una preparazione ma a scagliarle basta un attimo. Vi sfido a dimenticarla, una volta vista, la morte di quel matematico napoletano, il funerale profondo e ipocrita insieme, quella mano che non afferra il polso e quella luce gialla che illumina ogni cosa ma non salva nessuno.

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