Tommaso Ragno Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 26 Sep 2022 08:49:32 +0000 it-IT hourly 1 Siccità, la Roma più arida di sempre è targata Paolo Virzì https://www.fabriqueducinema.it/festival/siccita-la-roma-piu-arida-di-sempre-e-targata-paolo-virzi/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/siccita-la-roma-piu-arida-di-sempre-e-targata-paolo-virzi/#respond Fri, 09 Sep 2022 07:24:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17625 Tanti, troppi film sono ambientati a Roma, non è una novità. Ma quando un autore ne fa una distopia decidendo di prosciugarla per una crisi idrica, ovviamente giusto con effetti visivi, la cosa si fa più interessante. Mettiamoci pure un bel cast numeroso messo in scena con bilanciata coralità aggiunto alla firma di Paolo Virzì […]

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Tanti, troppi film sono ambientati a Roma, non è una novità. Ma quando un autore ne fa una distopia decidendo di prosciugarla per una crisi idrica, ovviamente giusto con effetti visivi, la cosa si fa più interessante. Mettiamoci pure un bel cast numeroso messo in scena con bilanciata coralità aggiunto alla firma di Paolo Virzì e il gioco è fatto. Almeno per le prime aspettative che si erano già viste dal trailer. Il regista livornese sbarca al Lido ufficialmente fuori concorso, inoltrandosi nelle spire del drammatico, non sempre generose con lui, ma lo spettacolare azzardo per Siccità ci conduce quasi dalle parti del disaster movie. E anche per la situazione di surreale stasi apocalittica nel cuore della nostra Italietta di sfruttatori e di sfruttati, nonché per il generoso parterre di attori, ricorda vagamente L’ingorgo di Luigi Comencini.

In questa Roma anche sui pavimenti delle case borghesi vivono di nascosto gli scarafaggi, Virzì ci tiene sempre a farci notare quanto la sete e la sporcizia diventino generali e trasversali in questa Roma in caduta libera. L’acqua è razionata e i vigili urbani inseguono i trasgressori che utilizzano l’acqua per lavare l’auto. Cosa vietatissima. Intanto l’estate torrida ha seccato il Tevere mostrandocelo vuoto come una specie di giallastra discarica abusiva.

Dai quartieri bene l’influencer Tommaso Ragno dispensa saggezze fioccanti di like e commenti col suo smartphone; l’autista Valerio Mastandrea attraversa invece la città e le manifestazioni violente alle prese con allucinazioni dal suo passato sedute sul suo sedile posteriore; Elena Lietti spreca acqua annaffiando di nascosto una piantina mentre messaggia febbrilmente; Silvio Orlando fa un carcerato di Rebibbia, sorridente pure se di lungo corso; e Gabriel Montesi è un borgataro che ricomincia a lavorare dopo un difficile periodo di stop.

Ma ci sono pure Vinicio Marchioni, Sara Serraiocco, Monica Bellucci, Max Tortora, Emanuela Fanelli, Claudia Pandolfi e Diego Ribon (gustosissimo il suo serioso climatologo veneto salito agli onori delle cronache). Tutti personaggi necessari i loro, ognun col proprio peso narrativo, e perfettamente stilizzati. Pregio di una scrittura orizzontale che tesse una rete abilmente snodata dall’inizio alla fine lasciandoci esplorare i meandri di un mondo-Roma inedito e stupefacente. E, nella loro tragicità, prendendo vita dal calamaio di un commediografo, non mancano neanche di farci sorridere amaramente.

Giunge alla sua opera più matura Virzì, complice anche la pandemia Covid. Siamo di fronte a un affresco distopico e di costume perché racconta non proprio un futuro, ma un oggi diverso, possibile e speriamo non probabile, fatto di anime che sono tra noi. Forse è questo lo spirito del tempo colto da un regista come lui. Per questo Siccità è accostabile alla sua pièce teatrale Se non ci sono altre domande, ma pure al suo più celebre Ferie d’agosto. Entrambi corali, totali, e guarda caso, con Silvio Orlando.

Impressionano il dramma ambientale e sociale, il senso di sconforto e disorientamento di fronte alla privazione di acqua. H2O come elemento fondamentale della vita, dell’equilibrio e della sanità. Toglierla a un paese e alla sua capitale fa venire quasi le traveggole, come una visione di pre-Natività in mezzo al letto seccato del Tevere, quando uno dei protagonisti guarderà attonito un uomo simile a un San Giuseppe immigrato, in cammino a condurre con sé un asinello sul quale siede una ragazzina incinta. Insomma, Siccità vi potrebbe seriamente scoppiare dentro al cuore quando uscirà al cinema. Non all’improvviso, ma il 29 settembre.

 

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Ti mangio il cuore, Pippo Mezzapesa: “Elodie come il bianco e nero, una scelta istintiva e potente” https://www.fabriqueducinema.it/festival/ti-mangio-il-cuore-pippo-mezzapesa-elodie-come-il-bianco-e-nero-una-scelta-istintiva-e-potente/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/ti-mangio-il-cuore-pippo-mezzapesa-elodie-come-il-bianco-e-nero-una-scelta-istintiva-e-potente/#respond Sun, 04 Sep 2022 16:27:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17583 Ti mangio il cuore, il nuovo film di Pippo Mezzapesa, è in concorso a Orizzonti a Venezia. Il film è una decisa zampata d’autore nella carriera del regista pugliese che, dopo Il paese delle spose infelici e Il bene mio, affronta una storia di faide familiari, perpetrate nel tempo, nell’oscuro mondo della mafia del Gargano, […]

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Ti mangio il cuore, il nuovo film di Pippo Mezzapesa, è in concorso a Orizzonti a Venezia. Il film è una decisa zampata d’autore nella carriera del regista pugliese che, dopo Il paese delle spose infelici e Il bene mio, affronta una storia di faide familiari, perpetrate nel tempo, nell’oscuro mondo della mafia del Gargano, la cosiddetta quarta mafia, raccontata nel libro omonimo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, edito da Feltrinelli.

Mezzapesa gira un film materico, intriso di terra, fango, sangue, sudore, carnale sia nelle manifestazioni della morte che in quelle dell’amore, attraversato da uno spirito selvaggio che sembra annullare lo scorrere del tempo, il 1960 è uguale al 2014, che sarà uguale fra cent’anni. Un potente bianco e nero, la presenza seducente e mefistofelica di Elodie, femme fatale di un mondo primitivo e crudele, una squadra di attori affiatati: di questo e altro parliamo con Mezzapesa, poco prima della première del film.

Quando hai cominciato a pensare a Ti mangio il cuore?

Il libro mi è stato proposto dagli autori, quando era ancora in bozze, e leggendo questa analisi attentissima del fenomeno della mafia foggiana, la cosiddetta quarta mafia, ho ritrovato una storia alla quale mi ero appassionato molti anni prima, quando era emersa dalla cronaca la vicenda della prima pentita della mafia del Gargano, una donna che per la sua ricerca di amore, un amore bruciante, fa esplodere la faida assopita fra due famiglie. Eppure, questa sua scelta aiuta a decapitare questo stesso sistema mafioso.

Il Gargano non è la terra di cui sei originario.

Io sono di un’altra parte della Puglia che però comunque è vicina. Conosco il contesto di questo film, è una realtà quasi sconosciuta, su cui far luce perché è estremamente violenta e che si è accresciuta proprio a causa del suo essere poco nota. Raccontare questa ferita, quest’ombra nella mia terra, credo che possa servire a rimarginarla.

Il bianco e nero ti è servito a dare l’impressione che, nonostante un passaggio temporale fra il prologo e il resto del film, le dinamiche si ripropongano uguali, un eterno ritorno?

Il bianco e nero è stato scelto per raccontare i grandi contrasti di questa storia. C’è un contrasto anche nel titolo: “ti mangio il cuore” può essere promessa di morte ma anche folle dichiarazione d’amore. Questa ambivalenza è anche il contrasto della storia, che è cruda, dura, violenta, ma anche fatta di fragilità, di voglia di vivere, di sensibilità, di grazia. Per restituire queste dinamiche quindi ho pensato di utilizzare solo due colori: il bianco e il nero. In fondo il bianco e nero mi ha anche consentito una sorta di astrazione e, non ultimo, la possibilità di raccontare il fulcro della storia: l’ineluttabilità del male e la difficoltà di sradicarlo.

In un film dall’estetica così precisa il rapporto con il direttore della fotografia è cruciale.

Quando ho comunicato al direttore della fotografia, Michele D’Attanasio, l’esigenza di girare in bianco e nero, lui l’ha subito condivisa. È stato bello cominciare a vivere, a guardare in bianco e nero: le scelte dei colori, le consistenze dei materiali sono fatte tutte in funzione dei contrasti del bianco e nero, ci siamo abituati a vivere così.

Hai scelto molti attori che non sono pugliesi, questo ha comportato un grande lavoro sulla lingua.

Avevo a cuore che il dialetto fosse attendibile, e di conseguenza il lavoro sulla lingua è durato mesi, c’era un dialogue coach che ha seguito gli attori in preparazione e poi è stato presente sul set a controllare fino al minimo accento. Per me restituire l’idioma di quella terra, che è molto crudo, gutturale, era essenziale per il racconto.

Hai riunito Tommaso Ragno e Francesco Di Leva, che tornano insieme dopo Nostalgia di Mario Martone.

Sono due grandissimi attori, attori di struttura ma allo stesso tempo anche di grande istinto, capaci di mimesi, è stato un privilegio dirigerli.

Sei un regista che lascia spazio all’improvvisazione?

Credo che il set sia un momento di vita, di creazione, un viaggio che va vissuto tutti insieme. Ci deve essere una guida, certo, ma la guida deve anche farsi influenzare da tutte le energie che emergono sul set, che sono sia umani che paesaggistici. Ci si lascia influenzare dall’estro degli attori, da come il personaggio viene reinterpretato e rivisto dall’attore, e allo stesso tempo si deve essere disponibili a tutti i piccoli imprevisti che i luoghi in cui si va a girare ti presentano. Tutto questo arricchisce la storia.

Le location sono posti che già conoscevi?

Sono posti che conoscevo molto bene ma che ho imparato a conoscere ancora meglio, perché la prima cosa che faccio, prima ancora di fare scouting con la produzione, è visitare da solo o al massimo col direttore della fotografia i luoghi in cui si andrà a girare, per entrare nell’anima dei posti, capirne l’essenza e raccontarli con consapevolezza.

Come è avvenuta la scelta di Elodie, qui al suo esordio?

Un po’ come la faccenda legata al bianco e nero: un’intuizione iniziale, istintivamente. Serviva una personalità forte, che avesse una sensualità dirompente, violenta, ma allo stesso tempo sapesse comunicare verità, sensibilità, capacità di emozionare. Elodie era perfetta. Il percorso di ricerca del personaggio è stato incredibile, è stata una scelta molto coraggiosa sia da parte mia e della produzione che, soprattutto, da parte sua, perché non è semplice esordire al cinema con un personaggio così sfaccettato.

Il finale di Ti mangio il cuore apre a una speranza, a una remissione, però l’ultimissima inquadratura può significare che esiste qualche cosa di inestirpabile negli esseri umani. Sei d’accordo?

Ancora una volta: l’ineluttabilità del male. Il male è alienabile, sì, è una scelta di vita: la scelta di Marilena, il personaggio di Elodie, va nella direzione dello sradicamento del male, ma attenti, perché le radici sono difficili da estirpare.

 

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Nostalgia di Mario Martone: Favino detective del passato nelle viscere di Napoli https://www.fabriqueducinema.it/focus/nostalgia-di-mario-martone-favino-detective-del-passato-nelle-viscere-di-napoli/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/nostalgia-di-mario-martone-favino-detective-del-passato-nelle-viscere-di-napoli/#respond Wed, 25 May 2022 06:56:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17238 Mario Martone è un artista infaticabile. Senza menzionare nel dettaglio tutte le incursioni a teatro e nell’opera lirica (che comunque, solo nell’ultimo anno e mezzo, hanno registrato delle vette ne Il filo di mezzogiorno, da Goliarda Sapienza, e nella trilogia di film-opera per la Rai, Traviata, Barbiere di Siviglia e Bohème), Martone si è messo […]

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Mario Martone è un artista infaticabile. Senza menzionare nel dettaglio tutte le incursioni a teatro e nell’opera lirica (che comunque, solo nell’ultimo anno e mezzo, hanno registrato delle vette ne Il filo di mezzogiorno, da Goliarda Sapienza, e nella trilogia di film-opera per la Rai, Traviata, Barbiere di Siviglia e Bohème), Martone si è messo al lavoro sul suo ultimo film immediatamente dopo le impegnative riprese di Qui rido io. Anzi, in realtà è successo durante: come ha raccontato in una intervista rilasciata a Film TV Ippolita di Majo, il lavoro su Nostalgia era cominciato nel lockdown del 2020, che di fatto spezzò in due le riprese del film su Eduardo Scarpetta, interrotto dopo gli interni a Roma e al quale mancavano due settimane di esterni da girare a Napoli.

Nostalgia è un romanzo postumo di Ermanno Rea, grande scrittore napoletano che ha fatto letteratura sublime attingendo alla sua esperienza di giornalista cominciata negli anni ’50 all’Unità di Napoli, all’angiporto Galleria (oggi piazzetta Matilde Serao), una redazione che all’epoca era una palestra eccezionale e si ammantò, successivamente, di alone leggendario. Dopo Mistero Napoletano, La dismissione, Napoli Ferrovia e Il sorriso di don Giovanni (per citarne alcuni), Rea non fece in tempo a vedere pubblicato Nostalgia, uscito nel 2017, un anno dopo la morte dell’autore.

Mario Martone sul set di Nostalgia
Mario Martone in una pausa delle riprese di “Nostalgia” (ph: Elio Di Pace).

Al centro del romanzo, l’amicizia virile di Felice Lasco e Oreste Spasiano, inseparabili, simbiotici nel bene e soprattutto nel male, cresciuti nel Rione Sanità, il più misterioso e mistico dei quartieri antichi di Napoli, un quartiere di catacombe, di cimiteri, di riti sacri e pagani, di fondaci e palazzi monumentali, scavato nel tufo della collina di Capodimonte e al quale Ermanno Rea ha sempre fatto riferimento ed è sempre tornato, come in alcuni bei momenti di cui si legge già in Napoli Ferrovia.

Martone cominciò subito i sopralluoghi alla Sanità, accompagnato dal direttore della fotografia Paolo Carnera, e nel settembre del 2021 le riprese ebbero inizio. Per quanto ci sia potuta essere programmazione, il Rione Sanità non è stato uno sfondo neutro ma, formicolante della sua varia e febbrile umanità, ha avuto una vita propria che Martone è stato geniale ad accogliere e integrare dentro al film. Stabilito il campo base in un parcheggio nelle viscere del rione, agili furgoncini con le macchine da presa, le attrezzature per la presa diretta, i costumi e i fabbisogni di scenografia correvano avanti e indietro per i vicoli, la maggior parte della troupe sfrecciava in motorino per raggiungere più in fretta le location, la complicità degli abitanti aiutava ad avere a disposizione punti di vista privilegiati da balconi, terrazzi, cortili e vasci (i bassi).

Se nel romanzo Rea si cala nei panni di un narratore interno che racconta le vicende di Felice e Oreste, nel film Martone inventa un raffinato concerto di sguardi: a volte noi siamo Felice Lasco, altre volte, pedinandolo con la macchina a mano oppure seguendolo dall’alto con teleobiettivi strettissimi che lo isolano dallo sfondo, lo stiamo evidentemente spiando, come lo sta spiando Oreste Spasiano, l’amico perduto che Felice vuole ritrovare dopo quarant’anni di assenza da Napoli e di lontananza dall’anziana madre.

Ma non può bastare un affettuoso viaggio nella memoria: non può bastare a Oreste, che si è sentito tradito dall’amico che ha ricostruito la propria vita in un’altra città, in un’altra nazione, in un altro continente, e non basta neanche alla madre di Felice, giunta a un grado di consunzione raccontato da Martone con una pietas magistrale, che consegna a una ideale antologia alcune scene di questo film.

Pierfrancesco Favino Nostalgia
Pierfrancesco Favino.

La seconda, grande differenza rispetto all’opera di Rea è che il romanzo comincia dalla fine. Martone e di Majo, sfrondando la storia di ogni dettaglio cronachistico o giornalistico, hanno invece privilegiato uno svelamento progressivo della vicenda: Martone non vuole fare un film “sociale”, ma vuole raccontare un sentimento, una vicenda umana, e se Felice scende negli inferi, nel vero senso della parola, noi ci scenderemo con lui. E se si guarda Nostalgia da questa prospettiva, non si fa fatica a considerarlo un gemello, in chiave maschile, de L’amore molesto, dove la Delia di Anna Bonaiuto pure si trasforma in detective di un doloroso passato. E, a voler essere più naïf, il parallelismo non finisce qui: L’amore molesto è l’unico film di Martone a essere stato in concorso al Festival di Cannes, raggiunto proprio quest’anno da Nostalgia.

Infine, come sempre nei film di Martone, un accenno alla statura degli interpreti, fra nuove e antiche collaborazioni: Pierfrancesco Favino nei panni di Felice è monumentale, non solo per lo studio fatto sulla lingua, una commistione di napoletano, riacquisito poco a poco con l’avanzare del film, e l’arabo, la lingua del lavoro e dell’amore, ma per una caratterizzazione del personaggio che parte dal modo in cui cammina e arriva fino al modo in cui mangia e beve; l’orco Oreste Spasiano di Tommaso Ragno, chiuso nel suo fatiscente castello da cui domina il quartiere, nerboruto, animalesco nelle espressioni verbali e fisiche, una presenza così misteriosa e temibile che, arrivati alla fine del film, si potrebbe tentare una acrobazia interpretativa e immaginare che non esista, che sia un demone, uno dei tanti che infestano le grotte della Sanità; il padre Rega cucito addosso a Francesco Di Leva, che trasmette fedelmente al suo personaggio una missione che è propria della sua quotidianità, con il NEST di San Giovanni a Teduccio; sempre grandi, Aurora Quattrocchi nei panni della madre, Luciana Zazzera nel ruolo della commara e Nello Mascia, un po’ guantaio, un po’ angelo custode.

 

 

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Vetro, tra claustrofobia e mistero l’opera prima di Domenico Croce https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/vetro-tra-claustrofobia-e-mistero-lopera-prima-di-domenico-croce/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/vetro-tra-claustrofobia-e-mistero-lopera-prima-di-domenico-croce/#respond Thu, 07 Apr 2022 13:24:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17054 Esce nelle sale Vetro, opera prima di Domenico Croce, regista romano classe ’92, già premiato nel 2021 ai David di Donatello per il cortometraggio Anne. Vetro è un thriller psicologico, girato interamente in un teatro di posa del Centro Sperimentale con il supporto degli effetti speciali di Edi e dello special make up di Andrea […]

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Esce nelle sale Vetro, opera prima di Domenico Croce, regista romano classe ’92, già premiato nel 2021 ai David di Donatello per il cortometraggio Anne. Vetro è un thriller psicologico, girato interamente in un teatro di posa del Centro Sperimentale con il supporto degli effetti speciali di Edi e dello special make up di Andrea Leanza. Protagonista assoluta è Carolina Sala, vista nella serie Fedeltà su Netflix e qui al suo esordio sul grande schermo, premiata con menzione speciale per la sua interpretazione alla tredicesima edizione del Bif&st (Bari International Film & TV Festival) dove il film è stato presentato il mese scorso.

Lei è una ragazza che vive reclusa nella sua stanza da un tempo indefinito, una hikikomori. I suoi unici contatti sono con il suo cane Hiro, con il padre (Tommaso Ragno) a cui però non è concesso entrare, e con Lui (Marouane Zotti) un ragazzo conosciuto in una community online, con il quale instaura un rapporto fatto di chat e videochiamate. Immersa nella sua routine costituita unicamente dal disegno, dalla musica e dai giochi con il padre, Lei sembra quasi non sentire la mancanza del mondo esterno, di cui è inconsapevole e terrorizzata. Un giorno, spiando i vicini dalla finestra, nota qualcosa di strano e terribile nell’appartamento di fronte, e si convince che una donna sia tenuta segregata dal marito.

La trama riprende il tema del celeberrimo La finestra sul cortile di Aldred Hitchcock, molto frequentato dal cinema (vedi anche il recente La donna alla finestra di Joe Wright), ma riesce tuttavia a trovare una sua originalità. Gli sceneggiatori (Ciro Zecca e Luca Mastrogiovanni) e il regista sfruttano con consapevolezza il richiamo al genere creando colpi di scena e cambi di registro che riescono, anche se non sempre, a sorprendere lo spettatore.

L’atmosfera è claustrofobica, enfatizzata dall’impiego di colori vivaci e acidi, quasi disturbanti, e dal fuoricampo, che sostengono e alimentano il mistero dai tratti horror su cui ruota il film. Lo spettatore ne ricava una sensazione quasi soffocante e faticosa, acuita dall’esperienza degli ultimi due anni di pandemia, che lo aiuta a immedesimarsi e, al tempo stesso, ad allontanarsi dal piccolo mondo della protagonista.

Presente dal primo all’ultimo fotogramma, Carolina Sala scandisce il ritmo e l’energia del film reggendo come un pilastro le fila della storia, e guidando, con il suo punto di vista, lo spettatore tra paranoia e realtà. Il vetro, quello della finestra ma anche quello del pc, è il filtro attraverso cui Lei, con il suo look da eroina manga, vede il mondo, immersa in una fotografia che ricorda anch’essa il gusto sudcoreano e giapponese.

 

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