The Jackal Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 06 Dec 2017 14:17:24 +0000 it-IT hourly 1 Cinema e web: una lunga storia d’amore https://www.fabriqueducinema.it/focus/cinema-web-lunga-storia-damore/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/cinema-web-lunga-storia-damore/#respond Wed, 06 Dec 2017 14:15:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9723 Sono diversi anni che assistiamo alle trasposizioni cinematografiche di fenomeni del web. Sono anni che vediamo produzioni e distribuzioni investire milioni di euro per lanciare i famosi youtubers nel mondo del cinema. E sono anni che assistiamo al fallimento di queste operazioni. Perché l’industria cinematografica si muove in questa direzione? Forse il problema è sempre […]

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Sono diversi anni che assistiamo alle trasposizioni cinematografiche di fenomeni del web. Sono anni che vediamo produzioni e distribuzioni investire milioni di euro per lanciare i famosi youtubers nel mondo del cinema. E sono anni che assistiamo al fallimento di queste operazioni. Perché l’industria cinematografica si muove in questa direzione? Forse il problema è sempre lo stesso. In Italia non esiste una vera industria cinematografica e per questo numeri, statistiche e risultati non creano un precedente. Ogni produttore e distributore è convinto della genialità della propria operazione, di aver trovato la gallina dalle uova d’oro, il Checco Zalone del web. Tanto alla fine si sa che i dati nel nostro Paese non sono poi così importanti. Come in televisione, anche nel cinema spesso e volentieri si sottolineano solo i grandi successi, e non i grandi flop. Ma l’analisi degli insuccessi in un’industria è fondamentale, perché permette di correggere il tiro, di migliorarsi e andare nella giusta direzione.

Dietro al discorso che andiamo a fare, c’è quindi un approfondimento più generale del fenomeno: non si tratta di singoli film, della critica all’uno o all’altro, ma dell’analisi di un linguaggio.

immagine da Game Therapy
“Game Therapy”

Il primo postulato fondamentale è che il linguaggio del web non è un linguaggio cinematografico. Forse negli anni a venire potrà diventare l’ottava forma d’arte dopo il cinema, ma sicuramente le leggi che lo governano sono completamente differenti da quelle che regolano la settima arte. Il cinema è una forma d’arte dove la visione è dilatata, l’attenzione ai dettagli è costante, il suono, i colori, la recitazione sono elementi che non possono passare in secondo piano. Ma soprattutto il linguaggio narrativo e la sua struttura seguono schemi e regole ben precise, e anche le eccezioni rientrano tutte nel paradigma di una STORIA da raccontare, compiuta (parliamo di un cinema apprezzato dalla critica e dal pubblico).

Il linguaggio del web e la sua fruizione è molto diverso. Tutto si abbassa di vari livelli, tutto è concentrato, spremuto, segmentato. La comicità, il nonsense, l’irrazionale, la burla, la parodia, divampano. Viviamo in una società dove l’uso dei social e degli smartphone si è espanso a dismisura, ogni individuo fruisce di contenuti web a qualsiasi ora della propria giornata, siamo costantemente bombardati da video, fotografie, immagini. In questo bombardamento rientrano anche le webserie, gli youtuber, gli sketch e le gag degli artisti 2.0. Queste piccole opere devono essere capaci di strappare un sorriso, un interesse, in pochi minuti. E in pochi minuti possono ottenere migliaia di visualizzazioni. Non è importante la qualità tecnica, non è importante il livello di recitazione degli interpreti, la cosa importante è che l’amalgama del tutto porti al risultato prefissato, che può andare dalla semplice risata alla vendita di un prodotto.

Questi due elementi vendita e contenuto si fondono spesso palesemente, perché così funziona il web. È un grande mercato che ti entra dentro casa. È un contenuto gratuito, fruito quasi sempre attraverso lo smartphone (anche questo un mezzo compresso, non un cinemascope con il dolby sorround!). E se un prodotto ha successo può raggiungere milioni di persone, un pubblico grande come quello del prime time televisivo, e superarlo. E dunque ha un potenziale di visibilità decisamente più alto di quello cinematografico. Anche perché essendo un contenuto gratuito e condivisibile, gli utenti possono postarlo sulle proprie pagine suggerirlo sotto forma di link, e fare un passa parola mediatico senza paragoni. Tutto questo e molto altro è il mondo del web. Ha le sue regole, il suo funzionamento, il suo linguaggio espressivo. Ed è impossibile da trasferire sul grande schermo.

Sempre meglio che lavorare dei The Pills
“Sempre meglio che lavorare”

Se si vuole ottenere un simile successo commerciale al cinema, ci si aspetta che una storia mantenga ritmo e intensità dall’inizio alla fine, che faccia ridere se si tratta di una commedia, o che colpisca le emozioni più profonde se si tratta di un dramma, e via dicendo. Tutto si dilata e il pubblico che paga un biglietto, che spende dieci euro e dedica 90 e passa minuti della propria vita solo ed esclusivamente alla fruizione di un’opera si aspetta qualcosa in cambio. Si aspetta di identificarsi in ciò che vede e di provare emozioni.

Perché questo è il cinema. Una forma d’arte il cui successo è sempre più determinato da una storia che funzioni, da un’interpretazione credibile e da un coinvolgente impatto visivo. I milioni di persone che visualizzano un contenuto sul proprio smartphone in forma gratuita non si muoveranno mai in massa per vedere lo stesso contenuto a pagamento e in un arco temporale più lungo e all’interno di un luogo/spazio predefinito. È come se si decidesse di esporre le fotografie più visualizzate su Instagram in un museo, pensando che i milioni di persone che le hanno visualizzate accorrerebbero in massa. Non è così, perché il pubblico del web concede al contenuto un’attenzione disinteressata, veloce, rapida, spesso disattenta.

Ma soprattutto è il contenuto che entra nella vita dello “spettatore”, non è lo spettatore che si muove verso il contenuto (e quindi prende l’automobile o i mezzi pubblici e va al cinema). Oltretutto i contenuti audiovisivi presenti sul web in Italia hanno per la maggior parte un livello culturale inferiore rispetto ad altre opere artistiche. Questo perché si aprono a un pubblico più vasto e con un livello culturale basso (sosteneva Umberto Eco che «Internet è la patria degli scemi del villaggio»), ma allo stesso tempo ha un enorme potenziale, quello di permettere a un pubblico non acculturato di avvicinarsi in piccole dosi alla cultura. Sempre che si voglia seguire questa strada.

Dunque perché produzioni e distribuzioni spendono milioni di euro nella trasposizione cinematografica dei fenomeni del web? Forse solo per azzardo. In un futuro dove il cinema sarà dominato dai grandi blockbuster internazionali e il pubblico è destinato ad assottigliarsi a favore di quello del video on demand, forse l’investimento più azzeccato sarebbe quello di entrare a spada tratta nella produzione di contenuti di qualità direttamente sul web in maniera sempre maggiore, come stanno facendo molti colossi internazionali (da Amazon a Netflix) e collegare la produzione web alla pay per view.

Immagine da Si muore tutti democristiani
“Si muore tutti democristiani”

Oppure ripartire da produzioni intelligenti e originali (come il successo di Perfetti sconosciuti) creandoci attorno una vera industria cinematografica. I dati parlando da soli, a partire dal film dei The Pills Sempre meglio che lavorare, passando per Game Therapy e Addio fottuti musi verdi, i film delle star del web hanno riscosso una sequela di critiche e flop al box office. Per provare ad avere successo anche nel cinema bisognerebbe ripartire da zero, annullare quello che si è fatto sul web, e adattarsi al linguaggio cinematografico. Vedremo se i prossimi Social Dream e Si muore tutti democristiani (che peraltro ha ricevuto buone critiche al Festival di Roma, per la capacità di allontanarsi dagli sketch proposti sul web e proporre un film “vero”), riusciranno ad adeguarsi alle leggi del grande schermo.

Una cosa è certa, per non rischiare di bruciare questi promettenti talenti le grandi produzioni dovrebbero accompagnarli nella trasformazione verso il linguaggio filmico fornendo loro lo strumento principe della narrazione cinematografica, lo sceneggiatore professionista, figura a volte bistrattata in Italia, ma che risulta fondamentale per questo genere di operazioni. L’unico, con la sua esperienza, capace di creare una struttura di genere forte e compiuta, mutando la comicità del web in storie dal ritmo, tempo e respiro cinematografico.

* L’opinione di Tommaso Agnese – Regista, scrittore e produttore creativo

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The Jackal, la caduta del precario https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/the-jackal-la-caduta-del-precario/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/the-jackal-la-caduta-del-precario/#respond Fri, 03 Nov 2017 08:35:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9559 Italia, paese di precari. Chiudi gli occhi. Fai passare cinque, sei anni. Riaprili. L’Italia è sempre un paese di precari. Talmente tanto che il precario ipertitolato-pronto-a-tutto è diventato una specie di nuovo archetipo della moderna commedia italiana. Da Tutta la vita davanti (2008) a Fuga dal call center (2009), passando per Generazione 1000 euro (2009), […]

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Italia, paese di precari. Chiudi gli occhi. Fai passare cinque, sei anni. Riaprili. L’Italia è sempre un paese di precari. Talmente tanto che il precario ipertitolato-pronto-a-tutto è diventato una specie di nuovo archetipo della moderna commedia italiana.

Da Tutta la vita davanti (2008) a Fuga dal call center (2009), passando per Generazione 1000 euro (2009), Smetto quando voglio (2014) e The Workers (2012), da qualche anno è tutto un cinefiorire di vulcanologi, laureati con lode, neurobiologi, matematici e freelance impiegati nei sottoscala di luride cucine (spesso cinesi, chissà perché) o semplicemente senza lavoro.

Ultimi in ordine di tempo – e già questo, da parte loro, è piuttosto strano – anche i The Jackal portano al cinema, e prima ancora alla Festa di Roma, nella sezione Alice nella Città, la loro lettura del precariato italiano con Addio fottuti musi verdi, storia di un grafico pubblicitario (Ciro Priello) che, stufo di non trovare lavoro in Italia, manda il suo curriculum nello spazio. E viene assunto. Dagli alieni.

Una premessa gustosa che si innesta però su un tema stanco, quasi istituzionalizzato. E perciò privo di carica eversiva. Intendiamoci: funzionano i siparietti con gli attori di Gomorra (Fortunato Cerlino e Salvatore Esposito), funziona la guest star Gigi D’Alessio, funzionano le trovate narrative – il curriculum nello spazio, il contratto a tempo indeterminato come il Graal di una generazione, il popolo alieno come metafora non troppo velata della Germania di Merkel – ma manca l’affondo satirico, la sciabolata intelligente, manca lo spirito dissacrante, manca insomma quella capacità dei The Jackal, le teste matte dietro a Lost in Google, di smontare comicamente il reale e di farlo sempre un passo avanti agli altri. Il mestiere, insomma, c’è: ma dov’è finita l’inventiva?

Con Addio fottuti musi verdi si assiste con un pizzico di delusione al processo di normalizzazione della libertà creativa della factory napoletana – evidente soprattutto nella confezione del pacchetto: voce fuori campo, sottile plot di amicizia/responsabilità, “chiusura dei rubinetti” finale – la cui responsabilità potrebbe risiedere nell’importante presenza di Cattleya in produzione. Un intervento ingombrante che, se ha levato qualcosa in fase di scrittura, ha tuttavia restituito altrettanto in realizzazione e post produzione, consegnando agli spettatori una fantascienza made in Italy davvero credibile. Ed è questo probabilmente l’aspetto più riuscito del film: l’aver provato con successo ad alzare l’asticella dell’ambizione di genere, tentando una strada – quella della sci-fi – ritenuta impraticabile localmente a livello produttivo.

Il bilancio della prima avventura cinematografica dei The Jackal si chiude quindi in sufficienza, con un prodotto molto al di sotto delle aspettative e leggero come un cinepanettone per millennials. Buono per ridere qui e ora, a una condizione: quella di non pensare che, da dieci anni a questa parte, l’unico traguardo raggiunto in commedia è stato quello di trasformare i precari da personaggi a macchiette.

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