Supersex Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 24 Jul 2024 15:08:13 +0000 it-IT hourly 1 Enrico Borello, ogni volta una pelle nuova https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/enrico-borello-ogni-volta-una-pelle-nuova/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/enrico-borello-ogni-volta-una-pelle-nuova/#respond Tue, 02 Jul 2024 07:21:40 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19175 Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista.  Mi saluta citando Toro scatenato di Scorsese, una scena in particolare che maneggia come una […]

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Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista.

 Mi saluta citando Toro scatenato di Scorsese, una scena in particolare che maneggia come una bussola: «Robert De Niro rivela l’essenza del suo personaggio ma è completamente al buio. È in prigione, prende a pugni il muro, ripete “Io non sono cattivo”, ma non si vede mai in faccia». Per lui c’entra qualcosa con la forza di un attore che lavora in ombra, senza cercare a ogni costo la luce (in scena, nei ruoli, nella fama). Enrico Borello – una laurea in riabilitazione psichiatrica – ha iniziato a recitare tardi e di nascosto dagli amici di sempre, che avrebbero pensato «o sei un coglione o sei Billy Elliot». Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista. Ha odiato il sistema, sta imparando a gestirlo e la vive come una partita a poker: «Io non bluffo mai, il punto lo dichiaro sempre. Poi la verità si vede in scena, quando siamo tutti sulla stessa barca e parliamo la stessa lingua».

Partiamo dalla fine: Gabriele Mainetti, una storia di kung fu ambientata a Roma, nel cast Ferilli, Zingaretti e Giallini, ma il vero protagonista sarai tu.

Sarò io insieme all’attrice Liu Yaxi. Di kung fu non ne capisco nulla, un film d’azione solo con me sarebbe stato troppo goffo. Per me la romanità è un fattore centrale, e me la sono giocata nella misura in cui Gabriele mi ha inserito nel contesto in cui sono cresciuto. Sono di Santa Croce in Gerusalemme e il film è ambientato a Piazza Vittorio, l’Esquilino è casa mia.

E se ogni attore porta in scena anche un po’ della sua storia, tu cosa ti porti dietro?

Elio Germano ha detto in un’intervista che la cosa migliore che può succedere a un attore è smettere di provare ad essere qualcun altro e imparare ad essere se stesso nel modo più potente possibile. Al momento mi accorgo che c’è una grande voglia di esprimermi e camuffarmi, senza nascondermi, ma cercando di trovare ogni volta una pelle nuova.

È il motivo per cui hai iniziato a fare l’attore?

Un po’ sì. Volevo vivere una vita che nella realtà mi costerebbe delle scelte da cui non si torna indietro. Volevo fare il maggior numero di esperienze possibili, però a rischio zero.

Quindi fino a che punto spingersi?

A volte mi è successo di rischiarmela. Psicologicamente ti puoi frammentare, nel nostro mestiere questo esiste e mi attrae. Per Lovely Boy sono stato quel personaggio dalla mattina alla sera, scrivevo canzoni, le registravo, per me il gioco era su tre livelli: non essere Enrico che interpretava il personaggio del film, ma essere un trapper che faceva un film sulla trap. Poi è stato problematico, ho capito che ci sono degli orari per fare certe cose, che la sera devi recuperare il tuo ritmo. Non sono Heath Ledger che sta facendo Joker, ma è vero che ti vesti dei panni di qualcun altro e certi vestiti te li porti dietro tutta la vita.

Questa è scuola Volonté o scuola Borello?

Macché Volonté! [ride] Queste sono esperienze collezionate. Per me non c’è scuola, maestro o persona che possa insegnarti a recitare. Quando sono entrato alla Volonté mi sono spaccato in quattro e alla fine ho capito che l’unica vera esperienza che si fa in un’accademia di recitazione è quella di misurarsi con l’altro: la lezione più importante, il banco di prova più utile. Ma se si tratta di stare in scena, io provo sempre a ricordarmi: cosa facevi quella volta che volevi essere il più bullo del quartiere? O quando pensavi che saresti diventato un medico psichiatra? Come ti comportavi, come hai cambiato pelle per stare all’interno di un ambiente?

Sei laureato in riabilitazione psichiatrica. Appartiene a un altro Enrico, oppure?

La pelle te la porti sempre dietro. Non credo a quello che dicono i Jedi, che devi disimparare ciò che hai imparato. Quando ho lavorato con le realtà più fragili dell’essere umano ho imparato a conoscere l’altro, anche negli aspetti che definiamo folli. L’esperienza di una psicosi è inafferrabile e incomprensibile, puoi simularla con delle sostanze stupefacenti ma non saprai mai che cazzo è.

Ti piace o ti spaventa l’idea di interpretare una psicosi che eri pronto a curare?

A un ruolo del genere mi affezionerei tanto, ma mi spaventa tutto. Io amo i ruoli morbidi, se potessi starei solo comodo. Quando interpreto personaggi violenti campo male, non sto bene, perché la violenza lavora dentro di te. Fare uno psicotico significherebbe fare i conti con un mare di violenza percepita.

Quando ti sei iscritto al primo corso di teatro lo hai nascosto a tutti: perché ti imbarazzava?

A ventidue anni era difficile raccontarlo agli amici. Sono sempre stato immerso nella Roma di tutti i giorni, che non è borgata ma è anche quella di chi lavora nelle officine o nei ristoranti, la cocaina la sera, le birre, e se dici che vuoi fare l’attore o sei un coglione oppure sei Billy Elliot. Quando ho iniziato a lavorare sul corpo e muovermi in modo strano, pensavo: “Mo’ sbuca l’amico mio Paoletto dalla finestra, me guarda e me fa: Enriche’, ma che cazzo stai a fa’?”

Hai raccontato che su Supersex Borghi ha sbloccato qualcosa dentro di te.

Ho sempre visto Borghi come una figura lontana, mitologica. Poi Alessandro mi ha sbloccato un processo umano: da lui mi sono sentito accolto, e sentirsi accolti in quelle situazioni non è una cosa da poco. Saper mettere l’altro a proprio agio richiede una grande forza, e questo mi ha fatto capire che davanti non avevo solo un grande attore che faceva parte del sistema.

Verso il sistema sei diffidente?

L’ho giudicato per tantissimo tempo. Poi Alessandro ha  rimosso una reticenza verso una realtà che per me era solo tossica. Quando “slivelli” ti accorgi che contano gli esseri umani e incontrarne uno del genere, nonostante il potere che il sistema gli riconosce, non è scontato. Mi capita di incontrarne altri e pensare: “Meno male che te vedo oggi e poi non te vedo più”.

Invece Gabriele Mainetti ti ha fatto capire cosa significa trasformare delle sensazioni in azioni. Vale a dire?

Che il mestiere dell’attore non è necessariamente sentire l’esperienza, ma a volte agirla, quando ti capita di non sentirla. Poter raggiungere la sensazione attraverso l’azione. Con Gabriele i take erano tanti, le scene difficili, le giornate lunghe. Lì se ti affidi solo alla sensazione, il corpo ti saluta. Deve subentrare l’aspetto atletico dell’attore.

L’attore che non è solo atleta delle emozioni.

Esatto. Con Gabriele ho trovato chiavi che aprono nuovi elementi del mio corpo. Ecco perché dico che la recitazione non te la può insegnare nessuno: arriva un momento in cui devi sopravvivere a quella scena. Ed è nell’urgenza che impari sempre qualcosa, il tuo corpo ti regala delle verità su se stesso e allora dici: “Questo farà parte del mio repertorio. Oggi ho capito che non so soltanto camminare, posso anche correre”.

Te lo sei meritato questo ruolo?

Me lo so’ faticato. Ho lottato, tanto. Per me è come una partita a poker, e io il punto ce l’ho. Non bluffo, non prometto cose che non ho in mano, il punto lo dichiaro sempre. Poi vediamo chi viene a vedere.

Credi che nella tua carriera stia per succedere qualcosa di grosso?

Io voglio crescere. Non faccio questo mestiere per la fama, anche perché, una volta ottenuta, che farei? A me piace il gioco, fare le foto per questa nostra cover, esprimermi. E quando la rivedrò tra qualche anno penserò: “Quante cazzate ho detto”.

Fotografa @robertakrasnig assistente @_davide.valente_

Stylist @flavialiberatori_ assistente @carlottagallina_

Hair @adriare

Makeup @idlmakeup

Abiti: @paulsmithdesign, calvinklein, @fendi @seafarer_since1900

 

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Supersex: anche il porno è stato bambino https://www.fabriqueducinema.it/serie/supersex-anche-il-porno-e-stato-bambino/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/supersex-anche-il-porno-e-stato-bambino/#respond Thu, 07 Mar 2024 13:20:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18990 Era una delle serie italiane Netflix più attese dell’anno Supersex, disponibile online dal 6 marzo. Sette episodi ispirati alla vita di Rocco Siffredi, icona del porno interpretata da Alessandro Borghi. L’attore romano ne carpisce l’anima rimodulando sul suo volto lo sguardo intenso e la risata larga un po’ obliqua del pornostar, lati noti di Siffredi. […]

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Era una delle serie italiane Netflix più attese dell’anno Supersex, disponibile online dal 6 marzo. Sette episodi ispirati alla vita di Rocco Siffredi, icona del porno interpretata da Alessandro Borghi. L’attore romano ne carpisce l’anima rimodulando sul suo volto lo sguardo intenso e la risata larga un po’ obliqua del pornostar, lati noti di Siffredi. Ma la novità sono le inquietudini e le fragilità di un uomo che è stato prima di tutto bambino e ragazzo, sempre attratto dalle donne fin quasi all’ossessione, ma perseguitato dai suoi demoni del passato.

Si parte da una sua crisi del 2004 per dei flashback che ci mostrano l’infanzia e poi l’adolescenza di un ragazzo abruzzese cresciuto in una casa popolare di Ortona assieme a una famiglia numerosa, ma destinato a diventare un divo. Prima tappa del suo cammino Parigi, ospitato dal fratello maggiore dal volto rude di Adriano Giannini. «L’amore è difficile, Rocco. Tu hai quegli occhi buoni e parli dell’amore, ma manco sai cos’è». Gli dirà la moglie del fratello impersonata da Jasmine Trinca. Con loro si costruisce il principale nucleo di relazioni e contrasti. Il giovanissimo Rocco guarda come esempio il fratellone e custodisce fin da bambino il suo giornalino erotico Supersex come il Don Abbondio di Manzoni teneva al suo breviario. Tutt’intorno si svilupperanno il legame con il cugino manager e lucignolo con il volto di Enrico Borrello, la professionalità del pornoattore con il suo primo mentore, il pornostar francese Gabriel Pontello, con il produttore italiano Riccardo Schicchi e con l’icona nonché amica dispensatrice di piccole saggezze erotiche Moana Pozzi, interpretata con molta verità nel suo fascino un po’ flemmatico da Gaia Messerklinger. La relazione più combattuta e tenera è invece con la madre impersonata da Tania Garribba, mentre una vera sorpresa toccante sarà l’amicizia importante con l’attore Franco Caracciolo, caratterista di tante commedie sexy degli anni ottanta, che ha il volto dell’ottimo Mario Pirrello.

Tra le elucubrazioni di un eroe oscuro, il delirio del sesso attraverso i labirinti del desiderio e gli affetti che hanno circondato il protagonista durante il suo cammino, la sceneggiatura di Francesca Manieri tesse insieme un reticolo complesso di contrasti emotivi, introspezioni, conflitti interni e tra i personaggi che va ben oltre la pornografia. La Manieri ha scritto film, tra gli altri, per Laura Bispuri, Valentina Pedicini ed Emanuele Crialese. Il suo tocco gentile si sente in moltissimi passaggi, assumendosi come lei stessa ha dichiarato «il rischio e il privilegio di raccontare il maschile partendo da un maschio che del maschile occidentale è diventato senza dubbio emblema». Ed è questa forse la vera arma vincente di Supersex. Poi c’è ovviamente l’epopea del porno. Lo chiama potere, superpotere, il Rocco diretto da Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni. «Il cazzo è un pensiero. Non ero pronto per il soft ma non ero nemmeno pronto per l’hard». O anche, all’apice del successo: «Era così forte quello che vendevamo, che la Chiesa, lo Stato, le guardie, erano tutti contro di noi». Dirà la voce off di Rocco/Borghi.

SupersexNon mancano scene forti, ma questa serie rimane ben allineata tra i prodotti Netflix. In Italia è molto difficile parlare di sesso, ma su una piattaforma ramificata in 190 paesi la questione cambia. E Groenlandia espandendosi in varie direzioni dell’audiovisivo ha aggiunto alle sue produzioni un tassello piuttosto sostanzioso. Non propone in realtà molte idee di macchina da presa Supersex, ma compensa con l’ottima direzione e ricerca attoriale. Presenta una patinatura un po’ sognante sull’infanzia e la giovinezza, dove il ruolo di Rocco è coperto da un energico Saul Nanni, mentre la fotografia sul Rocco in crisi degli anni 2000 assume più profondità visiva. Inoltre racconta a modo suo un po’ di Abruzzo attraverso il dialetto tutto sommato ben proposto, pur con il paese natale del protagonista, Ortona, che viene inquadrato soltanto nelle panoramiche aeree, venendo ricostruito sui set del Trullo e di Ostia, quartieri di Roma.

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