Sky Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 15 Jul 2022 10:28:43 +0000 it-IT hourly 1 (Im)perfetti criminali, dedicato “a tutti quelli che perdono da una vita” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/imperfetti-criminali/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/imperfetti-criminali/#respond Mon, 16 May 2022 12:44:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17186 Quattro guardie giurate (un po’ imbranate ma di cuore, come ci piace a Roma) si improvvisano criminali per salvare il posto di lavoro a uno di loro. È il movente romantico che scatena l’incontro tra commedia e “colpo grosso” in (Im)perfetti criminali (su Sky e NOW): non per soldi, dunque, né per senso di riscatto, […]

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Quattro guardie giurate (un po’ imbranate ma di cuore, come ci piace a Roma) si improvvisano criminali per salvare il posto di lavoro a uno di loro. È il movente romantico che scatena l’incontro tra commedia e “colpo grosso” in (Im)perfetti criminali (su Sky e NOW): non per soldi, dunque, né per senso di riscatto, ma solo per amicizia.

Curiosamente impegnato a combattere alcuni luoghi comuni su tematiche d’attualità e sulla filiera cinematografica in sé, (Im)perfetti criminali è un film dedicato «a tutti quelli che perdono da una vita» (che omaggio irresistibile). Non è un caso che Alessio Maria Federici non sia uno innamorato dei vincenti, ma al contrario sia in prima linea accanto a quelli che devono lavorare il doppio per provare a farcela. Lo si nota in primis dalla scelta del cast (coraggiosa quanto azzeccata),  poi dalla ricerca di una regia volta a raccontare la frustrazione e il fallimento dei personaggi.

Mentre Vita di Shirley Bassey esplode imponente sui titoli di coda del suo film, Federici porta i suoi studenti all’incontro con la stampa dove anche noi lo intervistiamo. Tra una pausa e l’altra si confronta con il gruppo di allievi sul compito che gli ha assegnato in classe (e noi drizziamo le antenne mentre gli raccomanda: «Non dovete mollare al primo ostacolo, perché questo è un settore di egocentrici»).

A noi invece racconta senza mezzi termini: «Io non sono un artista, sono uno shooter: vivo di questo mestiere. Vuoi sapere se sono soddisfatto del risultato? Mai. Sono un nerd e quindi un frustrato. Però a 46 anni sono anche fortunato, perché cerco sempre di spostare l’obiettivo un po’ più avanti. E che tu oggi l’abbia notato è la vittoria della mia giornata. Amando il mezzo in quanto mezzo, mi emoziona l’idea di poterlo declinare nelle sue molteplici sfaccettature. Per me il rumore del camion macchina da presa la mattina è il massimo».

Con una scelta di casting che ignora le regole di mercato anziché assecondarle, Federici mette al timone del film un trittico inatteso: Filippo Scicchitano, Guglielmo Poggi e Fabio Balsamo: «L’atto di coraggio è di chi ci mette i soldi, quindi bisogna ringraziare Olivia Musini di Cinemaundici, Sky e Vision. Mi hanno lasciato libero di scegliere quello che secondo me era giusto per la storia e per le umanità dei personaggi, e poi di raccontarlo nel modo che ritenevo giusto». Poggi (che nel film interpreta Massimo) fortunatamente coglie l’esca e fa una riflessione che andrebbe incorniciata: «Visto che abbiamo sdoganato questa polemica: io penso sia difficile fare un film di perdenti con tre facce vincenti che il pubblico è abituato a vedere ovunque. Perché in qualche modo già quel fattore rischia di raccontarli come dei vincenti. Grazie a Dio noi lavoriamo tutti, ma con tre facce più note credo che questo film avrebbe avuto un altro sapore. C’è tanto delle nostre sconfitte personali, delle umiliazioni che siamo abituati a vivere perché non apparteniamo al Gotha di quelli che non devono nemmeno andare a fare un provino».

«Nel nostro mestiere è inutile fare tanti giri di parole» interviene Anna Ferzetti (nel film Francesca), che di Federici apprezza proprio la capacità di andare dritto al punto, anche e soprattutto nel dirigere gli attori. «Con lui l’obiettivo è sempre chiaro: cosa vuole da quella scena e da quel personaggio. Ti ci sa portare, anche creando un clima da gita. Ma da gita bella, eh». Il personaggio di Anna in questo film possiede un gran bel pregio: porta la bandiera di due tematiche delicate (il precariato in conflitto con il desiderio di maternità cercata faticosamente) ma senza prendersi sul serio, con una autoironia persino cinica: «È stato bellissimo perché lo faccio anche nella realtà. Se hai la fortuna di interpretare la vita degli altri, è fondamentale raccontare anche la leggerezza di fronte alle difficoltà».

Imperfetti criminali
Anna Ferzetti in “(Im)perfetti criminali”.

La confezione da film scanzonato e disimpegnato svela in realtà un contenuto pronto a schierare una serie di battute spregiudicate e per certi versi scomode. «Il politicamente corretto serve semplicemente a nascondere decenni di insulti» risponde Federici, predisposto alla chiacchiera senza filtri anche durante il junket (per nostra gioia). «Non è che scegliendo il pronome giusto rispetti qualcuno a cui hai tirato i sassi per trent’anni». Grazie a certe scelte di scrittura calibrate e mai villane (la sceneggiatura è di Luca Federico, Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano) la provocazione sulla «questione minoranze» è lasciata a briglie sciolte, e proprio per questo diventa spunto di riflessione, come solo la buona commedia può e dovrebbe fare. «La sceneggiatura era validissima dal principio – parola di Scicchitano, che nel film interpreta Riccardo – e questo ci ha dato la spinta per creare un’atmosfera giusta. Alessio ha messo in scena qualcosa a cui abbiamo creduto subito». Dall’orientamento sessuale dei personaggi alla dimensione sociale dell’immigrato medio, qui tutti gli stereotipi finiscono col ribaltare lo stereotipo in sé: «Confesso che quella di svecchiare il cliché dell’orientale immigrato è anche la mia battaglia personale all’interno del cinema italiano» racconta Babak Karimi parlando del suo personaggio. «Feci la stessa cosa anche per La linea verticale con Mattia Torre, ho sempre cercato di uscire dal’immaginario del disgraziato ed emarginato. In questo film, già nel modo di parlare e gesticolare, si capisce che Amir non è solo un estraneo che parla declinando i verbi all’infinito, “io andare, io mangiare”».

Ultimo ma non per importanza: il ruolo inedito di Fabio Balsamo, qui concentrato sugli aspetti più intimi di un personaggio che emerge per romanticismo più che per comicità. Il suo Pietro ha una vivacità ‘alla Balsamo’ e una sessualità fluida: «Al di là delle capacità tecniche, Alessio ha ricercato degli attori con una sensibilità precisa. Per quanto riguarda me, eravamo sul set di Generazione 56k. Durante un piano d’ascolto in cui dovevo semplicemente osservare, lui mi ha chiesto di piangere a dirotto per tre ore senza che fosse previsto in sceneggiatura. Mi sono affidato completamente, e in seguito mi ha detto che quella richiesta era stata il mio provino per (Im)perfetti criminali».

Veniamo agli aspetti nerd, quelli che piacciono a noi e anche a Federici, qui alla prova con una regia che utilizza quasi sempre ottiche grandangolari su una macchina in costante movimento: «Io vengo preso in giro da mia moglie e i bambini perché l’ultima cosa che leggo la sera sono i manuali dell’Arri Cam sulle macchine da presa. Quello di cui parli è un tentativo ricercato: volevo stare vicino agli attori quando raccontavo il dramma, e cercare di imparare da chi è molto più bravo di me nel raccontare l’azione, cioè allontanandomi o meno in base a quello che succedeva in scena». Per le riprese è stato utilizzato il nuovo Arri Trinity, «con grande sofferenza – ironizza lui – perché è un mezzo nuovo e in più nel mondo italiano, piccolo e provincialotto, non è facile farlo accettare. Adesso gli operatori di macchina pensano che gli rubi il lavoro con la steadycam, che però è uno strumento che esiste dagli anni Settanta. Ho cercato di non tirare le ottiche oltre il 75mm, perché altrimenti avrei rischiato di creare una distonia con i fondi che non avrebbe aiutato l’emozione di cui avevo bisogno. Quando Anna si lamentava della vita di merda che faceva, dovevo vedere anche la casa di merda dove abitava» conclude Federici.

A conti fatti e nell’ottica di un nuovo cinema italiano, (Im)perfetti criminali compie diverse scelte per provare a scuotere dinamiche di settore e di etichetta: piccoli tentativi di rottura infilati tra le maglie della commedia e dell’heist movie. Un film tutto da ridere, sì, ma anche da osservare con attenzione.

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E liberaci dal male: Saku Cinardi ci racconta la sua nuova serie Christian https://www.fabriqueducinema.it/serie/e-liberaci-dal-male-saku-cinardi-ci-racconta-la-sua-nuova-serie-christian/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/e-liberaci-dal-male-saku-cinardi-ci-racconta-la-sua-nuova-serie-christian/#respond Thu, 03 Feb 2022 09:58:15 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16754 Il crime targato Sky si arricchisce della componente supernatural nella nuova serie originale Christian, prodotta insieme a Lucky Red e rilasciata on demand a partire dal 28 gennaio. Nel cast spiccano Edoardo Pesce e Claudio Santamaria, al servizio di una storia che vede un uomo della Roma popolare ricevere un dono mistico che sconvolge la […]

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Il crime targato Sky si arricchisce della componente supernatural nella nuova serie originale Christian, prodotta insieme a Lucky Red e rilasciata on demand a partire dal 28 gennaio. Nel cast spiccano Edoardo Pesce e Claudio Santamaria, al servizio di una storia che vede un uomo della Roma popolare ricevere un dono mistico che sconvolge la sua vita vissuta al soldo di un boss locale.

Abbiamo intervistato l’ideatore della serie, Roberto Cinardi, in arte “Saku”, che ha diviso la regia con Stefano Lodovichi. Saku ci ha raccontato delle sue influenze culturali e di come queste si leghino all’origine dell’idea di Christian, concretizzatasi all’inizio della sua carriera e ora tra le grandi uscite del momento in Italia.

Da dove nasce l’idea per questo progetto?

L’idea è nata da me nel 2012 circa, quando volevo fare il mio primo cortometraggio. All’epoca giravo videoclip e iniziavo a fare pubblicità, ma avevo tanta voglia di buttarmi sulla narrativa. Avevo in testa l’idea di un santo sui generis, un dono che arrivava nelle mani più improbabili, non per forza sbagliate, ma improbabili. Volevo giocare su questo contrasto e la prima occasione fu il videoclip di Salmo. Usai il budget del suo progetto, oltre a quello aggiunto da me e dal produttore dell’epoca, per girare il cortometraggio Christian, che poi è anche sintetizzato nello stesso video di Salmo, Demons to Diamonds. Qualche anno dopo ho fatto uscire il corto su Vimeo. In questa prima stesura, essendo nato e cresciuto nella periferia di Roma est, tenevo molto a raccontare quei luoghi e quel tipo di persone che ho sempre frequentato, ed essendo poi appassionato di sci-fi, supernatural e misticismo, mi piaceva l’idea mischiare le due cose: un background che conoscevo bene e qualcosa che invece mi è sempre piaciuto a livello letterario e cinematografico. Mi è venuto molto spontaneo unire questi due mondi, piuttosto che forzare un tipo di sovrannaturale che in Italia risulterebbe goffo.

intervista-saku-cinardi

Come si inserisce Christian in quel filone soprannaturale italiano al cui centro ci sono dei personaggi che, come avviene nei film di Gabriele Mainetti, si ritrovano ad avere dei superpoteri?

Io non sono d’accordo con la definizione di superpoteri riguardo Christian. Per me è sempre stato un dono che dato a questo tipo di persona diventa una dannazione. Lui può guarire delle persone ma non del tutto coscientemente, non è detto che lo faccia di proposito. È più un dono che viene dall’alto, di cui lui è veicolo, ma che per molti versi, soprattutto all’inizio della storia, è più un problema, qualcosa che Christian non accetta e non capisce. Riguardo al filone io mi auguro che, come fece Lo chiamavano Jeeg Robot, apra delle strade, che insegni ad autori e produttori a usare questo filone in maniera intelligente, senza scimmiottare ciò che si fa all’estero, realizzando la versione italiana di supereroi di stampo anglosassone, ma sfruttando piuttosto quella che è la nostra tradizione, le nostre mitologie, la nostra storia.

Tu hai una lunga esperienza da regista di video musicali. Come ti è tornata utile nel dirigere una serie tv?

Sì, ho una lunga esperienza nei video musicali e altrettanta nella pubblicità. Sicuramente questo aiuta molto, intanto a essere veloce e performante sul set. Sono infatti due mondi, soprattutto quello dei video musicali, in cui c’è poco budget e poco tempo, e bisogna imparare a portare a casa in breve delle immagini che però funzionino nella maniera migliore possibile. Occuparmi di videoclip è stata poi soprattutto un’esperienza che mi ha aiutato a saper raccontare per immagini, oltre che con i dialoghi.

Come ti sei trovato a lavorare con attori come Edoardo Pesce e Claudio Santamaria?

È stato molto stimolante, ho imparato tanto. Mi sono confrontato con un livello di professionalità e talento con cui non avevo mai avuto a che fare nelle mie esperienze passate. Quindi è stato sicuramente interessante e arricchente.

Quali sono i tuoi progetti futuri?

Sto iniziando a sviluppare un lungometraggio e un altro progetto seriale, ma non posso dirvi nulla, anche se mi piacerebbe un sacco. Però diciamo che il macrogenere a cui appartengono queste altre due storie è simile a quello di Christian.

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Ai confini del male, la svolta thriller di Vincenzo Alfieri https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/ai-confini-del-male-la-svolta-thriller-di-vincenzo-alfieri/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/ai-confini-del-male-la-svolta-thriller-di-vincenzo-alfieri/#respond Thu, 04 Nov 2021 11:36:53 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16331 In uno sperduto paese al limite del bosco due giovani sono scomparsi. Indagano i carabinieri Meda, un uomo sconfitto dalla vita, e Rio, il Capitano inflessibile e rigoroso. Ai confini del male è il terzo film di Vincenzo Alfieri, i protagonisti sono due pezzi da novanta come Massimo Popolizio e Edoardo Pesce. Abbiamo fatto una […]

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In uno sperduto paese al limite del bosco due giovani sono scomparsi. Indagano i carabinieri Meda, un uomo sconfitto dalla vita, e Rio, il Capitano inflessibile e rigoroso. Ai confini del male è il terzo film di Vincenzo Alfieri, i protagonisti sono due pezzi da novanta come Massimo Popolizio e Edoardo Pesce. Abbiamo fatto una chiacchierata con Vincenzo Alfieri per entrare nel vivo delle atmosfere thriller del film, prodotto da Italian International Film – Gruppo Lucisano, Vision Distribution e Sky (dov’è appena uscito possibile vederlo).

Quando hai capito che volevi fare un thriller?

In realtà non lo avevo capito. Non parto mai né da attori prestabiliti né da un genere. Spesso sono le idee che vengono da me. In questo caso, dopo Gli uomini d’oro (2019) avevo voglia di esplorare in modo più approfondito il legame padre-figlio. Poi è successo che la produttrice mi ha proposto di leggere Il confine di Giorgio Glaviano, dove veniva raccontato di questo legame. Il libro appunto è un thriller, un genere che amo, e quindi ho pensato “Sarebbe bello affrontare il tema del legame padre-figlio attraverso il thriller” ed è così che è nato il film.

Ai confini del male ha tutte le carte per interessare anche il pubblico internazionale: quali sono stati i tuoi riferimenti visivi?

Quando ti muovi dentro un genere specifico devi studiarti tutto quello che è stato fatto prima per capire cosa fare e cosa non fare. In Italia ci sono i film di Donato Carrisi, prima di lui mi viene in mente La ragazza del lago di Andrea Molaioli (2006). E prima ancora, fra i “classici”, mi sono ispirato a Un borghese piccolo piccolo (1977) e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970). Riguardo al cinema USA, sicuramente c’è moltissimo di True Detective: non è un vero e proprio omaggio, la serie ormai è qualcosa che fa parte della mia vita, l’avrò vista almeno dieci volte… Il rapporto tra i due protagonisti, due poliziotti pieni di debolezze e incongruenze, mi ha sempre affascinato, e ho in qualche modo cercato di ricreare questa dinamica.

Massimo Popolizio e Edoardo Pesce sono bravissimi a rendere questo legame. Com’è stato dirigerli?

Grandioso, perché quando chiedi a un attore di fare qualcosa di inusuale rispetto alla sua carriera, insieme avete la possibilità di esplorare. Inoltre ho visto come, attraverso di loro, i personaggi prendevano forma e vita durante le riprese. La capacità di un regista è anche quella di riconoscere all’attore il fatto che sa vivere e capire il personaggio meglio di lui, una volta che veste quei panni. Edoardo Pesce è molto istintivo, quindi durante ogni ciak inventava alcune cose e proponeva idee, con Massimo Popolizio, invece, è stato tutto studiato prima perché parlavamo di ogni minimo dettaglio dalla camminata del sergente Rio a come avrebbe guardato e parlato. Due approcci molti diversi ma stimolanti allo stesso modo.

Ai confini del male
Edoardo Pesce in “Ai confini del male”.

La scena della lotta finale dove la telecamera riprende dall’alto i due protagonisti è molto intensa…

Sì, perché penso che se avessi chiuso con la classica scena di azione avrebbe perso forza l’intero film. Invece Ai confini del male parla di due uomini, due padri, due amici-nemici, perciò dal mio punto di vista è sempre stato quello il finale: due persone a nudo, per terra, che distrutte cercano di uccidersi come possono, ma riconoscendosi l’uno nell’altro. La scena in sé non significa “Io ti voglio uccidere” ma “Io ti devo uccidere”.

Quanto ha influito la pandemia sulla realizzazione e sulla scelta delle location?

La mia idea era girare il film da un’altra parte. Un po’ per la pandemia, un po’ per questioni di budget ho chiesto di farlo nel Lazio ed è stata una sfida perché il Lazio non aveva, dal mio punto di vista, quello che stavo cercando. Non potevo girare in un paesino preciso perché non avrebbe avuto quelle atmosfere che io ricercavo. Quindi abbiamo fatto un patchwork di luoghi e ringrazio lo scenografo Ettore Guerrieri insieme al direttore della fotografia, Davide Manca, che hanno fatto un lavoro eccezionale per dare a questo “non luogo” che abbiamo costruito una struttura davvero reale. Ci tenevo ad avere un film che avesse un rapporto con l’acqua e con gli specchi, perché credo che l’immagine che vediamo riflessa nello specchio o nell’acqua in realtà non sia la nostra, ma un’altra versione di te. È così è per tutti i personaggi.

Il finale lascia intendere un possibile seguito: hai già un’idea di film o serie sulla storia di cane pazzo?

Io sono contrario ai sequel, ma se lo faranno sarò contento per chi lo farà [sorride].

 

 

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Lovely Boy con Andrea Carpenzano, ascesa e caduta di una star trap https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/lovely-boy-con-andrea-carpenzano-ascesa-e-caduta-di-una-star-trap/ Fri, 08 Oct 2021 08:44:02 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16224 Ci sono dei gesti, delle scene che alle volte rimangono impresse sulla pelle, arrivando dritti all’interiorità di chi le guarda. Uscito da poco su Sky, dopo aver chiuso fuori concorso le Giornate degli Autori alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il nuovo film di Francesco Lettieri Lovely Boy ha la capacità di sostare nella […]

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Ci sono dei gesti, delle scene che alle volte rimangono impresse sulla pelle, arrivando dritti all’interiorità di chi le guarda. Uscito da poco su Sky, dopo aver chiuso fuori concorso le Giornate degli Autori alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il nuovo film di Francesco Lettieri Lovely Boy ha la capacità di sostare nella mente degli spettatori, catturandone l’attenzione nonostante evidenti difetti complessivi.

Un anno dopo Ultras, Lettieri decide di filmare la storia di Nick, in arte “Lovely Boy”, personaggio finzionale del mondo della trap. Della trap, però, al regista e sceneggiatore napoletano interessa poco e nulla. Lettieri riprende il filo da dove lo aveva lasciato nel suo film precedente. Continua a tessere la storia delle anime perse, quelle anime che popolavano “La collina” di De André, rendendole più contemporanee. È il sapore della contemporaneità, infatti, a interessare lo sguardo del regista e non l’ambiente musicale in sé.

Nick, interpretato magistralmente da Andrea Carpenzano (La terra dell’abbastanza), artista romano, è un astro nascente della trap. Pian piano entra in un mondo che lo isola sempre di più, facendogli perdere il controllo. Travolto in un giro di lusso e dipendenze, finisce così in un rehab in Trentino, evento che divide esattamente in due il film. Già da questa breve sinossi si può capire come nella sua totalità, Lovely Boy sia un film visto e rivisto (qui, infatti, l’enorme difetto dell’opera), ma il graffio di Lettieri è nel modo in cui decide di riprendere la vicenda.

Nel concentrarsi su piccoli gesti quotidiani, come la semplice apertura di una bottiglia, il regista cattura lo spettatore dentro la fragilità di chi ormai non ha neanche più il controllo del proprio corpo. La macchina di presa si sofferma su inquadrature che allontanano il protagonista dal contesto, cogliendolo proprio mentre è al centro della spirale di solitudine tipica non soltanto dei cantanti o degli artisti, ma dell’uomo contemporaneo, immerso in un mondo narcisista che lo vorrebbe superiore a tutto e tutti, ma che invece svuota le proprie vittime.

È interessante, in quest’ottica, notare come in un vortice di comparse e di situazioni, Lettieri isoli sempre il suo protagonista, rendendo quasi tattile la sensazione di vuoto che egli prova in scene che si imprimono con potenza: finita la visione, gli spettatori continueranno a ripensare alla familiarità di quei dettagli.

Lovely Boy è dunque un film che nel suo complesso è stato già mangiato e digerito diverse volte, ma che ha nel suo tocco qualcosa in grado di far andare lo spettatore oltre il già noto. Lettieri segna così, nel suo percorso registico, una nuova tappa, dopo la quale, dopo “il matto” e il “suonatore Jones”, attendiamo la visita delle altre anime perse, che ancora dormono sulla collina, ma che attendono di essere indagate nella loro contemporaneità.

 

 

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Mauro Vanzati, scenografo di “Anna”: «Leggi e pensi: non ce la faremo mai. Poi ce la fai» https://www.fabriqueducinema.it/serie/mauro-vanzati-scenografo-di-anna-leggi-e-pensi-non-ce-la-faremo-mai-poi-ce-la-fai/ Tue, 04 May 2021 10:19:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15518 «Quanti anni di vita hai perso?». «Incalcolabili. Sono contentissimo, la rifarei domani. Però cazzo, ho sputato sangue. È stata una serie infinita, mantenere sempre alta la tensione è stato faticoso. Ho i capelli bianchi». Dopo un anno e mezzo, una pandemia e l’esordio su Sky, ad Anna di Niccolò Ammaniti bisognerebbe dedicare un workshop a […]

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«Quanti anni di vita hai perso?». «Incalcolabili. Sono contentissimo, la rifarei domani. Però cazzo, ho sputato sangue. È stata una serie infinita, mantenere sempre alta la tensione è stato faticoso. Ho i capelli bianchi». Dopo un anno e mezzo, una pandemia e l’esordio su Sky, ad Anna di Niccolò Ammaniti bisognerebbe dedicare un workshop a parte.

Siamo di fronte a una prima stagione in 6 episodi che potrebbe essere anche l’unico capitolo di questo mondo post-apocalittico dominato dai bambini. Ma che è senz’altro il racconto di un visionario attraverso una narrazione spietata e nuovissima: Anna si concede tutto. E gli addetti ai lavori devono confrontarsi con un’asticella che alza inesorabilmente il livello della qualità. Nessun reparto escluso, ma alcuni su tutti. A partire da Mauro Vanzati, scenografo della serie: «Quando ho rivisto Anna mi sono forzato: ho voluto abbandonarmi e dimenticare tutto il dietro le quinte. Anche il mio lavoro. Ma non so se ci sono riuscito davvero, sai?».

Anna sembra un po’ il sogno e l’incubo di ogni scenografo.

L’ho vissuta esattamente così. Dal momento in cui il progetto ha iniziato a concretizzarsi mi dicevo: «Ma come si fa a fare ’sta roba?». Niccolò ha una fantasia incredibile ed essendo uno scrittore ha descritto molto precisamente quello che voleva andare a girare. È anche vero che poi le scene cambiavano in corsa un milione di volte, era un continuo lavorare per correggere gli errori e addrizzare il tiro.

Ma come è andata? Ti arriva una telefonata per fare la serie, e tu…?

In realtà è tutto iniziato a seguito di un incontro con Niccolò, che ha conosciuto anche molti altri professionisti, e forse io non ero il primo della sua lista. A livello di curriculum non avevo alle spalle un progetto così grosso e impegnativo.

Tante maestranze e capi reparto della serie non avevano alle spalle un progetto così grosso e impegnativo.

È stata una precisa volontà di Niccolò. Ha scelto le persone dopo averle provinate e aver stabilito se c’era da parte nostra una risposta e una proposta ai suoi input. Per quanto mi riguarda, dopo una chiacchiera iniziale gli ho portato un po’ di lavori grafici su alcune idee e spunti per il film, e abbiamo iniziato a interagire sempre di più. Ha visto che c’era un dialogo che sembrava fertile e ha deciso di affidarmi il progetto.

Uno schiaffo al sistema: sei balzato direttamente a un livello altissimo.

È assurdo ma è esattamente così. In qualche modo devi guadagnarti la patente per poter essere abile a fare cose di un certo livello, ma paradossalmente questa patente non te la guadagni mai se non ti fanno fare cose di un certo livello. Niccolò invece mi ha dato fiducia e avrei fatto fatica a fare questo step di carriera se non fosse stato per la sua scelta di impostazione del lavoro.

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Giulia Dragotto è Anna.

Qual è stato il grande mantra fra te e Niccolò fin dall’inizio?

Una delle prime cose che Niccolò mi ha detto è che voleva usare il meno possibile i visual effects: mi rende orgoglioso che gran parte di quello che si vede nella serie sia stato effettivamente allestito in scena. I VFX sono pazzeschi e si integrano benissimo, ma tutto il sapore della serie in realtà è affidato proprio all’allestimento. Siamo ricorsi agli effetti speciali solo di fronte alle situazioni impossibili: penso al ponte crollato, ai totaloni o ai droni su Palermo devastata.

Anche a Piazza Pretoria a Palermo [detta anche Piazza della Vergogna, nda] avete allestito davvero tutto quel caos?

L’abbiamo fatto. Con molta attenzione e rispettando i limiti, ma l’abbiamo chiusa e lavorata il giorno prima delle riprese per poi devastarla davvero. Immondizia, water rotti sulle scale e allestimento fisico; solo le scritte sulle statue sono ovviamente VFX.

Guardando la serie ho avuto l’impressione che vi siate divertiti facendo un po’ quello che volevate. Senza limiti. Dall’allestimento alla regia, alla narrazione in sé. Invece?

Invece è stata come sempre un po’ una lotta su tutto. Niccolò quelle cose le ha scritte, ma magari ci si aspettava un compromesso da parte sua. Invece no, voleva davvero girarle così, e tante ce le siamo conquistate un passettino alla volta. Quello che mi ha sorpreso, guardando il prodotto finito, è che le volontà di Niccolò erano fondamentali nella narrazione e per far passare tutto quel sentimento. Non è facile capirlo mentre ci sei immerso, ma non ci sono scelte pretestuose e questo è raro. In realtà Niccolò segue un grande rigore e l’ha imposto a tutti.

Quante persone hai potuto avere in reparto?

Di base eravamo una decina, tra preparazione, set e arredamento. Però all’occorrenza aumentavamo esponenzialmente, soprattutto nel numero di manovali. Siamo arrivati anche ad essere 45 persone insieme. I nostri allestimenti erano quasi tutti lunghi e quindi si accavallavano spesso, è capitato di avere cinque set aperti nella stessa giornata, anche quando in Sicilia è scattata una doppia unità.

L’incubo dello scenografo è sempre l’organizzazione del budget: com’è stato per te gestirlo su un progetto così grande?

Inizialmente ero spaventato, erano numeri che non avevo mai dovuto gestire e avrei potuto far cappottare la Wildside! Devo dire che alla fine è stato abbastanza semplice, sono stato veramente aiutato dalla produzione e da Erik Paoletti, un organizzatore molto forte che aveva chiarissimo cosa andavamo a fare. Siamo anche riusciti a rispettare gli accordi iniziali, e lì invece potevo aver sparato un azzardo.

Quand’è che hai percepito davvero la portata del progetto?

Non tanto nel confronto con il budget, perché comunque è stato un lavoro faticoso e il punto era sempre alzare l’asticella. Ma il fatto è che non ho mai visto un vulcano di creatività in perenne evoluzione come Niccolò: a un certo punto sembrava Giochi senza frontiere. Credo che Anna funzioni per questo: ciò che è visto comunemente come un mondo devastato e abbandonato, qui ha su di sé uno strato di fantasia dei bambini che è potentissimo e clamoroso. Diventa pura narrazione.

Le tre grandi sfide che avevi di fronte, a mio avviso, erano lo scenario post-apocalittico distopico, la natura selvaggia e la demolizione costante dell’ambiente.

Assolutamente sì. La prima vera grande sfida poi era cercare di non replicare un cliché. Potresti trovare la chiave per realizzare un posto abbandonato e riproporla a nastro, portandola a casa ogni volta. Ma non era possibile: scenografia e allestimento erano già scritti in sceneggiatura come un racconto. Su ogni ambiente dovevamo fare un lavoro diverso, una narrazione costante. E allora dovevamo chiederci cosa potesse essere successo a un luogo dopo quattro anni, dove potesse tornare a spuntare la natura, dove potesse esserci un degrado o un passaggio depredato dai bambini? La scenografia era parte attiva della storia.

anna la serie di ammanniti
Anna e Astor al Podere del Gelso.

Sembra quasi uno spoglio psicologico della sceneggiatura. Il disordine è uno degli aspetti che mi ha colpito di più: non è mai cinematografato ma sempre realistico. E poi è un disordine dei bambini e non degli adulti.

Lo è. Soprattutto per il Podere del Gelso, la casa di Anna e Astor. Abbiamo anche visto dei documentari su degli esperimenti sociali: cosa succede nel momento in cui dei bambini rimangono da soli, senza il controllo dei genitori? Che tipo di spazzatura, rifiuti e avanzi si formano in questa casa e per quale motivo? Quello è stato il racconto principale. Non c’è più elettricità: bene, avranno senz’altro depredato i supermercati. Le scorte che hanno a casa sono finite: ok, allora cosa mangiano? Abbiamo cercato di raccontare visivamente il percorso a colpo d’occhio. Milioni di pezzi in ogni ambiente. Il rischio era che fosse anche anti estetico, quasi una sorta di discarica. Non sapevo se fotograficamente potesse risultare bello.

Raccordare gli ambienti e i personaggi non dev’essere stata una passeggiata.

In parte è stato un lavoro molto rigoroso, la segretaria di edizione [Anna Belluccio, ndr] è stata fantastica a non impazzire. Rispetto ad altri casi però avevamo un margine di tolleranza maggiore, c’era una montagna di roba in campo. In qualche modo è stato anche un liberi tutti, ma non ricordo particolari disastri.

I tempi di allestimento sono stati dilatati come sembra?

Abbastanza, ma meno di quanto temevo all’inizio. Era un lavoro nuovo per tutti, ma appena ci siamo settati abbiamo scoperto di poter essere più veloci del previsto. Avevamo delle location molto laboriose, il Podere del Gelso ha avuto una delle preparazioni più lunghe. Siamo partiti da una sorta di casa in vendita, l’abbiamo pulita e portata al nuovo per poi sporcarla. Abbiamo lavorato a strati, ci son voluti circa due mesi e mezzo. Il resto andava fatto in corsa, accavallandosi. Altre due location con lunghe preparazioni sono state l’interno della villa di Angelica e il totem davanti alla villa, mentre giravamo con doppia unità.

Nell’ultimo episodio la decomposizione del cadavere della madre di Anna e Astor segna un picco molto violento della narrazione. E la stanza, attorno, si decompone insieme a lei. Come avete realizzato tutto questo?

Sono delle sculture che ha fatto Leonardo Cruciano (uno dei fondatori di Makinarium) cercando di raccontare la storia di un corpo che muore: come si trasforma e cosa succede a quello che gli sta attorno? Si gonfia, esplode e rilascia i suoi liquidi. Spostavamo le sculture insieme alla scenografia, ci abbiamo lavorato tanto in preparazione. Niccolò aveva scritto tutto ed aveva ben chiaro il perché dei vari step del cadavere. Noi un po’ meno. Ma la sua era un’esigenza di raccontare la trasformazione tra l’ambiente e il rapporto che cresceva tra fratello e sorella. Questo aspetto crudo era fondamentale per stringere il loro sentimento, con la morte della madre e la responsabilizzazione di Anna.

Cosa avete utilizzato per realizzare quel liquido? L’impatto è molto forte.

Domandona. C’era Leonardo Cruciano sul set, ma in particolare è stata una collaborazione perché non eravamo arrivati a quel livello di comprensione tale, rispetto al cadavere, che invece Niccolò possedeva. Siamo corsi ai ripari sul momento, ricordo dei materiali reperiti all’ultimo, abbiamo comprato del gel per i capelli e delle polveri. Il punto principale, al di là della verosimiglianza, era che dovesse essere visibile. Non poteva essere trasparente, dovevamo portarlo su dei toni bruni. Mi sono affidato al sapere di Leonardo.

anna la serie
Anna e Pietro sull’Etna.

Uno dei miei ambienti preferiti è il covo dei gemelli. Anche per te?

È uno dei cuori delle location. Ha avuto una genesi lunga, dopo il Covid la serie si è ridotta da 8 a 6 episodi e una delle linee narrative tagliate è stata proprio la loro, a malincuore. A Roma abbiamo trovato questa ex officina di macchina abbandonate, e la geografia dello spazio funzionava. Abbiamo porzionato l’ambiente e costruito all’interno un supermercato, svuotando e allestendo con pittura, invecchiamenti e arredi. È uno dei posti più “gotici” del film, dove succedono cose forti. Arredi dal supermercato, frigoriferi, roba che andava reperita, trasportata e sporcata, poi ripulita per riconsegnarla: una montagna di lavoro e uno degli aspetti di cui sono più orgoglioso. Anche perché eravamo verso la fine delle riprese e io ero arrivato al capolinea.

Quanto sono durate le riprese?

Quasi un anno, compreso lo stop del lockdown. Abbiamo iniziato a ottobre 2019 fino a marzo 2020, quando ci siamo fermati per la pandemia fino a maggio. Da lì abbiamo ricominciato fino ad ottobre 2020, circa.

Anche il totem all’entrata del covo dei blu ha attirato parecchia attenzione. Ti sei divertito?

Leggi una cosa del genere e non ti sembra vero: pensi «non ce la faremo mai», e poi ce la fai. Anche abbattendo i vari vincoli che ci venivano posti. A un certo punto è diventato drammatico, non potevamo ancorarci alla villa, si tratta di una struttura storica del 1600 a Bagheria, con la principessa che ancora abita lì dentro. Abbiamo devastato il giardino e costruito un totem di circa 12 metri. Era saldato a terra su una grossa piastra di ferro, zavorrata con pesi di cemento da cantiere e con un’anima in putrelle di ferro a comporne lo scheletro. La posizione è studiata con un ingegnere, perché quello è un posto esposto ai venti e il totem non doveva soffrire le intemperie. Poi l’abbiamo drappeggiato in scena, creando delle forme base per la testa e il torace. Tutti materiali leggeri, per lavorare in sicurezza senza renderli pericolosi se fossero caduti: sotto c’erano 200 bambini blu. Perlopiù reti, stracci, vestiti, plastiche e corde indurite per mantenere forma e dimensione.

Al netto di tutto qual è stata la tua sfida più difficile?

Ho capito che c’era una logica contraria a quella normale. Tendenzialmente si lavora molto sugli interni e si riposa un po’ sugli esterni. Invece per noi gli esterni erano più difficili, avevamo meno tempo per allestirli ed erano soggetti alle intemperie. Devi simulare quattro anni di assenza completa dell’uomo in posti che in realtà sono vissuti: certe volte non è proprio fattibile. Forse i luoghi più infernali per me sono state le spiagge: non sapevo come fare. Era impossibile tenerle vergini con una troupe di cento persone che ci gira sopra e va ovunque. Come le sistemi? Passi con il trattore e le spiani ma poi diventa un parcheggio. Invece dovrebbe essere una sabbia in cui il vento ha creato delle dune e il tempo ha inciso sul paesaggio. Quello è stato sicuramente un compromesso, ed è stato difficile provare a farlo ma accorgermi che non ci arrivavo.

Quando si dice «c’è un prima e un dopo»: come si passa a un nuovo progetto dopo una serie del genere?

Già. Sarà difficile, non sempre senti quella necessità e quell’urgenza così forte come l’abbiamo avvertita in Anna. Questo ti mette sotto scacco, costantemente alla prova. Fatichi, sei a pezzi, temi di non arrivarci. Ma quando poi finisce, qualcosa fa la differenza: capisci che tutto fa parte di un disegno che effettivamente torna. E se la scenografia funziona è anche perché sono stato spinto oltre il limite. Ora ha un senso e lo riconosco.

 

 

 

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Ritoccàti, la serie in cui la chirurgia estetica fa sorridere https://www.fabriqueducinema.it/focus/ritoccati-la-serie-in-cui-la-chirurgia-estetica-fa-sorridere/ Mon, 12 Apr 2021 10:02:48 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15407 La risata è probabilmente tra i veicoli più potenti per trasmettere un messaggio, in grado di arrivare in questo modo a quante più persone possibili. Ecco perché in un paese in cui i pregiudizi sulla chirurgia estetica sono ancora tanti, si sceglie una commedia come Ritoccàti per parlarne con leggerezza, ma certamente non con superficialità. […]

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La risata è probabilmente tra i veicoli più potenti per trasmettere un messaggio, in grado di arrivare in questo modo a quante più persone possibili. Ecco perché in un paese in cui i pregiudizi sulla chirurgia estetica sono ancora tanti, si sceglie una commedia come Ritoccàti per parlarne con leggerezza, ma certamente non con superficialità. Ideata da Luca Rochira e dal chirurgo Giulio Basoccu, la seconda stagione è appena andata in onda su Sky Uno ed è ora disponibile su Now. Ad interpretarla alcuni tra i giovani attori più apprezzati nel panorama italiano, come Federico Cesari, Giancarlo Commare, Neva Leoni e Michela Giraud. A parlarne è proprio Michela, insieme al regista Alessandro Guida

Perché una sketch-comedy incentrata sulla chirurgia estetica?

Alessandro Guida: Ritoccàti nasce da un’idea di Giulio Basoccu. È stato lui a voler fare una serie televisiva dall’impronta comedy, sia perché la chirurgia estetica è un mondo poco esplorato dalla televisione, sia perché in Italia c’è ancora della paura intorno a questa pratica, a volte anche della vergogna. Questo è quindi un tentativo per sdoganarla. Abbiamo scelto un approccio che fosse il più lieve possibile perché la comicità è il modo migliore per agganciare il pubblico e riflettere su tematiche simili.

Michela Giraud: Giulio Basoccu ha avuto l’intuizione di costruire intorno al suo lavoro un prodotto di spessore: nella serie parla di accettare se stessi, non di fare degli interventi per cambiarsi. Io trovo che sia un’operazione di marketing-non-marketing molto intelligente. È una serie senza pretese e dopo un anno così pesante è bello vedere qualcosa che ti permetta di staccare, una serie leggera e non superficiale.

A chi si rivolge Ritoccàti?

Alessandro: A tutti. Nonostante all’inizio le intenzioni fossero quelle di coinvolgere principalmente un target di ragazzi, vista anche la presenza di un cast molto giovane, poi non è andata solo così. Io sono rimasto davvero colpito quando ci siamo accorti dell’ampiezza del pubblico, complice anche il fatto che Sky Uno è un canale molto seguito dalle famiglie. Ma soprattutto Ritoccàti è in grado di arrivare anche a persone non per forza vicine alla chirurgia estetica.

Ritoccati la serie
Giulio Basoccu, protagonista e ideatore di Ritoccàti.

Michela, come sei stata coinvolta nel progetto?

Michela: Sono stata chiamata da Alessandro, il regista che mi stima di più in Italia. Lui parla di me come se fossi Anna Magnani (per carità, non lo sono, ma mi ci fa sentire). Noi avevamo già lavorato insieme, anche in un’altra serie comedy, Involontaria. E poi mi ha voluta per Ritoccàti.

Alessandro: A me piace coinvolgere Michela perché oltre al talento porta un grande entusiasmo. È capace di fare gioco di squadra e in Ritoccàti questo è fondamentale. Molta della comicità della serie si basa su un lavoro di coppia e nonostante Michela provenga dalla stand-up comedy, dove è da sola sul palco, ha grande capacità di ascolto.

Rispetto all’ambito della comedy ultimamente la percezione comune è che non si possa più dire niente, da un lato per il politically correct dall’altro per evitare di essere sommersi dalle critiche sui social. Qual è il vostro pensiero in merito?

Michela: Ma non è vero che non si può più dire niente, è una falsità. Non si può dire niente se la tua vita è dentro al telefono e vai a vedere tutti i commenti negativi su di te. L’Italia è un paese in cui se vuoi dire una cosa la dici. E aggiungerei purtroppo a volte, perché veramente a me sembra che la gente possa dire proprio tutto, anche troppo. Quindi non è vero, semplicemente i tempi sono cambiati e non si possono più dire certe cose perché è anche giusto che uno non dica più certe cose. È chiaro che se però vuoi dire una parola forte, ma sei in grado di contestualizzarla dandole un senso, allora è un’altra questione. Perché è anche chiaro che quando una persona ha un suo codice etico, capisce da sé quello che si può dire e quello che non si può dire. Per me conta questo.

Alessandro: Per me questa è stata una sfida perché non ero abituato. A parte Involontaria, Ritoccàti è la prima serie comedy che ho realizzato. Mi ha colpito infatti ricevere da Sky tante note in cui ci veniva consigliato di toccare certi argomenti con sensibilità e attenzione. All’inizio è una cosa che ti spiazza, ma si è rivelata invece una bella sfida, perché a quel punto devi ragionare e riflettere per trovare un modo più sofisticato di far ridere la gente. In questo caso mi hanno aiutato tantissimo gli attori, che riescono a rendere divertente qualunque cosa.

Ritoccati regista Alessandro Guida
Ritoccàti, il regista Alessandro Guida al centro.

Oltre a Ritoccàti a cosa state lavorando?

Michela: Sono andate online da poco le ultime due puntate di Lol e poi a metà maggio usciranno i miei due programmi: CCN Comedy Central News con Michela Giraud e Il salotto con Michela Giraud. CCN è la parodia di un telegiornale, mentre invece ne Il salotto invito molti amici, colleghi comici, attori, cantanti e opinionisti di natura molto varia, perché comunque ricalca in qualche maniera l’ossessione per il politically correct (infatti ci saranno anche delle minoranze, tra cui maschi bianchi etero, aha). Ho poi girato i video di Persona By Marina Rinaldi, dove si passa dall’ossessione per la body positive, agli haters, alle etichette. E poi a giugno c’è un appuntamento molto importante, giusto Alessandro?

Alessandro: Sì, uscirà il primo lungometraggio che ho diretto con Matteo Pilati, Maschile singolare. Una piccola avventura che abbiamo realizzato insieme, con un cast giovane di cui fa parte appunto anche Michela, insieme a Giancarlo Commare, Eduardo Valdarnini e Gianmarco Saurino. Siamo molto orgogliosi perché siamo partiti in maniera coraggiosa realizzando un film indipendente e low budget, ma siamo riusciti a fare tombola, ottenendo di uscire su una piattaforma streaming ma avendo anche una distribuzione, per quanto adesso con il covid sia difficile andare in sala. Io poi come sempre faccio video musicali e fra poco ne usciranno diversi. Sto inoltre scrivendo due progetti che spero di realizzare presto.

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Smart watching https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/tutti-a-casa-con-fabrique/ https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/tutti-a-casa-con-fabrique/#respond Tue, 17 Mar 2020 10:05:43 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13645 Ogni giorno sulla pagina Facebook di Fabrique i consigli sui migliori film da vedere sulle piattaforme streaming in questi lunghi giorni di reclusione domestica: Netflix, Amazon Prime, RaiPlay e SkyGo. Per non perdere l’orientamento nelle sterminate libraries online, la nostra guida ai superclassici, alle opere prime, alle new entries, agli horror, ai teen movies che […]

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Ogni giorno sulla pagina Facebook di Fabrique i consigli sui migliori film da vedere sulle piattaforme streaming in questi lunghi giorni di reclusione domestica: Netflix, Amazon Prime, RaiPlay e SkyGo.

Per non perdere l’orientamento nelle sterminate libraries online, la nostra guida ai superclassici, alle opere prime, alle new entries, agli horror, ai teen movies che adesso non avete più alcuna scusa per perdere!

Inoltre, dirette Instagram con interviste live a tanti attori, attrici e registi su cinema, storie di vita, aneddoti, spunti, idee. Giorgio Pasotti, Edoardo Purgatori, Elena Radonicich, Valentina Bellè e tanti altri si raccontano, rigorosamente da casa, a Tommaso Agnese.

Seguiteci tutti i giorni sui social per le news su titoli, orari e appuntamenti, #TuttiaCasaconFabrique.

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Boris Sollazzo, a Ischia un direttore under 40 https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/boris-sollazzo-ischia-un-direttore-under-40/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/boris-sollazzo-ischia-un-direttore-under-40/#respond Sat, 24 Jun 2017 11:50:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8821 Un under 40 alla direzione di un festival di cinema: è successo a Ischia Film Festival (24 giugno – 1 luglio), con l’ingresso del 39enne Boris Sollazzo alla guida della manifestazione, in tandem con il precedente direttore e fondatore Michelangelo Messina. Un caso interessante di avvicendamento generazionale – processo virtuoso già collaudato in Campania dal Salerno […]

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Un under 40 alla direzione di un festival di cinema: è successo a Ischia Film Festival (24 giugno – 1 luglio), con l’ingresso del 39enne Boris Sollazzo alla guida della manifestazione, in tandem con il precedente direttore e fondatore Michelangelo Messina. Un caso interessante di avvicendamento generazionale – processo virtuoso già collaudato in Campania dal Salerno Film Festival e dal Napoli Film Festival – che porta linfa nuova a un evento dall’importante ricaduta culturale sul territorio, che attribuirà quest’anno il premio IQOS alla carriera a John Turturro e ospiterà numerosi artisti nazionali (tra gli altri: Claudia Cardinale, Alessandro Borghi, Isabella Ragonese, Daniele Vicari, Toni D’Angelo, Maccio Capatonda, Walter Veltroni, Jasmine Trinca, Sergio Castellitto). Fabrique ha incontrato Boris Sollazzo, giornalista, critico e già firma brillante del giornale, per capire che rotta prenderà Ischia Film Festival – e come ci si senta a passare, prima di aver compiuto 40 anni, dalla coperta al timone della nave.

la veduta di Ischia e il suo festival
la veduta di Ischia e il suo festival

Come sei arrivato alla direzione di Ischia Film Festival?
È una manifestazione con la quale ho a che fare da sette anni. Ho iniziato presentando la serata finale, era saltata la persona che avrebbe dovuto condurla e lo chiesero a me. Accettai subito, perché fin dalla prima edizione ho sempre amato la passione con cui veniva portato avanti il festival: avevano pochissimi finanziamenti e si impegnavano in prima persona pur di portare grandi nomi e film di valore. Nei miei confronti hanno avuto un atteggiamento completamente meritocratico. Ogni anno facevo qualcosa in più per loro, ogni volta mi lasciavano un po’ di spazio in più. E alla fine è arrivata questa proposta.

Perché la co-direzione con Michelangelo Messina?
Il festival nasce quando Messina aveva quarant’anni. Ed esattamente quindici anni dopo, Messina ha fatto qualcosa che in Italia non fa nessuno: ha preso la propria creatura, quella che si è cresciuto da solo e l’ha messa in mano a qualcuno che sì l’ha amata, ma non è nemmeno tra i fondatori. Mi ha invitato a pranzo a Ischia a gennaio, a pochi giorni dalla fine della mia esperienza con Giornalettismo, e mi ha proposto la direzione del festival. Mi ha fatto un lungo discorso sull’importanza del passaggio dal vecchio al nuovo, sul ricambio generazionale: era disposto a lasciarmi al vertice da solo, mettendosi comunque a disposizione. Per me però non aveva alcun senso che lui smettesse di essere il direttore del festival. Se Ischia Film Festival è quello che è oggi, lo si deve a lui e a sua moglie Enny Mazzella, presidente dell’associazione che organizza la rassegna. E poi io sono convinto di una cosa: il segreto del ricambio generazionale non consiste nel succedersi, ma nel collaborare insieme.

Il pubblico del festival di Ischia
Il pubblico del festival di Ischia

Non bisognerebbe ucciderli, i padri?
Secondo me è un errore, questo insistere sessantottinamente sul fatto che si debba uccidere i padri. Per me l’importante è non smettere mai di picchiarsi, con i padri. Ucciderli significa negare un’esperienza, sovrapporvi la propria. E trasformarsi automaticamente in padre, in vecchio. E poi Michelangelo è un fratello maggiore: in un paese in cui non mollano nulla a 80 anni, lui pensa al ricambio generazionale a poco più di 50.

Quali sono le caratteristiche di un buon direttore di festival?
È un lavoro che ho scoperto adesso, molto diverso da come lo immaginavo. Il direttore di festival è una specie di sindaco: ha la responsabilità di tutto ciò che accade, ma non ha le competenze necessarie per fare ogni cosa. Deve essere abbastanza umile da capire a chi delegare quel che non può o non sa fare e abbastanza presuntuoso per mettere bocca su tutto. In pratica o ti senti dio, o ti senti un cretino – di solito a seconda di come vanno le telefonate che fai per invitare film e ospiti. Bisogna essere dotati di buonsenso, saper riconoscere l’identità culturale e territoriale del festival e capire che ogni cambiamento che si vuole apportare funziona solo se risponde a quella determinata logica. Serve coraggio, serve una capacità sovrumana di lavoro sul breve e medio termine, e infine serve non aver paura di prendere il buono che si è visto altrove. Ho apprezzato tanto i festival di Locarno e San Sebastian e non mi vergogno a dire che nel mio lavoro c’è una parte di quelle esperienze. Ho lavorato con Giorgio Gosetti alle Giornate degli Autori a Venezia e con Felice Laudadio a Taormina e alla Casa del Cinema di Roma: pesa anche il loro lavoro, in quel che faccio.

Qual è il tuo contributo a questa edizione di cui sei più orgoglioso?
La presunzione di andare oltre al classico prodotto da festival. Fermo restando che questa edizione è il primo percorso di un’idea che si svilupperà pienamente solo nel tempo, ho cercato di superare i getti e le definizioni in cui si tende a rinchiudere il cinema. In questo senso per me è importante la sezione Under the Sky, che si svolgerà prevalentemente nella sala più “alta” che abbiamo, in collaborazione con Sky. Mostreremo due serie, The night of e 1993, ma non ci limiteremo alle prime due puntate: le proietteremo per intero. L’idea è quella di far riflettere il pubblico sulle serie TV, che vivono oggi un momento insieme alto e pericolosissimo: non ci interessava fare il giochetto promozionale per cui ti accaparri il talent ma te ne freghi del prodotto nella sua interezza. Spero che il prossimo anno Under the Sky ospiti anche altre idee, web series, Instagram Stories… qualsiasi novità di qualità, insomma, indipendentemente dal formato.

Che consigli daresti a chi volesse fare questo lavoro?
Non aver paura delle idee: autocensurarsi è il modo migliore per non realizzarle. Ci vuole tenacia, forza d’animo, e bisogna essere idealisti: i festival non li fai certo per soldi. Bisogna pensare di farli perché si ama il cinema e il posto in cui li si vuole organizzare, avendo la presunzione di volerli migliorare entrambi… o almeno di dare un contributo.

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Geoblocking: cos’è e perché ci riguarda https://www.fabriqueducinema.it/focus/geoblocking-cose-e-perche-ci-riguarda/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/geoblocking-cose-e-perche-ci-riguarda/#respond Wed, 20 Jan 2016 14:29:36 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2534 Quante volte vi siete trovati in giro per l’Europa con la voglia di vedere l’ultima puntata della vostra serie preferita o guardare il derby Roma-Lazio? Chiunque di voi abbia provato a utilizzare Sky Go o Premium Play fuori dal confine italiano sarà rimasto sicuramente deluso. Gli utenti di Internet, infatti, devono fare i conti con […]

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Quante volte vi siete trovati in giro per l’Europa con la voglia di vedere l’ultima puntata della vostra serie preferita o guardare il derby Roma-Lazio? Chiunque di voi abbia provato a utilizzare Sky Go o Premium Play fuori dal confine italiano sarà rimasto sicuramente deluso. Gli utenti di Internet, infatti, devono fare i conti con i limiti previsti dalle pratiche di geoblocking, una delle barriere più insidiose che gli assidui frequentatori del web avranno almeno una volta sperimentato.

In poche parole i contenuti digitali sono accessibili solo dai paesi coperti territorialmente dalle licenze concesse dai titolari dei diritti d’autore. Varcata la frontiera dite addio ai vostri canali on demand e godetevi il panorama della Tour Eiffel. Un problema strettamente connesso alla rivoluzione digitale, per cui gli insaziabili divoratori di contenuti online “pretendono” la fruibilità del bene consumato ovunque e senza limitazioni di alcun genere.

La Commissione Europea si è mostrata particolarmente vicina alla posizione dei consumatori e sensibile al tema. Il 6 maggio 2015 l’istituzione comunitaria ha infatti presentato la sua proposta per la realizzazione del Digital Single Market, una complessa strategia da attuare in due anni basata su tre pilastri e sedici azioni chiave. Lo scopo del progetto è quello di migliorare l’accesso a beni e servizi digitali, creare un contesto favorevole e parità di condizioni per lo sviluppo delle reti e massimizzare il potenziale di crescita dell’economia digitale. Dunque, realizzare un mercato unico di servizi digitali equiparandoli, con le dovute cautele, ai beni fisici. Al centro del framework europeo è la riforma del copyright «volta a ridurre le disparità tra i regimi di diritto d’autore nazionali e a permettere un accesso online più ampio alle opere in tutta l’Unione Europea, anche mediante ulteriori misure di armonizzazione».

tablet-android-40-pc-wifi-touch-lcd-10-pulgadas-full-hd-32-15455-MLA20103561617_052014-FUno degli aspetti più complessi e dibattuti per la realizzazione di questa ambiziosa strategia riguarda proprio il geoblocking, sul quale la Commissione ha aperto una consultazione pubblica. Il pacchetto di azioni presentato a Bruxelles, a dicembre, parla chiaro: le limitazioni territoriali rappresentano un ostacolo alla libera circolazione di beni stabilita dal Trattato di Schengen, di conseguenza si deve assicurare il diritto alla portabilità dei contenuti. Musica per le orecchie dei consumatori, ma con qualche nota stonata. Infatti, la Commissione, che aveva previsto inizialmente l’abolizione incondizionata del geoblocking sulla scia delle politiche statunitensi, oggi fa qualche passo indietro a favore dei soli “viaggiatori”.

La necessità di contemperare e bilanciare esigenze diverse, dunque, è alla base del dibattito. Il tema della portabilità dei beni immateriali incontra inevitabilmente ostacoli di natura oggettiva dovuti alla stessa natura del bene in questione e a una normativa fortemente differenziata a livello mondiale ed europeo. Se come abbiamo visto l’Unione Europea punta al Mercato Unico in linea con gli interessi degli utenti, i rightholders storcono il naso. Tra i maggiori detrattori infatti vi sono i produttori di contenuti, i distributori, le emittenti e gli investitori che da questo significativo cambiamento del mercato uscirebbero in parte danneggiati.

SKY-TV-330534In particolare sarebbero toccati soprattutto gli operatori medio piccoli e indipendenti dell’industria cinematografica, che come sappiamo è basata su un business fortemente territoriale e sulla prevendita nazionale dei diritti per assicurarsi le fonti di finanziamento. La stessa Unione Europea ha riconosciuto l’importanza delle licenze territoriali per il finanziamento, la produzione e la coproduzione di film e contenuti televisivi, sottolineando che la libertà contrattuale di scegliere l’estensione territoriale e le piattaforme di distribuzione incoraggia l’investimento in contenuti creativi e favorisce la diversità culturale.

Le pratiche di geoblocking sono al centro del mirino anche di un’altra autorità europea. Recentemente infatti l’Antitrust ha aperto un’indagine formale che coinvolge Sky Uk e sei major (Warner, Sony, Disney ecc.). Già in tempi non sospetti l’Antitrust aveva indagato su alcune disposizioni degli accordi di licenza tra diversi importanti studi di produzione americani e i principali gruppi di pay tv europei. Sotto accusa oggi gli accordi conclusi tra le parti per impedire ai consumatori abbonati a Sky di fruire altrove in Europa, sia online sia via  satellite, dei servizi disponibili in Gran Bretagna e in Irlanda. La commissaria Margrethe Vestager punta il dito contro le major nella convinzione che siano state violate regole concorrenziali. Per la Commissione Europea il risultato è che «queste clausole garantiscono l’assoluta esclusività territoriale a Sky Uk e/o altri broadcaster, eliminando la concorrenza tra tv e ripartendo il mercato interno tra i confini nazionali». Le parti potranno formulare la loro difesa basata sulle accuse formulate nel cosiddetto Statement of objections (Comunicazione di Addebiti) della Commissione, la quale in caso di motivazioni poco convincenti potrà decidere di multare i colossi dell’audiovisivo internazionale.

La spinosa questione dell’abolizione delle restrizioni regionali divide e fa discutere. Le istanze sono tante quanti gli interlocutori, e le conclusioni opinabili a seconda del punto di osservazione che si predilige. Toccherà aspettare le decisioni prese a livello europeo e intanto continuare a guardare la Tour Eiffel.

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