Silvio Soldini Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 20 May 2021 07:36:44 +0000 it-IT hourly 1 Fotografi di scena/6: Antonello&Montesi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/macro/fotografi-di-scena-6-antonellomontesi/ Fri, 14 May 2021 08:25:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15554 Antonello&Montesi (Philippe Antonello e Stefano Montesi) sono senza ombra di dubbio il duo più prolifico e affascinante fra i fotografi ora in circolazione in Italia. Dal ritratto al posato e alle foto sul set, i loro scatti sono inconfondibili per ricchezza creativa e qualità artistica. Con due storie completamente diverse alle spalle e con due […]

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Antonello&Montesi (Philippe Antonello e Stefano Montesi) sono senza ombra di dubbio il duo più prolifico e affascinante fra i fotografi ora in circolazione in Italia. Dal ritratto al posato e alle foto sul set, i loro scatti sono inconfondibili per ricchezza creativa e qualità artistica. Con due storie completamente diverse alle spalle e con due stili molto differenti tra loro, sono riusciti a trovare una miscela esplosiva di visione fotografica. I migliori scatti e i migliori poster di film italiani e stranieri provengono dalla loro officina creative: George Clooney, Woody Allen, Jude Law, Jeremy Irons e tante altre star di Hollywood sono state immortalate da loro. L’estro e la passione spingono Antonello&Montesi a studiare sempre e a evolversi, sperimentando nell’arte della fotografia 3D ed esponendo le loro opere in Italia e all’estero; tra le loro collaborazioni più proficue e longeve c’è sicuramente quella con lo studio di grafica BigJellyFish.

Qual è stata la vostra prima macchina fotografica?

Philippe. La mia prima macchina fotografica copiava il marchio Nikon ed era una Top Con, degli anni ’70. Apparteneva a mio padre, che mi aveva vietato di usarla. Avevo 12 o 13 anni quando mi sono incuriosito e l’ho presa di nascosto per fotografare. Posso dire che è iniziato tutto come una trasgressione del divieto di papà. Sia io che Stefano apparteniamo all’era dell’analogico: erano altri tempi, fotograficamente parlando. Come diceva Giovanni Gastel, parlando della differenza tra analogico e digitale, nel caso del digitale lo scatto è la fase iniziale del processo. Sono due modalità diverse.

Stefano. Una Yashica FX2, ci sono voluti due anni per decidermi tra quelle che erano alla portata del mio portafoglio. Ricordo che un’alternativa all’epoca era la Praktica B200, un vero e proprio mattoncino… Comprai la mia prima reflex dopo aver sfogliato decine e decine di riviste fotografiche dove i test degli apparecchi erano all’ordine del giorno. Alle medie avevo fatto un corso di fotografia e camera oscura, ma sinceramente non era la mia passione, non avrei mai pensato di farne una professione.

Qual è stato il vostro primo film? Potete raccontarci qualche aneddoto?

Philippe. Il mio primissimo film è stato Un’anima divisa in due di Silvio Soldini, conosciuto tramite l’Istituto Europeo di Design: alla fine dell’anno, avevano visionato il portfolio di vari studenti e avevano scelto il mio di street photography in bianco e nero su Milano. Silvio lo aveva visto su una rivista e mi propose di andare sul set del suo lungometraggio con Fabrizio Bentivoglio. Ho iniziato con criteri molto basici, usavo la Leica o la Canon. Mi son ritrovato a lavorare con il colore. Allora, a fine anni ’90, si lavorava con le diapositive. È stata un’esperienza molto difficile, ma anche formativa. L’esperienza sul campo cambia inevitabilmente le tue coordinate, ti ritrovi a fare cose differenti da ciò che ti eri prefissato. D’altronde, è proprio questo il bello dei set cinematografici e devo dire che preferisco l’esperienza alla preparazione scolastica. In genere, poi, il mestiere del fotografo è considerato indipendente e solitario; invece il nostro è un lavoro di squadra a tutti gli effetti. Per quanto riguarda la post-produzione, ad esempio, ho dovuto imparare alcuni aspetti prettamente tecnici dai ragazzi più bravi al PC rispetto al fotografare. 

Stefano. La prima volta su un set fu un piccolo special che realizzai su Ama il tuo nemico di Damiano Damiani: mi presentai sprovvisto della necessaria esperienza e, alla prima scena girata di notte in un interno troppo buio per me, tirai fuori il flash e scattai… Non aggiungo altro. Il primo vero film fu L’odore della notte di Claudio Caligari. All’epoca lavoravo con le macchine analogiche, due Nikon F90X utilizzando il Sound Blimp per non fare rumore.  Il produttore voleva cacciarmi dal set perché le foto erano spesso mosse, per me era difficilissimo seguire il direttore della fotografia Maurizio Calvesi nelle sue peripezie, non esisteva il digitale e io usavo gli spezzoni di pellicola cinematografica ribobinata nei rullini vuoti, che mi facevo dare dai laboratori di sviluppo e stampa da un’ora. Era la 500 Asa della Fuji, che tiravo di uno stop, ma la poca luce sul set e le azioni rapide richieste agli attori non mi consentivano di fare le foto nitide. Così chiesi agli attori (Mastandrea, Giallini, Tirabassi) di posare per me facendo finta di recitare come si faceva in passato. Ne uscii vivo.

Antonello&Montesi
Antonello&Montesi, “Freaks out.”

Curate voi la post-produzione delle vostre foto? Per color e il fotoritocco siete autonomi o preferite affidarvi a collaboratori esterni?

Philippe + Stefano. Per quanto riguarda l’aspetto visivo delle immagini che produciamo durante il set, ce ne occupiamo noi: pasta, grana, contrasto, profili cromatici. La vera capacità durante la post-produzione è quella di adattarsi: il risultato finale deve essere la somma di tanti punti di vista, a partire ovviamente dal tuo. Per quanto riguarda gli scatti per i poster cinematografici, a volte abbiamo delle indicazioni da seguire: ci facciamo sempre una bella chiacchierata col grafico, col dipartimento marketing, con la produzione e il regista. Anche la locandina può cambiare. Proprio per questo motivo, saper coinvolgere quanta più gente possibile è un aspetto essenziale nel nostro lavoro.

Che macchina fotografica usate ora e perché è la più adatta?

Philippe + Stefano. Abbiamo scelto Fujifilm per i set. Le mirrorless ci hanno permesso di non utilizzare più il Sound Blimp per attutire il rumore dello scatto, con la funzione otturatore elettronico sono diventate macchine completamente silenziose. Usiamo anche Canon 5Dsr per quanto riguarda i posati in studio e il medio formato. Oggi si sceglie una macchina per il sensore; prima, invece, si valutavano le sue ottiche o la maneggevolezza. Negli anni, abbiamo notato che il sensore di Fujifilm soddisfa meglio il nostro gusto. Il suo risultato è molto analogico. 

Gli obbiettivi: quali lenti preferite nel vostro lavoro sul set o per i posati in studio?

Philippe + Stefano. Per quanto riguarda le ottiche sul set, usiamo quelle fisse in condizione di scarsa luminosità: dal 23 mm f.1,4 al 56mm f.1,2. In studio usiamo quasi sempre invece lo zoom EF 70-200 mm f / 2.8L IS II USM della Canon. Sui set non possiamo muoverci troppo. Il fotografo, davanti al set, è l’unica figura che non contribuisce a fare il film, partecipa alle riprese come spettatore passivo. L’aiuto attrezzista, ad esempio, sposta delle cose che poi appariranno nel film. Il fotografo invece deve essere discreto e il meno visibile possibile. Nello studio, per i posati, è il contrario: il fotografo è il protagonista assoluto in quanto deve dirigere gli attori.  Insomma, c’è una sorta di schizofrenia in questo mestiere…

Preferite lavorare solo con la luce naturale o con diverse luci artificiali?

Philippe. Il fotografo deve essere capace di maneggiare tanto la luce naturale quanto quella artificiale, soprattutto nel cinema. Per quanto riguarda le attività commerciali, al 99% si lavora con luce artificiale. Quando siamo sul set, dobbiamo adeguarci alle luci di un altro professionista, ossia il direttore della fotografia. Lavoriamo dunque in base alla sua attività. Di solito, il regista e il suo operatore hanno concordato la luce in base al tipo di immagini che si vuole ottenere. Bisogna sposare la scelta del direttore della fotografia. Noi non possiamo assolutamente avere le stesse angolazioni della macchina da presa: la luce va dunque interpretata. Il punto di vista è per forza differente.

Stefano. La mia storia di fotografo si è formata lavorando come assistente con dei mostri sacri della fotografia e quasi tutti prediligevano le luci flash e il lavoro in studio. Parlo di Giuseppe Pino, Elisabetta Catalano, Gianpaolo Barbieri, Guido Harari fra gli altri. Sono state esperienze che hanno segnato il mio cammino e non solo da un punto di vista tecnico.  Comunque non disdegno mischiare le diverse fonti di luce tra loro.

Antonello e Montesi
Antonello e Montesi, “Catch 22”.

Ci potete dire qual è stato il primo vero e importante rimprovero ricevuto durante un lavoro, ma che vi ha insegnato qualcosa di fondamentale sul mestiere?

Philippe. È stato sul primo film, ho ricevuto una bella tirata d’orecchie dal direttore della fotografia Luca Bigazzi, che poi mi ha dato una mano. Venendo da una formazione di street photography, non ero abituato al colore: ha le sue dinamiche e i suoi equilibri, così come per il bianco e nero si lavora sul contrasto. All’epoca, con l’analogico, si sviluppava il diapositivo della Kodak in laboratorio, e lì ho notato subito i miei errori. Ma, essendo la mia prima esperienza, ho ricevuto una grande comprensione. Ovviamente, ho tentato di apprendere quanto più possibile per metterlo poi in pratica. Luca è stato il mio maestro di bottega; in Italia specialmente si crea una realtà da bottega sui set.

Stefano. Un giorno il dop Roberto Forza, vedendo le mie foto mi disse: “Devi osare!”. Quella frase, a metà tra un rimprovero e un consiglio, me la ripeto ogni volta che comincio un nuovo set.

Chi fa cinema spesso non pensa ad altro e non ha il tempo di godersi altro. Ci dite tre cose che preferite allo stare sul set?

Philippe. Appartengo a quella categoria di fotografi che scattano anche al di fuori del set. Per me la fotografia non è semplicemente un lavoro: sicuramente ho avuto la fortuna di guadagnare a partire da questa mia passione, ma resta sempre un divertimento. Non ho la passione delle automobili o delle moto di grossa cilindrata, ho la passione della fotografia e del cinema. Un articolo di giornale, un libro o un film sono fonte di ispirazione per la creazione visiva. Se cresco come persona, anche la mia fotografia crescerà. Bisogna nutrirsi di tutto. Ogni volta che fotografo, sento che una parte di me scompare, è una sensazione difficile da descrivere. Per me è insopportabile ritornare a vedere vecchie foto. Tutto ciò che ami, odi, vivi, si deposita dentro di te e si intravede poi nelle tue foto. Diversamente, sarebbe solo estetica.

Stefano. Tre cose che adoro fare quando non sono immerso nel mio lavoro sono: cucinare, leggere saggi di arte, andare a vedere mostre e musei.

Ci dite il nome di un collega che “odiate”, scherzosamente, per bravura?

Philippe. In questo caso la risposta è facile, si tratta di Stefano Montesi, il mio socio. Noi siamo un duo di persone completamente differenti, sia come persone che come fotografi. Non c’è nulla di più contrapposto. Tutte queste distinzioni sono il nostro punto forte. Se fossimo stati uguali, sarebbe stato un bel problema. È la ben nota legge degli opposti: la ricchezza proviene dal contrasto delle nostre personalità.

Stefano. Il collega che “odio” di più è Philippe Antonello, perché ogni volta che lavoriamo sugli stessi film non riesco mai a fare una foto di scena migliore della sua. Ha un occhio e una sensibilità che sono impossibili da replicare.

 

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Silvio Soldini, un’anima divisa in due https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/silvio-soldini-unanima-divisa-due/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/silvio-soldini-unanima-divisa-due/#respond Mon, 15 Jan 2018 09:32:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9810 È quella, parafrasando il titolo di un suo film, di Silvio Soldini, che lavora da tempo fra documentario e finzione. E che agli esordienti consiglia «di trovare delle persone con cui creare una squadra, questo non è un mestiere che si fa da soli». Mattina presto, al parco Solari di Milano. Il regista arriva con […]

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È quella, parafrasando il titolo di un suo film, di Silvio Soldini, che lavora da tempo fra documentario e finzione. E che agli esordienti consiglia «di trovare delle persone con cui creare una squadra, questo non è un mestiere che si fa da soli».

Mattina presto, al parco Solari di Milano. Il regista arriva con passo calmo, sorride e come prima cosa cerca una panchina con la giusta luce dove sederci per iniziare la nostra intervista.

Cosa ti ha spinto a fare cinema? Raccontaci il tuo esordio.

Ho iniziato andando al cinema. All’epoca avevo 17 anni e frequentavo la Cineteca di Milano. Mi sono iscritto a un’università come le altre, scienze politiche, perché non sapevo ancora bene che direzione prendere. Nel mondo del cinema non conoscevo nessuno. Poi ho vissuto due anni a New York, ho fatto una scuola lì, ospitato, per i primi tempi, da una lontana cugina che faceva la montatrice. Tornato in Italia ho capito subito che avevo due alternative: andare a Roma a cercare di convincere un produttore a finanziarmi un’opera prima – e non mi ci vedevo granché – oppure restare a Milano e costruire qualcosa qui. Ho scelto la seconda possibilità e insieme a Luca Bigazzi ho cominciato a sognare di fare cinema.  I corti e i mediometraggi realizzati negli anni ’80 sono stati una grande palestra. Nel 1989, insieme a Roberto Tiraboschi, ho finalmente scritto la mia prima sceneggiatura e poi nel 1990 è uscito L’aria serena dell’ovest.  In quel momento si è aperta la porta.

Esordire ieri e oggi. L’arrivo del digitale ha cambiato le cose?

La tecnologia è un’arma a doppio taglio, perché da una parte ti dà la possibilità di fare un film con molti meno soldi rispetto alla pellicola, però allo stesso tempo crea un’invasione di prodotti di qualsiasi tipo. Internet è intasato da film di ogni misura, è molto più difficile riuscire a farsi notare, oggi.

E allora cosa consiglieresti a un giovane regista o sceneggiatore?

Gli consiglierei di trovare delle persone con cui creare una squadra. E poi mettersi a lavorare, perché questo mestiere non lo puoi fare da solo, e lo impari facendo. Le scuole ti possono dare un’ottima base per cominciare, però poi è solo lavorando sul campo che puoi capire quali sono le tue debolezze, e quali i tuoi punti di forza. È fondamentale.

Cosa ne pensi del cinema giovane?

Io credo che in tante opere prime recenti, come in Cuori puri di Roberto De Paolis, ci sia una grande attenzione ai dettagli, alle psicologie dei personaggi e alla recitazione di tutti gli attori, cosa che non c’era nel cinema degli anni ’80, quando io ho iniziato. Trovo che in questi ultimi anni siano usciti tanti buoni film, soprattutto opere prime o seconde. Il problema è che poi la gente non va a vederli quanto dovrebbe.

I tuoi film, oltre che averli diretti, li hai sempre anche scritti. Come vivi questo doppio ruolo?

Non scrivo mai i miei film da solo, lavoro sempre con una o due persone. Doriana Leondeff è la coautrice dei miei ultimi otto film. Io credo che aver scritto un film che dovrai dirigere non potrà mai essere un limite, tutt’altro. Chi scrive la sceneggiatura ha una maggiore conoscenza di tante cose, sa perché un personaggio pronuncia una certa battuta, o compie una certa azione. Anche quando ho realizzato Brucio nel vento, che è tratto da un romanzo [Ieri, di Ágota Kristóf ndr], insieme a Doriana ho cercato di costruire la “mia” la storia,  perché solo così potevo conoscere nel profondo la trama, i personaggi, le svolte, e fare delle scelte importanti sul film.

Documentario e finzione: come convivono nella tua filmografia?

Il documentario è un momento di raccolta, di conoscenza, di scoperta. È un viaggio in un mondo sconosciuto. Nel mio cinema documentario c’è una forte tendenza a lasciare le cose al loro posto, a non stravolgerle, a non disturbare quello che avviene davanti alla camera, nei limiti del possibile. Si tratta di trovare un’intimità con la materia con cui sei a contatto, in cui ti immergi. Farsi più invisibile possibile e soprattutto ascoltare. Nella finzione accade proprio l’opposto: sei tu a dover creare un mondo. Che sia il mondo surreale di Agata e la tempesta o quello realistico di Cosa voglio di più, si tratta sempre di mondi che non esistono, che sono tutti da inventare. Mi piace passare da un genere all’altro, perché da uno attingo e poi nell’altro ricreo. Il documentario ti aiuta, nella finzione, a rendere il più verosimile possibile una storia, perché lo spettatore ci deve credere, al cinema. Le psicologie dei personaggi sono importantissime, bisogna sempre scavare dietro ogni minima cosa, a volte anche dietro il più piccolo gesto.

I tuoi personaggi, infatti, sono sempre molto approfonditi. Che tipo di lavoro c’è dietro?

Inizia nella fase di scrittura e si affina dopo, con gli attori. Quello è il momento in cui un personaggio prende vita. Lavorando con gli interpreti si capiscono tante cose, si mette a fuoco qualcosa di quasi invisibile che è però quello che secondo me crea, nello spettatore, una profonda vicinanza e intimità con loro. Questo riguarda anche i personaggi secondari. In tanti film accade che quando si entra in un bar, il barista non è un barista. Io cerco di stare sempre molto attento ai dettagli. Anche un barista che vediamo per trenta secondi deve avere una sua personalità.

Che legame c’è fra il documentario Per altri occhi e il tuo ultimo film Il colore nascosto delle cose?

La realtà che avevo scoperto in Per altri occhi era troppo lontana da quella che conoscevo io, che per buona parte derivava da ciò che avevo appreso al cinema, perché i personaggi ciechi nei film sono rappresentati o in modo sempre drammatico oppure come dei supereroi. Io volevo provare a mettere in scena una storia molto normale, dove il personaggio di una donna cieca avesse una vita come quella degli altri. Questo mi premeva raccontare: una quotidianità in cui l’impossibilità di vedere è un elemento con cui Emma ha fatto pace e che anzi la spinge ad avere quasi più voglia di vivere e di prendere dalla vita tutto quello che può rispetto a una persona che non si trova nella sua condizione.

Com’ è il tuo rapporto con il pubblico e con la critica?

L’unico modo di avere un riscontro del pubblico è andare nei cinema a presentare il film. Lì si capisce davvero che cosa arriva dallo schermo alla sala. È sorprendente come, dopo la stessa scena, improvvisamente ridano tutti oppure, a soli 100 km di distanza, nessuno. Il pubblico è ciò che fa incassare il film, ciò che lo fa andare avanti, un film lo fai perché venga visto, non perché te lo vuoi tenere in un cassetto. Questo è un discorso delicato: quanto fai un film per il pubblico e quanto lo fai per raccontare una storia, un mondo. Io non riesco a pensare al pubblico quando giro un film, però sto attento e cerco sempre di capire se arriverà, se riuscirò a raccontare una certa cosa in un certo modo. Cerco di fare i film che come spettatore andrei a vedere. Per quanto riguarda la critica, ci sono due o tre critici di cui m’interessa davvero sapere cosa pensino [sorride sornione].

La Cineteca di Milano – dove per altro sono conservati tutti i tuoi film in 35 mm – va a fuoco. Quale film salveresti per primo?

Non ne ho idea! Con domande come questa ho sempre grossi problemi perché le prendo troppo seriamente. Forse salverei uno dei film che mi ha così emozionato e stupito che mi ha spinto a fare questo mestiere, uno dei primi film di Wim Wenders, Nel corso del tempo, oppure Pickpocket di Robert Bresson… che poi magari rivedendoli oggi direi: “Ma perché non ho salvato qualcos’altro!”.

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