Settimana Internazionale della Critica Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:05:36 +0000 it-IT hourly 1 Venezia 81: “Anywhere Anytime” e i ladri di biciclette oggi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/venezia-81-anywhere-anytime-e-i-ladri-di-biciclette-oggi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/venezia-81-anywhere-anytime-e-i-ladri-di-biciclette-oggi/#respond Thu, 05 Sep 2024 12:37:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19315 Issa è un senegalese sans papier. Quando se ne accorge l’uomo che gli dà lavoro come scaricatore al mercato, lo licenzia: troppo alto il rischio dei controlli. Da qui una bici acquistata con fatica, il lavoro di rider e il furto che stravolgerà ulteriormente la vita del ragazzo in una Torino che a modo suo […]

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Issa è un senegalese sans papier. Quando se ne accorge l’uomo che gli dà lavoro come scaricatore al mercato, lo licenzia: troppo alto il rischio dei controlli. Da qui una bici acquistata con fatica, il lavoro di rider e il furto che stravolgerà ulteriormente la vita del ragazzo in una Torino che a modo suo cerca di fare qualcosa per gli invisibili come lui, ma non è mai abbastanza. Anywhere Anytime, opera prima di Milad Tangshir, omaggia il passato di Ladri di biciclette con il presente della consegna a domicilio e prende in prestito da quei grandi sceneggiatori del Novecento (Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico) il congegno narrativo della bici rubata.

Il suo film pedala sull’asfalto degli invisibili, parla di lotta per la sopravvivenza e integrazione dei nuovi vinti, quindi di sfortuna e sfumature che possono far crollare un’esistenza come un castello di carte. Con l’attenzione a un realismo urbano germogliato esteticamente sul solco moderno dei fratelli Dardenne, pesca dalla strada le sue facce e i suoi cromosomi narrativi, in senso pieno. Il regista è un iraniano con un salto nel nostro paese simile a quello di Ferzan Ozpetek. Fino all’arrivo in Italia, nel 2011, aveva inciso tre album con una rock band in Iran, poi qui da noi gli studi di cinema, i primi cortometraggi premiati e la collaborazione con Daniele Gaglianone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a lui e a Giaime Alonge. Il loro script è asciutto, scevro di pietismi e contempla l’importanza della relazioni tra le persone. Che sia amicizia, flirt, lavoro, volontariato, incontri fortuiti con brave persone o incontri con brutti ceffi, il trio di autori ci presenta un affresco molto realistico della Torino di oggi attraverso lo sguardo di un ragazzo straniero.

Tangshir ha preso dalla strada gran parte del cast. Dei non-attori, un po’ come Garrone per Io capitano. Ibrahima Sambou è il protagonista, il ragazzo che cerca solo di cavarsela. La sua limpidezza nella nostra Italia così contraddittoria ha l’asprezza di una realtà che Sambou per primo ha visto con i suoi occhi ben prima di qualsiasi set.

A prescindere dal classico percorso dell’eroe costruito per l’intrattenimento narrativo, il film apre uno squarcio su una realtà difficile, pur senza mettere lo spettatore troppo  disagio, facendogli assaggiare senza rischio quelle situazioni a tenaglia da una poltrona vellutata rinfrescata da aria condizionata. E anche senza caricare sensi di colpa sul pubblico, questo cinema mostra il mondo di oggi e le sue nuove storture subite da speranza e buona fede operosa. Il filo rosso di queste tematiche parte da lontano, cinematograficamente da De Sica passando per le crune di tanti autori e tante epoche. Dai Petri ai Loach, ai più recenti Vicari, Riondino e Garrone. Fino alla bella sorpresa Tangshir. Proprio a questo punto, nell’incontro tra realtà e narrazione, il cinema diventa strumento necessario di coscienza civile. Anywhere Anytime si avvale oltretutto di una colonna sonora fatta di rumbe jazz che ci immergono in ritmi sincopati e imprevedibili come la vita in strada. È stato presentato a Venezia per la Settimana della Critica, l’unico italiano in concorso, e uscirà al cinema l’11 settembre.

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La Settimana Internazionale della Critica n. 38 e i suoi corti vincitori https://www.fabriqueducinema.it/festival/la-settimana-internazionale-della-critica-n-38-e-i-suoi-corti-vincitori/ Mon, 11 Sep 2023 13:07:23 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18671 Quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia ha compiuto la sua ottantesima edizione. All’interno di una grande kermesse come questa il cinema breve viene sempre considerato palestra, esercizio per giovani registi, o superficialmente una vetrina. A nostro parere rimane invece un vivaio d’idee libere per nuovi autori che raccontano storie mostrando le loro potenzialità con […]

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Quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia ha compiuto la sua ottantesima edizione. All’interno di una grande kermesse come questa il cinema breve viene sempre considerato palestra, esercizio per giovani registi, o superficialmente una vetrina. A nostro parere rimane invece un vivaio d’idee libere per nuovi autori che raccontano storie mostrando le loro potenzialità con la singolarità dei loro cortometraggi. Un corto è un po’ come una barzelletta: semplice, diretta e con un solo scopo. Che nel caso del cinema non è la risata finale, anche se capita, ma un’emozione. Quindi un colpo di scena, un pugno nello stomaco, un dato della realtà, la riflessione su una scoperta, o una freddura. Un monito certe volte, o una risata appunto. Comunque un solo concetto su una sola emozione che concentra tutto il lavoro narrativo edificato in quella manciata di minuti intorno a un micro-mondo, la messa in scena. Insomma, una storia che ogni autore tira fuori dal buio del grande schermo per intingerci dentro la sensibilità di uno spettatore al fine emozionarlo.

Giunta alla sua edizione numero 38 la Settimana Internazionale della Critica, sezione collaterale della Mostra, oltre ai lungometraggi (7 film in concorso più 3 eventi speciali), abbiamo avuto 7 cortometraggi in concorso, più i 2 in apertura e in chiusura rispettivamente di Liliana Cavani e Francesco Piras. Tutti e 9 italiani. Mentre la giuria composta da Eddie Bertozzi, responsabile acquisizioni per la distribuzione Academy Two, il regista Matteo Tortone e la producer Nicoletta Romeo ha decretato i 3 vincitori ai quali siamo andati a dare uno sguardo (di altri due concorrenti, Tommaso Fragini e Federico Demattè, abbiamo parlato un articoli precedenti).

Nel documentario La linea del terminatore di Gabriele Biasi seguiamo la testimonianza di Fernanda Gonzales, un’immigrata Argentina che è fuggita da Buenos Aires fino all’Italia. Il regista ce ne lascia ascoltare la voce, un flusso di coscienza accompagnato da immagini dirompenti a sintetizzare il dramma e l’urgenza di questa donna. Oltre a immagini di repertorio, Biasi sceglie le partenze di razzi aerospaziali, così le esplosioni di quei reattori ben rappresentano la rottura traumatica, anche violenta di del viaggio come impresa immane, distacco dalla propria terra verso lo spazio come verso il futuro in un altro paese lontano. I sensi di colpa per aver lasciato indietro la sua famiglia bruciano l’anima della donna come quei motori in fiamme. Biasi utilizza immagini porose che sembrano in Super8 e 16mm, distorsioni psichedeliche per raccontarne in video i sentimenti, ma soprattutto colpisce la lampante metafora delle strumentazioni aerospaziali, un modo di raccontare l’immigrazione bagnato di Kubrick, perché un viaggio per trovare una nuova vita è sempre un’odissea. Con questa intuizione Biasi si è aggiudicato il Premio alla Migliore Regia – Stadion Video.

Ha i toni di una commedia brillante invece We Should All Be Futurist dell’autrice Angela Norelli (regia e sceneggiatura). Allegoria concettuale che giustappone immagini di film anni ’10 e ’20 a un vivace carteggio tra due donnine di casa. “Isterica” viene chiamata la donna che si affaccia fuori dai binari di un’educazione patriarcale. Così la storia del primo vibratore, sì il primo strumento di piacere erotico storicamente dedicato alle donne e al loro diritto al piacere, si lega a un linguaggio cifrato in sottili allusioni che irride con leggerezza il futurismo di Marinetti e il superomismo uomo-macchina in una chiave tutta proto-femminista. Parlare quasi in codice diventa un inno alla libertà senza tempo, libertà che passa in primis dall’intimo umano, femminile. Il mondo in un corpo, e il corpo nel mondo come avamposto di sopravvivenza dell’identità, come punto G di una dimensione d’indipendenza da conservare anche al costo di comunicare tramite codici cifrati contro mariti impantanati nei rigidi tecnicismi maschiocentrici del loro tempo. O semplicemente resilienza novecentesca della prima ora. Sta di fatto che questo corto audace e frizzante ha vinto il Premio al Miglior Contributo Tecnico – Fondazione Fare Cinema.

Il Premio al Migliore Cortometraggio – Frame by Frame della Settimana Internazionale della Critica è andato infine a uno shortfilm che guarda al passato di due alberi cresciuti nel bel mezzo della foresta amazzonica peruviana. Presupposti originali, misteriosi e apparentemente impossibili da realizzare come Las memorias perdidas de los árboles di Antonio La Camera costituiscono esattamente quelle sane tensioni creative tra autore, grande schermo e spettatore che sfidano il sentire e l’immaginare. Così in un continuo controcampo tra arbusti imponenti scopriremo il loro passato umano di fratellini. La loro lingua è un crepitio gutturale, quasi atavico, ma i sottotitoli ci offrono il linguaggio umano. Flashback di vite passate si risvegliano da memorie sopite, rimaste legate tra liane o sepolte dal fogliame. La dimensione natura si fonde in contrasto con un vero e proprio viaggio spirituale rendendo più viva che mai quella comunemente errata staticità che assegniamo al mondo vegetale. Il regista di questa produzione italo-spagnola tinteggiata di colori sfocati e lisergici tutto il suo film. Sfoca i ricordi umani ponendoci di fronte a soggettive di sensorialità quasi aliene. Attinge a diverse tecniche da videoarte, rielaborazioni sulla luce quasi pittoriche, astrattiste, miscelando effetti digitali in un decoupage che ci parla di rispetto per l’ambiente attraverso il destino di due bambini senza mai tralasciare grazia e magnificenza del mondo vegetale.

 

 

 

 

 

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Margini: nel nome del punk, di Grosseto e della provincia noiosa https://www.fabriqueducinema.it/festival/margini-nel-nome-del-punk-di-grosseto-e-della-provincia-noiosa/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/margini-nel-nome-del-punk-di-grosseto-e-della-provincia-noiosa/#respond Thu, 01 Sep 2022 12:31:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17539 Grosseto, 2008. Siamo in una Toscana piatta, sonnacchiosa, senza colline dolci e verdeggianti. Niente raffinatezze turistiche, ma giusto un capoluogo che sembra provincia, dove tutto resta lento e immutabile. Così il punk scorre poderoso tra le dita e sugli strumenti rumorosi di questi tre giovinastri neanche trentenni che cercano di mordere la vita attraverso la […]

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Grosseto, 2008. Siamo in una Toscana piatta, sonnacchiosa, senza colline dolci e verdeggianti. Niente raffinatezze turistiche, ma giusto un capoluogo che sembra provincia, dove tutto resta lento e immutabile. Così il punk scorre poderoso tra le dita e sugli strumenti rumorosi di questi tre giovinastri neanche trentenni che cercano di mordere la vita attraverso la musica. Opera prima di Niccolò Falsetti per la Settimana Internazionale della Critica alla settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia, Margini potrebbe essere ascritto in quell’alveo di film giovanilistici dove piccoli antieroi della working class che ancora non trovano la loro strada, cercano con le unghie e con i denti di realizzare i propri sogni.

I Waiting for nothing – questo il nome del gruppo street punk di Edoardo, Iacopo e Michele – cercheranno di suonare a tutti i costi di fronte a un folto pubblico. Basta con le Feste dell’Unità mezze vuote o le piazzette di periferia senza piglio né attenzione. Si punta a un gruppo americano più conosciuto, e attirarli in città per un concerto da scolpire sui calendari a venire appare come la ghiotta occasione di una vita. Da questo punto di vista il pastiche, dai tratti estetici del road movie, ricorda vagamente anche certi intenti di The Commitments di Alan Parker, ma con personaggi in stile La Guerra degli Antò. Il ché non è neanche male a ben vedere.

MarginiPeccato la vita reale, i conti in famiglia con una bimba da crescere, gli impegni con la musica classica, gli idealismi sfacciati o i problemi di gestione della rabbia incombano sui nostri scavezzacollo. Ma soprattutto la difficoltà a crescere e il rifiuto – molto punk – nel prendersi le proprie responsabilità segnano e pesano sui personaggi con i volti di Matteo Creatini, Francesco Turbanti e Emanuele Linfatti. Tutti e tre centrano bene il proprio character, e le presenze di Silvia D’Amico, Valentina Carnelutti e Nicola Rignanese rinforzano ulteriormente il film.

Forse il pubblico italiano, ma soprattutto gli esercenti sempre più legati a volti scontatamente famosi del cinema non daranno molto spazio a questo film quando uscirà in sala l’8 settembre. A meno ché il caro vecchio passaparola non lo tocchi spesso con la sua bacchetta magica. Speriamo inizi comunque dal Lido. Essendo una creatura della Fandango, però, c’è da augurarsi che la distribuzione superi le Alpi per raccontare all’Europa la piccola epopea di questi sfigatissimi rocker toscani ai quali nel bene o nel male, non si può non voler bene.

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Le ninfe dark di Isabella Torre https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/le-ninfe-dark-di-isabella-torre/ Mon, 04 Apr 2022 12:27:12 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17024 Classe 1994, Isabella Torre ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori con i due corti Ninfe (2018) e Luna piena (2021), presentati a Venezia, e ora sta lavorando alla sua opera prima tratta proprio da Ninfe, Basileia, scritta al prestigioso Sundance Lab e in produzione con Stayblack e RAI Cinema. Attrice e produttrice, Isabella Torre […]

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Classe 1994, Isabella Torre ha attirato l’attenzione degli addetti ai lavori con i due corti Ninfe (2018) e Luna piena (2021), presentati a Venezia, e ora sta lavorando alla sua opera prima tratta proprio da Ninfe, Basileia, scritta al prestigioso Sundance Lab e in produzione con Stayblack e RAI Cinema. Attrice e produttrice, Isabella Torre ha nel suo carnet anche la collaborazione alla trilogia di Jonas Carpignano (Mediterranea, A Ciambra e A Chiara, fresco di ben 6 candidature ai David di Donatello 2022).

Hai sempre lavorato davanti e dietro lo schermo: regia, produzione e recitazione. Sei alla ricerca della tua dimensione o l’hai trovata nel movimento fluido tra i vari ruoli?

Mi sento di dire di esserci quasi “nata e cresciuta” sul set. Mia madre, costumista di cinema, mi ha portato alle riprese di tutti i suoi film fin da piccolissima ed è per questo che ho sempre ritenuto il set cinematografico un po’ come casa, anche più di quanto non lo fosse la mia casa reale. Per quanto riguarda Ninfe recitare, oltre che dirigere, è stata una necessità quasi pratica (essendo un corto molto sperimentale, girato per sondare il terreno per un lungometraggio sullo stesso soggetto) e interpretare le ninfe è stato un lavoro molto duro: dalla nudità nel gelo di febbraio, alle lunghe notti nel fango e nella terra… non avrei voluto mettere nessun altro in quelle condizioni terribili se non me stessa. In Luna piena invece la necessità era un po’ diversa, più che altro catartica. Questo cortometraggio è molto personale, ispirato a quello che ci è successo mentre giravamo A Chiara di Jonas Carpignano e tutto è cambiato a causa della pandemia. Il bagaglio emotivo che ho affidato a Lina era più che altro il mio, per me aveva senso affrontare questa avventura in prima persona. In futuro deciderò istintivamente come ho fatto sino a ora se sarà il caso di interpretare oltre che dirigere, ma per la versione lungo di Ninfe penso che mi dedicherò unicamente alla regia.

C’è stato un momento decisivo nella tua carriera? Qualcosa che ti ha fatto capire di essere sulla strada giusta?

Vari momenti, direi. Innanzitutto quando ho realizzato che il gruppo di collaboratori che abbiamo creato in questi anni girando i film di Jonas (con cui ho lavorato per tutta la trilogia) è come una vera e propria famiglia. D’altra parte come dicevo prima, il set per me è la mia tana, collaborare con qualcuno con cui ti senti affine e sentire di essere parte di un’operazione comune dà senso a tutto. Un altro momento illuminante è stato mentre giravo Ninfe. C’erano stati dei problemi in un magazzino e tutta la pellicola che avevamo girato era rovinata. L’indomani tornammo per rigirare le scene in quel piccolo villaggio abitato unicamente da una famiglia pastori. Era l’alba e mi aspettavo che ci mandassero a quel paese, invece ci hanno accolto incredibilmente contenti e calorosi; d’improvviso il cielo si fece tutto rosa e l’aria profumava di montagna, girammo in una sorta di idillio. Pensai: “Questa è la magia del cinema”.

Ninfe di Isabella Torre
“Ninfe”, di Isabella Torre.

Come funziona il tuo processo creativo?

Di solito è tutta colpa o merito del mio inconscio. Sono una persona piuttosto inquieta da sempre, il mio mondo interiore può essere sovrastante, se non lo libero rischio davvero e questo è il mio modo per farlo. Poi naturalmente le persone sono l’altra faccia della medaglia: sono piena di personaggi nella mia testa ispirati alle persone che mi capita di conoscere, anche quelli vanno liberati ogni tanto per evitare “assembramenti”.

Ninfe mostra la terra d’Aspromonte come un luogo mistico, incantato e a tratti spaventoso. L’archeologo e i suoi due uomini sono lì per disseppellire un tesoro, ma dal terreno finisce per venir fuori molto di più, tra la nebbia emergono tre ninfe che causano una serie di misteriosi avvenimenti.

L’Aspromonte è un luogo unico. Una terra fatta di contrasti, con atmosfere che ti rapiscono e la nebbia… la nebbia è un’entità a sé. Sono arrivata in Calabria sette anni fa e ho sempre frequentato l’Aspromonte, eppure non c’è una volta che abbia vissuto un’esperienza simile all’altra lassù. La verità è che la potenza della natura di quel posto ha influenzato anche la gente che lo abita, che ne ha assunto le stesse contraddizioni e la stessa unicità. La componente surreale del film è il mio modo per indagare anche a livello sociale e culturale questa terra.

Sia Luna piena che Ninfe hanno in comune una forte simbologia naturale, una forza misteriosa ma reale che ristabilisce l’ordine e riprende il controllo su tutte le cose in modo implacabile.

Anche qui viene tutto dal mio inconscio: il mondo in cui viviamo e le dinamiche che regolano la nostra vita sono motivo di grande ansia per me. Sono profondamente convinta che dovremmo tutti ritornare alla terra, allo scandire del tempo dettato dalla natura. È l’unica vera bussola che potrebbe aiutarci a riprendere le redini delle nostre vite. Mentre giravamo Ninfe ci ritrovammo ad aspettare che la famiglia del villaggio si svegliasse per iniziare a girare: il giorno prima ci avevano detto a che si sarebbero svegliati, ma invece dormivano ancora tutti. Ecco più, tardi risolvemmo l’arcano: loro non cambiano mai l’orologio a seconda dell’ora legale o solare, hanno un unico riferimento per dare inizio alla loro giornata, ovvero, come dicono loro, “le bestie”. Quando si svegliano le capre, inizia la giornata. Non c’è altra convenzionalità a regolare il giorno e la notte. Lo trovo magnifico

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Federico Demattè e il suo Inchei, che “in rumeno significa finire” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/federico-dematte-e-il-suo-inchei-che-in-rumeno-significa-finire/ Fri, 04 Mar 2022 09:37:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16870 Adolescenza: quel periodo della vita in cui solo i nostri coetanei sembrano comprenderci. Cosa succederebbe se in una fase così delicata fossimo costretti ad allontanarci proprio da loro? Tenta di dare una risposta a questa domanda Inchei, cortometraggio di esordio di Federico Demattè, vincitore come Miglior Short Film e Miglior Regia alla Settimana Internazionale della […]

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Adolescenza: quel periodo della vita in cui solo i nostri coetanei sembrano comprenderci. Cosa succederebbe se in una fase così delicata fossimo costretti ad allontanarci proprio da loro? Tenta di dare una risposta a questa domanda Inchei, cortometraggio di esordio di Federico Demattè, vincitore come Miglior Short Film e Miglior Regia alla Settimana Internazionale della critica nell’ambito del Festival di Venezia 2021. La motivazione della giuria recita: «per la narrazione libera da ogni sovrastruttura che permette ai protagonisti di essere completamente credibili».

“Inchei” è una parola rumena che significa “finire”. Il film racconta di Armando, ragazzo rom di 15 anni che vive con la madre e i fratelli tra le baracche della periferia di Milano Est; nel pieno della sua adolescenza è costretto a lasciare amici e amori per partire con la famiglia alla volta di Berlino, dove il nuovo compagno della madre è riuscito a trovare un lavoro. Federico Demattè nasce a Trento nel ’96, si sposta nel 2016 a Berlino, poi a Londra e dopo tre anni torna in Italia pubblicando il romanzo Jennifer salta giù. Attualmente frequenta l’Accademia Naba a Milano.

Il tuo arrivo nel mondo del cinema avviene con un film che parla di addii: perché questa scelta?

La partenza è un tema che mi ha da sempre affascinato. Paradossalmente ho sempre iniziato i miei lavori parlando di momenti finali, addii: quando suonavo in una band musicale, il primo EP parlava della nostra partenza da Trento e il mio primo romanzo raccontava di quella per Berlino. È un tema che torna spesso nel mio lavoro: forse è la mia tendenza a farmi affascinare dalla nostalgia e dalla malinconia, sentimenti che mi suggeriscono tante sfumature narrative ed estetiche.

Come hai conosciuto Armando e perché hai scelto proprio la sua storia?

Prima di conoscere Armando avevo già scritto la sceneggiatura del corto, volevo parlare della partenza di un ragazzo rom. Armando mi è stato consigliato da un’assistente sociale per la sua situazione insolita: la sua famiglia, rom, aveva deciso di staccarsi dai campi nomadi e di vivere in una sorta di ibrido, una vita nelle baracche piena però di conoscenze e frequentazioni milanesi. Di Armando mi ha colpito subito la dolcezza, è un ragazzo molto sensibile e di grande empatia. E dal punto di vista “antropologico” è stato naturalmente molto interessante osservare il suo essere rom e al contempo adolescente milanese al 100%.

Inchei
Armando Barosanu in “Inchei”.

Con Inchei hai vinto il premio come miglior regia per «la capacità di entrare in intimità con i personaggi e gli ambienti». Come ci sei riuscito?

In molti hanno pensato che le scene che mostro nel cortometraggio fossero state “spiate”, mentre in realtà scaturiscono dall’intimità che io e gli attori abbiamo costruito insieme. Si è creata una grande vicinanza fra noi della troupe e i ragazzi e questo anche grazie al fatto che per mesi ci siamo visti e abbiamo progettato insieme battute e scene. Alla fine osservavo la compagnia di amici di Armando e, sempre per riprendere il discorso della nostalgia, mi sembrava di rivedere la mia vecchia comitiva di amici sedicenni di Trento.

Come è andata con la famiglia di Armando?

Inserirmi all’interno della famiglia è stato più complesso. La sintonia con i ragazzi è avvenuta in maniera più naturale, mentre con la madre di Armando all’inizio non nego che ero in imbarazzo. Ero frenato da scrupoli morali, non ero sicuro che fosse realmente giusto entrare così dentro le loro faccende personali. Gradualmente però ci siamo avvicinati gli uni agli altri e alla fine ciò che era nato come un “mio” progetto è diventato un obiettivo condiviso. Si è creata una sorta di simbiosi di sogni.

Nasci a Trento, nel 2016 ti  sposti a Berlino, poi a Londra e infine a Milano. A differenza di Armando tu non sembri temere cambiamenti e addii.

Ricerco in continuazione il cambiamento e contemporaneamente ne ho paura, ma mi consola il fatto che novità e futuro alla fine terrorizzano un po’ tutti. Sono un carattere fragile, sensibile e sempre indeciso ma sento di avere dei sogni così grandi che non posso contenerli. Quando si tratta di seguire questi sogni metto la paura da parte, anzi la uso proprio come fosse un mezzo per raggiungerli

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Finis terrae: due amici, una scomparsa https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/finis-terrae-due-amici-una-scomparsa/ Sun, 25 Jul 2021 14:25:12 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15857 Tommaso Frangini, milanese, ha convinto i selezionatori di vari festival con il suo cortometraggio Finis terrae, a partire dalla Settimana Internazionale della Critica veneziana della scorsa edizione fino al Figari Film Fest dello scorso giugno. Il battesimo cinematografico Tommaso lo ha ricevuto da Andrea Pallaoro di cui è stato assistente sul film Hannah (con Charlotte […]

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Tommaso Frangini, milanese, ha convinto i selezionatori di vari festival con il suo cortometraggio Finis terrae, a partire dalla Settimana Internazionale della Critica veneziana della scorsa edizione fino al Figari Film Fest dello scorso giugno. Il battesimo cinematografico Tommaso lo ha ricevuto da Andrea Pallaoro di cui è stato assistente sul film Hannah (con Charlotte Rampling, in concorso alla 74ª edizione del Festival di Venezia) e, seguendo le orme del regista trentino ormai trapiantato all’estero, ha continuato con studi al CalArts (California Institute of the Arts) di Los Angeles, scuola fondata da Walt Disney ma con una forte anima indipendente e sperimentale. Finis terrae (distribuito da Zen Movie) è appunto il corto di diploma che Tommaso ha girato negli USA poco prima del rientro (causa Covid) a Milano.

«I miei primi lavori erano fantasy, Finis terrae è la prima volta in cui mi sono voluto dedicare a un cinema personale e intimista: l’idea mi è venuta durante uno dei ritorni a casa per le vacanze in Italia, quando studiavo negli USA. Fra gli amici di sempre, qualcuno non c’era più e mi dicevano che si era perso, che aveva interrotto i contatti. Ho cominciato a chiedermi come mai ragazzi che vivono in una condizione privilegiata, al centro di Milano, possono arrivare a perdersi. Inoltre una sera, uscendo con un amico, mi sono reso conto che non avevamo granché da dire, non parlavamo più la stessa lingua: da lì è nata la prima scena del corto, che ho poi sviluppato decidendo di ambientarlo in un luogo del tutto diverso, una costa rocciosa a picco su un mare invernale».

A proposito, dove l’hai girato?

È un parco naturale in California che si chiama Montaña de Oro: me lo ha consigliato il mio direttore della fotografia. È un parco suggestivo ma poco conosciuto, non troppo grande, scarsamente frequentato, quindi ideale per girare.

La storia dei due ragazzi sfrutta un modello narrativo nobile, a partire dal capostipite dei film sulla scomparsa improvvisa di un personaggio, L’avventura di Antonioni. È stato il tuo esempio?

È una cosa che in molti hanno osservato, ma anche se amo molto il cinema di Antonioni L’avventura non era fra le mie reference: piuttosto ho guardato a film come Jerry di Gus van Sant e Old Joy di Kelly Reichardt (ora sugli schermi con First Cow). Anche a livello stilistico e visivo, Antonioni era molto lontano da quello che volevo fare. Diverso se vogliamo guardare ai temi, che sicuramente hanno molto in comune: c’è il tema dell’incomunicabilità fra i due amici e quello del del malessere esistenziale di Peter, che è resa dal suo essere fisicamente ferito, danneggiato, ha dei cerotti sulle mani e sul volto di cui non viene detta la causa.

La dinamica fra Peter e Travis richiama quella di un’attrazione fisica: si può leggere anche come una storia di amore non corrisposto?

Quando sviluppavo la sceneggiatura al CalArts, la mia professoressa mi disse che sentiva una grande tensione anche sessuale fra i due ragazzi, le sembrava che uno fosse un po’ innamorato dell’altro. Ho deciso però di non esplicitarlo, anche perché non volevo addentrami in un terreno complesso (soprattutto in America) come le questioni sessuali, gender e così via senza conoscerle a fondo, senza averle vissute. Invece volevo che il punto fosse quella sorta di amore platonico che si crea fra amici soprattutto in una situazione di bisogno, che la tensione fosse nell’aria ma non fosse assolutamente dichiarata. Ho voluto raccontare un momento fra amici che non sanno più come comunicare. Finis terrae significa la fine del mondo conosciuto, che per loro era l’amicizia, la loro vita post adolescenziale.

Una tensione efficace anche grazie all’interpretazione e alla fisicità di Ryan Masson, Peter.

Ryan era un attore amico di amici, ci incontravamo ogni tanto alle feste e all’inizio non mi era nemmeno molto simpatico: poi, durante un barbecue ad Halloween, un po’ brillo, ho avuto l’intuizione che fosse perfetto per la parte e gliel’ho proposto lì seduta stante. Da allora siamo diventati molto amici e ci teniamo sempre in contatto. L’altro attore era più giovane e meno professionale, un surfista di Santa Barbara che un giorno, fra una ripresa e l’altra, è andato appunto a surfare ed è tornato in ritardo tutto bagnato, ma abbiamo lavorato bene, se i due attori non avessero funzionato insieme il corto non sarebbe così efficace.

Adesso? Torni in America o resti in Italia?

Per ora resto qui, sto lavorando a un lungometraggio: continuo ad aver voglia di raccontare qualcosa che conosco ovvero, l’ho già detto [ride], la vita di un ragazzo in una società privilegiata come quella della Milano-bene. Stando negli USA mi sono accorto quanto questo ambiente sia superficiale, chiuso alle novità, si vive dai 14 anni ai 50 chiusi negli stessi gruppi. Anche qui c’è un ragazzo in cerca di identità. Forse non è un tema di per sé originale, ma oggi non sono molti i film che ne parlano: invece penso che la mia generazione abbia bisogno di essere raccontata, c’è poca indipendenza vera, molta precarietà e mancanza di passioni. Ci è stato promesso un mondo che in realtà non avremo, e questo ha creato un dissesto che credo sia importante descrivere in un film.

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Mauro Mancini colpisce al cuore con “Non odiare” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/mauro-mancini-non-odiare/ Fri, 18 Sep 2020 10:55:10 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14344 Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, Mauro Mancini scrive e dirige nel 2005 il corto Il nostro segreto, che segna l’inizio di numerosi successi internazionali. Esordisce nel lungometraggio con Non odiare, unico film italiano in concorso alla 35esima Settimana Internazionale della Critica, acclamato dal pubblico. È un’opera prima che ha uno sguardo rivolto verso le contraddizioni […]

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Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, Mauro Mancini scrive e dirige nel 2005 il corto Il nostro segreto, che segna l’inizio di numerosi successi internazionali. Esordisce nel lungometraggio con Non odiare, unico film italiano in concorso alla 35esima Settimana Internazionale della Critica, acclamato dal pubblico. È un’opera prima che ha uno sguardo rivolto verso le contraddizioni che si celano in ognuno di noi, raccontate dal regista sullo sfondo di una società dove serpeggiano profonde spaccature culturali.

Dopo la presentazione del tuo film a Venezia, quali sono le tue sensazioni?

Ho avuto la fortuna di ricevere un’accoglienza molto calorosa alla prima, addirittura cinque minuti di applausi in sala. È stato un qualcosa di inaspettato che è andato al di là di ogni possibile previsione. Del resto questa Mostra ha segnato un punto di rinascita e mi ha dato la sensazione che si può tornare in sala con pochi ma necessari accorgimenti. Ho preso davvero coscienza di aver realizzato Non odiare solo vedendolo insieme a tantissime altre persone: fare cinema è un atto di fiducia reciproca perché i film si fanno insieme.

Da dove nasce la necessità di raccontare una storia che invita alla comprensione dell’altro?

Nasce da un trafiletto che avevamo letto su un quotidiano io e lo sceneggiatore Davide Lisino. Un medico ebreo aveva rifiutato di compiere un’operazione di routine su un paziente con un tatuaggio nazista, dichiarando che l’intervento sarebbe andato contro la sua coscienza; il paziente venne operato da un altro medico. Il nostro protagonista Simone Segre, interpretato da Alessandro Gassmann, sta per salvare un uomo vittima di un incidente stradale al quale assiste, ma quando scopre la svastica tatuata sul corpo della vittima tradisce il giuramento di Ippocrate, lasciandolo al suo tragico destino. L’intolleranza è uno dei mali della nostra società e nel film siamo partiti da un odio ben specifico per poi concentrarci su un’intolleranza più ampia, intesa in senso lato. Non bisogna essere indifferenti, ma pensare con la propria testa e aprirsi al dialogo mettendosi in ascolto. Mi piacerebbe che questo film venisse proiettato nelle scuole e che lo vedessero anche i ragazzi, la generazione che ha in mano il futuro.

La storia è ambientata a Trieste, città multietnica, ma l’intolleranza si diffonde in tutto il territorio italiano, perché l’Italia non ha un’identità culturale davvero comune. Il cinema può contribuire a diminuire queste distanze culturali?

La cultura in generale ha il compito di diminuire queste distanze, suggerendo delle domande a chi guarda o legge, per indurlo a una riflessione, lasciando che sia poi lui a trarre le conclusioni. Erigere muri è semplice, abbatterli è molto più complicato.

Qual è il punto di vista della storia?

Cercare di non giudicare i personaggi è stato molto difficile, perché il pregiudizio interviene inevitabilmente quando scrivi. Il mio non è un film privo di punto di vista, ma con la macchina da presa ho scelto di stare un po’ più distante del solito perché nella vita a volte guardi delle cose che accadono e non puoi farci niente. Guardarci dall’esterno ci aiuta a comprenderci meglio e aiuta anche gli altri.

Mauro Mancini sul set
Mauro Mancini sul set

Il ritmo della comunicazione è scandito da silenzi e pause che mettono in risalto l’espressività degli attori, lasciando che il dialogo avvenga quasi senza usare le parole.

Non odiare è molto asciutto nella regia, nella messa in scena e nei dialoghi perché volevo il più possibile evitare che si generassero degli equivoci e le parole spesso portano a degli equivoci. Uno sguardo invece può essere più sincero delle parole. Sapevo di avere due attori pazzeschi, con cui potevo lavorare sui silenzi e sui non detti.

Cosa rappresenta l’attrazione che nasce tra Marica (interpretata da Sara Serraiocco) e Simone?

È l’attrazione per un mondo che non conosci, ma che ti affascina, con il quale non puoi convivere in quel momento, anche se probabilmente vorresti. Il loro è quasi un abbraccio carnale tra persone che si cercano. È voglia di accudire l’altro.

Simone e Marcello, il fratello neonazista di Marica, hanno entrambi ereditato dai rispettivi padri un determinato retaggio culturale che li accomuna e li divide allo stesso tempo. È come se si guardassero allo specchio senza riconoscere il proprio riflesso.

Quando Simone si prova il cappotto del padre, non l’ho volutamente ripreso attraverso lo specchio perché volevo che stesse da solo con lo specchio e noi non vedessimo ciò che vedeva lui. Simone e Marcello si guardano allo specchio, ma è come se non si vedessero: nella scena che ho citato ho cercato proprio di restituire questo effetto. In altri momenti invece sono inquadrati mentre si specchiano, anche per dare l’idea che siamo più di un pensiero solo e che possiamo imparare a diventare più di quello che siamo già.

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The Book of Vision apre la Settimana della Critica a Venezia https://www.fabriqueducinema.it/festival/the-book-of-vision-apre-la-settimana-della-critica-a-venezia/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/the-book-of-vision-apre-la-settimana-della-critica-a-venezia/#respond Thu, 03 Sep 2020 08:00:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14301 Figlio d’arte ˗ il padre è stato attore teatrale, cinematografico e doppiatore di rango ˗ Carlo S. Hintermann arriva al suo primo lungometraggio a soggetto con una vasta e lunga esperienza alle spalle, nel cinema e non solo. Produttore, tecnico del suono, musicista, filmmaker completo, Hintermann ha diretto diversi documentari, ha lavorato accanto a nomi […]

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Figlio d’arte ˗ il padre è stato attore teatrale, cinematografico e doppiatore di rango ˗ Carlo S. Hintermann arriva al suo primo lungometraggio a soggetto con una vasta e lunga esperienza alle spalle, nel cinema e non solo. Produttore, tecnico del suono, musicista, filmmaker completo, Hintermann ha diretto diversi documentari, ha lavorato accanto a nomi autorevoli della scena internazionale (regista della seconda unità per Malick, produttore per Naderi), ha pubblicato ˗ lavorando nelle collane della casa editrice Ubulibri ˗ e scritto libri di cinema, in Italia e oltreconfine.

The Book of Vision, una produzione imponente in cui figura anche Terrence Malick

The Book of Vision, che apre l’edizione di quest’anno della SIC a Venezia, è il risultato di un congegno produttivo imponente, soprattutto per un esordio che coinvolge tre diversi paesi ˗ Italia, Gran Bretagna e Belgio ˗ e raggruppa un cast tecnico-artistico internazionale di alto livello (dallo scenografo David Crank al direttore della fotografia Jörg Widmer, fino all’interprete Charles Dance) coronato dalla presenza di Terrence Malick come produttore esecutivo.

Una giovane chirurgo abbandona la carriera per dedicarsi agli studi sull’involuzione del rapporto tra medico e paziente, concentrando le sue ricerche sul diario illustrato che raccoglie le seicentesche annotazioni di quel che si rivela l’ultimo illuminato uomo di scienze ancora capace di sincretistica apertura all’idea del corpo umano come parte di un organismo fatto anche di componenti immateriali e invisibili; appena prima che la scienza finisca per concentrarsi sulla meccanica razionale dei processi organici. Nel passato come nel presente le nascite e le morti scandiscono incessantemente il progredire degli eventi.

Dietro il fasto della lussureggiante fotografia e dei costumi d’epoca non c’è, come ci si potrebbe aspettare, l’ennesimo film europeo d’autore dalle alte pretese pseudoartistiche, ma il racconto teorico e fantasioso di un appassionato artigiano d’immagini in movimento. Così è Carlo S. Hintermann, che pensa l’arte come ottenimento tecnico e non frutto d’ispirazione aerea, e che pratica il cinema come lavoro collettivo applicato con dedizione alla messa in forma del mondo.

Passato e presente in un unico flusso temporale

Al centro del film sta il gioco di un racconto che congiunge in un solo flusso temporale il diciassettesimo secolo e il presente: anche in questo caso, alla prevedibile pendolarità del meccanico andirivieni tra passato e presente il regista sostituisce una inconsueta commistione, confusione, permeabilità tra il già stato, un profondo presente e il futuro prossimo. Nonostante ci siano successione di azioni e reazioni, uno sviluppo narrativo e un movimento progressivo, si ha la forte impressione che tutto avvenga fuori del tempo, e che i personaggi ˗ che mostrano una fin troppo accurata attenzione nella messa in scena e nello studio del gesto ˗, quasi immobili, non facciano che adempiere al compiersi di un destino circolare.

Il più forte impulso dinamico viene forse da una colonna sonora stratificata e sovrabbondantemente condita, nella quale intorno alle voci e ai suoni si rincorrono brani musicali che sferzano longitudinalmente il film, rubando di quando in quando la scena alle immagini.

The Book of Vision è aperto da una citazione dello scrittore Bufalino ˗ presa tra l’altro da un romanzo, Diceria dell’untore, in rima suggestiva coll’impianto del film ˗ che allude al perno centrale del racconto: la “visione” del titolo è quella “apocalittica” dell’essere umano che, non oltre ma attraverso la propria condizione materiale, allunga lo sguardo oltre la storia di sé, scorgendo il tempo del mondo come una successione di tracce intrecciate l’una nell’altra, dentro un unico flusso senza interruzioni, che intorno alle sue rivoluzioni circolari conforma una trasformazione costante e senza fine.

A valle di queste suggestive e stimolanti idee, la prosa di Hintermann non mostra (ancora) i segni della fluidità matura, restando come irrigidita e in alcune delle sue articolazioni addirittura bloccata dal sovraccarico di senso atteso e non espresso. E tuttavia colpisce la gamma di scelte ardite e originali, tra le quali di certo spicca il gusto dichiaratamente riferito al cinema fantasy degli anni Ottanta, che fonde trucchi analogici e effetti visivi digitali in un coerente e concreto universo iconografico fantasmagorico.

 

 

 

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Alain Parroni, un regista tra disegno e realtà virtuale https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alain-parroni-un-regista-disegno-realta-virtuale/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alain-parroni-un-regista-disegno-realta-virtuale/#respond Tue, 17 Oct 2017 12:56:43 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9479 Essere testimoni del nostro tempo attraverso opere che nascono come fusione tra linguaggi diversi, con uno stile in evoluzione continua. Così il regista Alain Parroni (24 anni), presente all’ultima Settimana della Critica con il suo ultimo corto Adavede, ci descrive la sua visione del cinema, un lavoro di squadra che gioca con le arti tra passato […]

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Essere testimoni del nostro tempo attraverso opere che nascono come fusione tra linguaggi diversi, con uno stile in evoluzione continua. Così il regista Alain Parroni (24 anni), presente all’ultima Settimana della Critica con il suo ultimo corto Adavede, ci descrive la sua visione del cinema, un lavoro di squadra che gioca con le arti tra passato e futuro per lasciare memoria di sé.

[questionIcon]In IOV hai ricostruito il Polo Nord, con Macaroni hai rivisitato il furto della Gioconda per mano di Vincenzo Peruggia: due regie devote all’estetica per poi arrivare a Drudo e Adavede, in cui tutto è giocato su drammaturgia e recitazione. Come mai questa profonda differenza di approccio?

[answerIcon]Quando scrivo una storia inizio contemporaneamente anche a disegnare, sempre con tecniche diverse. È così che prendono forma le mie inquadrature. Ho disegnato Adavede a carboncino, usando solo schizzi grezzi, perché era una storia di graffiti e segni. Al contrario Macaroni ha uno storyboard dettagliatissimo, perché volevo fare “il cinema dei grandi” in una sorta di teatro di posa. La regia è quella, ma lo stile credo debba cambiare in ogni opera. È come per i testi: a volte scrivi una poesia, altre una lettera o un romanzo. Non a caso ogni cortometraggio è stato un atto d’amore nei confronti di una persona, e questo ha richiesto forme d’espressione diverse.

foto dal film IOV di Alain Parroni

[questionIcon]I tuoi lavori nascono da una curiosa fusione di linguaggi: scultura, pittura, grafica, animazione. Stai definendo ancora la tua strada o sogni una sorta di rivoluzione dell’audiovisivo?

[answerIcon]Inizialmente ero accecato, come tutti, dall’amore per il cinema dei maestri. Quindi provavo a fare quello che avevo sempre visto fare agli altri. Poi con Adavede si è accesa la consapevolezza di essere nel Duemila, e in fondo c’è motivo di esistere anche nel 2017: devo dare un senso a questo. Giacometti voleva fare una scultura solo per sotterrarla e lasciarla trovare ai posteri, come testimonianza di un’epoca. Anche io avrò un tempo limitato per definire quello che ho attorno. Quindi sì, è la ricerca e insieme il bisogno di essere testimone del nostro tempo, del nostro cinema. La rivoluzione devi farla per forza.

[questionIcon]La tua idea di set è particolare: come lavori con la tua squadra? Pensi possa funzionare anche con realtà produttive più grandi?

[answerIcon]Con Macaroni ho iniziato occupandomi anche della fotografia, dei costumi, della scenografia. Ma ero circondato da assistenti e ho notato subito che tutti davano una pennellata indispensabile al quadro. Ho voluto mettere nei titoli di testa di Adavede le firme scritte di tutta la troupe: le persone con cui lavoro mi sono accanto già dalle prime allucinazioni; capita addirittura di andare a fare sopralluoghi per qualcosa che nemmeno ho scritto, e magari dalla foto del sopralluogo nasce una scena. Parliamo tantissimo di qualsiasi idea: a volte rimane solo il tormentone di una settimana, altre diventa una sceneggiatura. Herzog è stato un pilastro per me e per i miei colleghi della RUFA, ci ha ispirato nel portare avanti questo modo zingaro di impostare il set. Come adatterò tutto questo al cinema che c’è fuori? È una domanda ricorrente oggi, che mi pongono anche alcuni produttori. Spero di poter coinvolgere il mio team, ma comunque questo è il mio modo di lavorare, non potrei rinunciare al confronto. Se non riuscissi a far innamorare delle mie idee per primo il direttore della fotografia o lo scenografo, come potrei riuscirci con gli spettatori in sala?

foto dal film Macaroni di Alain Parroni

[questionIcon]Tu nasci come disegnatore per poi scoprire la regia. Qual è stato il percorso verso il cinema?

[answerIcon]All’istituto d’arte ho studiato fotografia, grafica e stampa, come incisione su lastra e linoleum. Grazie a un corso di animazione ho scoperto lo storyboard e il montaggio: piano piano ho capito che con tecniche miste potevo fare animazione anche con degli oggetti. Utilizzando una piccola compact ho iniziato a sperimentare e a creare degli ibridi, accorgendomi che mentre disegnavo ero anche costumista, direttore della fotografia, davo voce ai personaggi. Soprattutto la tecnologia mi permetteva di inserire dell’audiovisivo e ottenere effetti più realistici. Questa formula mi faceva impazzire… e all’istituto hanno iniziato a dirmi che quello era cinema.

[questionIcon]Nei tuoi lavori ci sono due motivi ricorrenti: lo “storicamente falso”, con cui ti appropri aggressivamente di grandi icone, e il fascino per l’immagine di repertorio.

[answerIcon]Bataille parla di una parete, nelle grotte di Lascaux, su cui gli uomini hanno disegnato per millenni. Io cerco di fare la stessa cosa, di mettere il mio segno sul muro. Per Macaroni sono riuscito a trovare i contatti dei pronipoti di Peruggia, ho letto tutta la sua corrispondenza con l’Italia. Per IOV ho studiato il materiale conservato nel Museo dell’Aereonautica di Vigna di Valle, una storia epica ma ignorata dai più. Come ognuno di noi, nascendo irrompo nella storia: così, partendo dalla documentazione, a un certo punto inizio a metterci me stesso. Se fossi stato analfabeta e alcolista nel 1900, di fronte a quell’immagine di donna rappresentata dalla Monna Lisa non mi sarei innamorato? Probabilmente sì. Ho sempre avuto il bisogno di proseguire il disegno sulla grotta e tenere vivo il dialogo con la storia.

[questionIcon]Come hai fatto con il tuo progetto di VR, Anywhere at home, presentato nel 2016 al designer canadese Karim Rashid.

[answerIcon]La differenza tra video e foto mi ha sempre messo in discussione. Non ho mai saputo scegliere tra queste due macchine del tempo: tra la potenza della memoria viva e l’altra immobile, fissata per sempre. Poi ho pensato che c’è una tecnologia, la VR, che mi permette di unire la fotografia al cinema, il mezzo più immersivo che esista. Così ho preso delle foto della mia famiglia, a partire da mia madre sedicenne nella sua camera da adolescente. E ancora, mio padre da ragazzo. Fino al loro incontro e alla mia nascita. Sono andato negli stessi luoghi in cui erano state scattate quelle fotografie, realizzandone delle altre a 360 con una situazione di messa in scena che mi aiutasse poi a ricostruire l’ambiente in 3D. Infine ho creato un visore di ceramica, un oggetto di design che si ispirasse alle nostre antiche culture, come contenitore di radici pesante e insieme fragile. Da quando ho visto La jetée ho capito che parlando di cinema parliamo davvero di memoria.

foto dal film Adavede di Alain Parroni

[questionIcon]Per i tuoi prossimi progetti ti stai muovendo in questa direzione?

[answerIcon]Sto scrivendo due lungometraggi per il cinema. Uno sfrutta la VR utilizzando pellicola e tecniche di animazione sperimentale. Stavolta sarà un atto d’amore nei confronti dell’immagine. Quando ho provato la VR per la prima volta è stato spontaneo aggrapparmi alla sedia, tant’era la suggestione di fronte al nuovo mezzo. Penso di aver capito la reazione del pubblico all’arrivo del treno dei Lumière: anche noi ora siamo nella fase dell’intrattenimento, dello stupore. L’altro progetto è pensato per il set: sarà un lavoro collettivo, quel “circo” che tanto mi diverte. Nasce da tutto quello che ho visto finora, un linguaggio iconico e pop, con un’estetica sporca e aggressiva. Vorrei che avesse l’eco di un proiettile audiovisivo.

[questionIcon]E da quale disegno nasce una storia così pop?

[answerIcon]Ho iniziato disegnando un’immagine sacra, poi mi sono accorto che era diventata una macchina scrostata dalla salsedine, con un rossetto rosso sul sedile e dentro Alex, Brenda e Kevin.

 

 

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Il mondo capovolto di “Era ieri”, il corto di Valentina Pedicini https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/il-mondo-capovolto-di-era-ieri-cortometraggio-di-valentina-pedicini/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/il-mondo-capovolto-di-era-ieri-cortometraggio-di-valentina-pedicini/#respond Sun, 30 Oct 2016 17:02:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3732 Un giorno, alla fine dell’estate, qualcosa si spezza, l’oggi diventa ieri, e noi dobbiamo farci forza per scoprire quello che verrà. Il mondo dell’infanzia, istintivo, senza sovrastrutture e senza necessità di dover(si) definire diventa il mondo dell’adolescenza, molto più complicato e cerebrale. Un mondo capovolto, quello dove si muovono i tre protagonisti di Era ieri, […]

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Un giorno, alla fine dell’estate, qualcosa si spezza, l’oggi diventa ieri, e noi dobbiamo farci forza per scoprire quello che verrà. Il mondo dell’infanzia, istintivo, senza sovrastrutture e senza necessità di dover(si) definire diventa il mondo dell’adolescenza, molto più complicato e cerebrale.

Un mondo capovolto, quello dove si muovono i tre protagonisti di Era ieri, cortometraggio di Valentina Pedicini, presentato alla 31esima Settimana Internazionale della Critica nel corso della scorsa Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ora in giro per i festival internazionali, e che passerà su Studio Universal (canale di Mediaset Premium) domani alle 20.40.

Valentina Pedicini, già apprezzata regista di documentari che raccontano di personaggi alla ricerca dello spazio per la loro femminilità (perché la femminilità che si discosta da quella definita dal patriarcato ha bisogno di essere rivendicata) e del loro destino, ci racconta di Giorgia (Giò) e Matteo, corpi diversi, stesso ruolo sociale, i capi di una banda di ragazzini pugliesi che si rincorrono sulla spiaggia e giocano con la serietà con cui si fanno le cose da adulti, che fanno tana libera tutti per poi scambiarsi una pistola.

«Una banda di delinquenti» come li definisce Paola, una ragazza arrivata su quella spiaggia da chissà dove per rovesciare il loro mondo.

Un coming of age di 15 minuti che ci racconta con pochissimi gesti la scelta di una bambina tra la fratellanza e il desiderio, la scelta di un’identità, la scelta di gettarsi in acqua e uscirne trasformata, di attraversare quel limite che separa l’infanzia dall’adolescenza, il nostro ieri dal nostro domani.

Un giorno, alla fine dell’estate, su una spiaggia, arriva l’amore e nessuno farci niente perché, come dice la stessa autrice «da grandi non si ama più come si ama quando si hanno tredici anni: forse di più, forse meglio. Ma mai più nello stesso modo».

Con immagini impeccabili e molto potenti, la regista lascia tutte le sue riflessioni al silenzio, al rumore del vento e agli sguardi dei giovani attori non professionisti che quei luoghi e quel mondo se lo portano veramente addosso e raccontano bene tutti i temi, tutta la sofferenza e tutta la realtà che esce con forza anche da questa breve prima opera di finzione. Poetico e surreale come un cielo di fine estate, quello che ci ricorda che il tempo dei giochi è finito e bisogna tornare a essere grandi, Era ieri ci riporta a un giorno qualunque del nostro passato, su una spiaggia vuota, quando guardando il mare abbiamo capito che era arrivato il momento di scegliere.

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