serie tv Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Tue, 30 Jan 2024 16:06:52 +0000 it-IT hourly 1 Silvia Clo Di Gregorio, dall’indie romano (che non esiste più) al Love Club https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/silvia-clo-di-gregorio-dallindie-romano-che-non-esiste-piu-al-love-club/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/silvia-clo-di-gregorio-dallindie-romano-che-non-esiste-piu-al-love-club/#respond Mon, 23 Oct 2023 15:22:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18765 Si è distinta nell’ambito della fotografia analogica, nell’arte contemporanea, nei video musicali e nella pubblicità. Silvia Clo Di Gregorio è nata a Verbania tra le Alpi e il Lago Maggiore, si è laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma, ha frequentato la Summer School in Filmaking alla Btk University di Berlino […]

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Si è distinta nell’ambito della fotografia analogica, nell’arte contemporanea, nei video musicali e nella pubblicità. Silvia Clo Di Gregorio è nata a Verbania tra le Alpi e il Lago Maggiore, si è laureata in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma, ha frequentato la Summer School in Filmaking alla Btk University di Berlino e un master in Advanced Cinematography a Milano, ma continua a studiare.

Spicca come regista nella scena videomusicale indipendente e l’abbiamo vista tutti sorridere e ballare nell’iconico videoclip Oroscopo di Calcutta, diretto da Francesco Lettieri. In qualità di sceneggiatrice, con Bex Gunther e Denise Santoro insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo ha creato Love Club, la serie in quattro episodi diretta da Mario Piredda e disponibile su Prime Video.

Parlami del tuo rapporto con la forma videoclip, che ha caratterizzato l’inizio del tuo percorso.

La musica è sempre stata familiare per me, a casa si suonava e si cantava sempre. Suonicchiavo anche io, non tanto bene, ma sapevo le basi. Inserirmi nel mondo del videoclip è stata una sfida continua, riuscire a creare con poco budget delle piccole storie, con scenografie fatte in casa, un approccio “do it yourself” che ha settato anche il mio stile. Anche se dovessi avere milioni di euro per il mio primo film [ride ndr], la scenografia sarebbe artigianale, legata a un mondo indie che mi appartiene, che mi ricorda un po’ il realismo magico di Julio Cortàzar e l’immaginario infantile che non mi ha mai abbandonato.

Di te si dice che fai parte di quella manciata di persone che hanno inventato la scena romana indipendente. A distanza di qualche anno, come è cambiata quella scena?

Alle Mura organizzavo Margarina, un evento mensile dove si esibivano donne musiciste, tra cui Laila Al Habash, Chiara Monaldi, Iruna, In.versione Clotinsky e tante altre. Vivevo a San Lorenzo e c’era davvero un bel giro tra lì e il quartiere Pigneto. Sapevo che era un momento florido per la musica e quindi anche per i videoclip, si respirava tanta libertà nella creazione artistica, e lo si può vedere sia dagli album usciti negli anni 2016-2017 sia nella regia dei videoclip di quel periodo. C’era una bellissima atmosfera, io facevo ancora gavetta per i più “grandi” come Motta, Thegiornalisti e iniziavo a fare regia o fotografia per i più “piccoli”, all’epoca i Pinguini Tattici Nucleari, Giorgio Poi e Frah Quintale, e c’erano amici e nuove voci come Galeffi, Vanbasten, Canova, Gazzelle, I Cani e tanti altri. La scena indie non esiste più, è stato un periodo molto breve, e lo dico non solo perché la maggior parte di loro lavorano con le major, chi come artista chi come autore o entrambe le cose, ma anche perché anche a livello di locali hanno chiuso davvero la maggior parte dei magici luoghi dove si suonava (e questo non vale solo per Roma, ma anche per Milano e altre città d’Italia).

Pollo all’ananas ’98 è il tuo primo cortometraggio: perché hai scelto di raccontare proprio una storia di immigrazione ambientata in un ristorante cinese di provincia?

Pollo all’ananas ’98 l’ho scritto a 25 anni, durante la pandemia. L’abbiamo girato a giugno 2022 in due giorni e mezzo a Torino, è stato prodotto da Cattive Produzioni e Spicy Storm Production con il finanziamento del Mic e della Piemonte Torino Film Commission. In realtà deve ancora uscire, siamo alla ricerca dell’anteprima per i festival. Come ogni primo corto, non è perfetto, ma quando lo guardo mi dà una gioia immensa. Anche questa storia è ispirata alla mia infanzia: siamo nel 1998 e i miei genitori, immigrati dal centro-sud al nord, sono tra i pochi che frequentano il ristorante cinese di Verbania. Per festeggiare la promozione di mia sorella siamo andati a mangiare cinese, insieme ai miei nonni. Questo ricordo è ovviamente solo l’ispirazione iniziale del corto, che prende una piega molto diversa, spingendosi verso un finale grottesco, ironico e artigianale, proprio nel mio stile.

Quale tabù ti piacerebbe infrangere sul grande schermo?

Immagino che per molti già Love Club è pieno di tabù che abbiamo infranto, nonostante non ci fosse nessun intento di sconvolgere. Sono convinta che i corpi di molte persone e le loro scelte di vita sono di per sé un tabù per tanti. Mi piacciono le storie contraddittorie, che non riflettono quello che ti aspetti, che ti risvegliano in qualche modo. Mi accorgo, soprattutto nei libri scritti da voci incredibili come La cronologia dell’acqua, La breve favolosa vita di Oscar Wao, L’interprete dei malanni o Denti bianchi (sono letteralmente gli ultimi libri che ho letto e che mi sono piaciuti), che hanno un fil rouge di autenticità e di arguzia, con storie vicine agli scrittori, spesso le loro, frutto di traumi e ferite.

Quanto credi che i trend, i social e le mode del momento influenzino il tuo lavoro e la tua estetica?

Ci sono dei trend che mi influenzano, ma allo stesso tempo mi distacco dal mondo social perché sono ossessionata da storie e personaggi che non hanno nulla a che fare con quello che va di moda. Da Bridget Jones a Pedro Infante passando per i mormoni e l’immigrazione cinese in Italia. Sono molto umorale e iperattiva, vado a fondo nelle storie, potrei starci anni. Mi piace riprendere quel baule dei travestimenti di quando ero piccola ed essere fluida anche nel mio modo di vestire, di essere, in base a quello che provo.

Com’è stato co-scrivere Love Club?

Quando Denise Santoro nel gennaio 2021 ha detto a me e a Bex Gunther che forse era arrivato il momento di metterci a scrivere una storia sulla nostra comunità, è stato tutto molto spontaneo, come se fosse ovvio, giusto e naturale. Vivevo in una mansarda a Bee, sopra il Lago Maggiore, in attesa che finisse la pandemia e con Bex ci incontravamo online una o due volte a settimana a scrivere. Abbiamo lavorato tantissimo sull’immaginario di ogni personaggio e del quinto protagonista che è il Love Club stesso, a livello visuale con moodboard, booklet, stili, gusti personali, ma anche sulla musica (c’è la playlist di Love Club su Spotify). Poi quando il progetto si è strutturato con Prime e Tempesta, abbiamo creato noi tre, insieme a Veronica Galli e Tommaso Triolo, una writer’s room meravigliosa. Ci hanno capito subito, e ci hanno aiutato a strutturare al meglio la serie in così poco tempo. In nove mesi abbiamo creato Love Club

Una cosa che si capisce dai tuoi lavori è che non imponi una visione ma ti poni in posizione di ascolto e poi guidi la visione che ti restituiscono le persone: in questo modo quello che crei risulta autentico. Cosa possono fare le nuove generazioni di creativi per restare fedeli al reale?

Hai centrato il punto. Non impongo la mia visione, ci arrivo e guido gli altri. Shi Yang Shi mi ha scritto un messaggio molto bello dopo il lavoro insieme su Pollo all’ananas ’98, ringraziandomi per la mia “morbida determinazione”. Questo per me è oro, creare delle connessioni tra regia e cast, capirsi, comunicare. Riguardo alle nuove generazioni, quello che dico sempre è di studiare tanto, c’è molto da apprendere e tantissimo da fare. Quindi bisogna partire da lì, io non ho mai smesso di studiare, vorrò farlo sempre. Ora sto prendendo un’altra laurea tra la mediologia e il cinema, approfondendo l’immaginario collettivo del cinema messicano.

Nei primi sei minuti della serie compaiono due scene di sesso. So che sul set c’erano degli intimacy coordinators: cosa pensi di queste figure, le userai sui tuoi set in futuro?

Abbiamo spesso ribadito con Bex e Denise quanto fosse importante avere un approccio autentico alla vita amorosa e sessuale della comunità. Abbiamo voluto presentare una coppia lesbica diversa dallo stereotipo delle butch, mostrare che le lesbiche fanno sesso e che va fatto vedere tanto quanto il sesso eterosessuale (lì legato al tema del consenso – nel terzo episodio). Gli intimacy coordinators sono essenziali, mi è capitato come assistente alla regia di finire tra turbini di imbarazzo, poca comunicazione e colpe assurde date alle costumiste (sono loro che forniscono le protezioni e i famosi “sacchetti”), perché mancava una persona che coordinasse. Per me il miglior modo di lavorare è la trasparenza, la comunicazione, il consenso.

Ti senti pronta per realizzare un lungometraggio o vuoi continuare il tuo percorso nella serialità?

Sto scrivendo il mio primo film, una sorta di rom-com molto indie e autoriale sulla storia di un uomo trans, dal titolo Golden Trans Boy. C’è anche qui molto di personale e molta ironia.

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Music supervisor: quelli che fanno la differenza nei film e nelle serie https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/music-supervisor-quelli-che-fanno-la-differenza-nei-film-e-nelle-serie/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/industry/music-supervisor-quelli-che-fanno-la-differenza-nei-film-e-nelle-serie/#respond Thu, 20 Jul 2023 13:43:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18607 Chi ha scelto quel brano per quel film? Chi ha riscoperto quella canzone in quella serie? Sono i music supervisor a settare il tono di una sequenza, accompagnare i personaggi, risolvere gli snodi narrativi. Prendiamo ad esempio la sigla d’apertura di Peaky Blinders. Ad accompagnare la famiglia di gangster degli anni ’20 nella fumosa Birmingham […]

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Chi ha scelto quel brano per quel film? Chi ha riscoperto quella canzone in quella serie? Sono i music supervisor a settare il tono di una sequenza, accompagnare i personaggi, risolvere gli snodi narrativi.

Prendiamo ad esempio la sigla d’apertura di Peaky Blinders. Ad accompagnare la famiglia di gangster degli anni ’20 nella fumosa Birmingham c’è la voce di Nick Cave: On a gathering storm comes a tall handsome man, in a dusty black coat with a red right hand, sembra scritto per l’occasione ma è un brano del 1994. Se la voce di Nick Cave e la scelta di brani moderni hanno dato identità alla serie creata da Steven Knight, Jen Malone ha studiato ogni canzone di Euphoria per farci sentire giovani e perduti con Mount Everest di Labrinth e You should see me in a crown di Billie Eilish. Mentre Nora Felder in Stranger Things ha lavorato incessantemente al suo revival anni ’80 con Should I Stay or Should I Go dei Clash e la virale Running Up That Hill di Kate Bush, nella colonna sonora di The Last of Us gli Wham cantano Wake me Up Before You Go-Go per avvertire i protagonisti che il pericolo è imminente. Tutte canzoni con un’innegabile tendenza verso gli anni ’80 e ’90 che, a seguito della messa in onda, hanno raggiunto ascolti record.

Un fenomeno che non riguarda solo le serie tv americane: quando Zero è uscita su Netflix Italia, era già chiaro che sarebbe stata una rivelazione a livello di soundtrack, dal brano dedicato di Mahmood alla presenza di Marracash, Emis Killa e Guè Pequeno. Oltre alla scena milanese, nella serie si possono sentire i Grizzly Bear, Lous and The Yakuza e FKA Twigs, una selezione a opera di Yakamoto Kotzuga (pseudonimo di Giacomo Mazzuccato). Si potrebbe fare un discorso simile per Strappare lungo i bordi di Zerocalcare con le musiche originali di Giancane (Giancarlo Barbati), autore anche del brano che fa da sigla: le scelte musicali vanno da Xdono di Tiziano Ferro a Libero dei Klaxon, gruppo punk italiano. Anche se cade – ma non è la sola a farlo – su due dei pezzi più inflazionati dalla serialità contemporanea: Wait degli M83 e The Funeral dei Band of Horses.  Anche Marco De Angelis music supervisor di Baby ha lasciato il segno con la perfetta Wasting My Young Years dei London Grammar e Torna a casa dei Måneskin, ma è soprattutto Prisma, la serie ideata da Ludovico Bessegato e Alice Urciuolo a settare un nuovo standard. La coppia di music supervisor Silvia Siano e Federico Diliberto Paulsen hanno delineato la colonna sonora più fedele in assoluto alle emozioni dei personaggi. Il primo brano non originale è You’re So Cool di Jonathan Bree al quale segue The more I cry della svedese Alice Boman, entrambe scelte dal sapore vintage pur essendo brani contemporanei, poi Tenco e Califano e l’opportunità data ai trentenni di crogiolarsi in Sere nere di Tiziano Ferro, ma anche No one knows me like the piano di Sampha che ci fa sentire dentro le vite dei protagonisti. Un lavoro che evidenzia quanto è cambiato il peso di una colonna sonora non originale all’interno della produzione seriale contemporanea.

music supervisor
Illustrazione: Mattia Distaso.

Non solo creare, ma anche scegliere un brano per una determinata scena non è affatto semplice: secondo la music supervisor di Grøenlandia Group, Eleonora Danese, «è importante sapere che non sempre la canzone più bella è quella più adatta. Fare music supervision non significa solo conoscere tantissima musica o avere buon gusto in materia, ma anche e soprattutto saper trovare il giusto incastro fra immagine e sonoro in contesti molto specifici». Ma la supervisione musicale non è un lavoro solitario, lo sottolinea bene Silvia Siano, music supervisor delle popolari serie-teen Prisma e Skam: «Le colonne sonore sono il frutto del confronto tra molte figure, cerco sempre di avere da chi segue la regia indicazioni generali sul tono musicale che si vuole ottenere. Chiedo di solito una playlist di reference da tenere presente e cerco di farmi indicare anche le motivazioni per le quali i vari brani vengono ritenuti interessanti, in modo da fare poi nel tempo proposte coerenti. Se cerco un brano per una scena o una sequenza specifica provo a indagare il ruolo che la traccia deve avere, i livelli del racconto che deve sottolineare, il modo in cui deve entrare in relazione con le immagini».

È quindi fondamentale bilanciare la creatività con le richieste dei produttori e dei registi: c’è chi parte dal brief e cerca di attenercisi il più possibile e chi crede che valga la pena rischiare e spingersi sempre un po’ oltre. Non è sempre facile, lo sa bene il music supervisor di Disney, Brian Vickers: «Come in ogni lavoro, ci sono sfide che si presentano spesso. Come supervisore musicale, tu sai cosa è nuovo, fresco, interessante e unico. Ma ci sono momenti in cui le persone con cui lavori non lo sanno. Inoltre, le cose spesso si muovono molto velocemente, quindi può essere stressante e impegnativo. Ma l’obiettivo è sempre dare il meglio e non perdersi nel processo». Una problematica che secondo Luca Thomas D’Agiout, compositore e produttore musicale, si amplifica nell’industria televisiva, in cui la flessibilità e la capacità di adattarsi possono rivelarsi un rischio: «La televisione è come una spugna, raccoglie e riutilizza voracemente tutta la cultura pop che la circonda e la alimenta. Trattandosi di un settore un po’ caotico il rischio è quello di cedere alla sensazione che la genericità possa rappresentare un vantaggio. Ma è esattamente l’opposto, acquisire e conservare una salda identità artistica sul lungo periodo è una mossa vincente, ti rende riconoscibile e associa il tuo nome a un prodotto musicale che davvero parla di te agli altri». 

Una volta trovata la canzone giusta inizia il faticoso lavoro per ottenerne i diritti. A volte la parte difficile è rintracciare chi li detiene, altre è convincere chi li possiede a concederli. L’empatia, il senso musicale e le capacità di convincimento non bastano, il music supervisor deve avere a che fare col budget, negoziare le tariffe, fare ricerca sul copyright. È tutto un grande incastro, specifica Silvia Siano: «Se mi si chiede un’idea su chi affidare una colonna sonora originale faccio riferimento alla mia rete di contatti con compositori e compositrici di talento. Nella ricerca di musica di repertorio uso il mio archivio personale, frutto di anni di ascolti e ricerche. Molto preziose sono poi le proposte dei miei interlocutori nell’editoria e nella discografia, con i quali porto avanti uno scambio costante, in modo da essere sempre aggiornata sulle novità musicali. Il rapporto di collaborazione e fiducia reciproca con gli operatori dell’industria musicale è fondamentale per ottenere informazioni necessarie a valutare se una proposta è realistica o se è meglio non portarla avanti. Se un brano non è licenziabile perché troppo costoso, perché prevede il coinvolgimento di troppi interlocutori o per impedimenti di qualunque tipo, è bene evitare proprio di presentarlo, per non correre il rischio che ci si affezioni a un’idea irraggiungibile». È un lavoro affascinante, ma è molto più complesso di come appare, anche secondo Eleonora Danese: «È facile immaginare che anche i lavori che dall’esterno sembrano più divertenti di altri, come potrebbe essere questo, comprendano mansioni un po’ meno divertenti – ahinoi, non passiamo la giornata a fare playlist! Però, credo sia proprio il doversi costantemente dividere fra creatività e praticità a rendere questo lavoro così interessante. Bisogna fare un sacco di calcoli, tenere a mente una marea di informazioni e comunicare con quasi tutti i reparti della casa di produzione, dall’editoriale al montaggio». È fondamentale riuscire a bilanciare creatività e collaborazione, anche per Brian Vikers: «Non importa con chi lavori, l’obiettivo è sempre “raccontare una storia”. La musica dovrebbe aggiungere non togliere all’esperienza narrativa. E anche se ciò può significare che molti hanno opinioni diverse, quando una cosa è buona e funziona il lavoro è soddisfacente e mette tutti dalla stessa parte».

Su tutto questo pesano i cambiamenti del mercato musicale, che fa sempre più affidamento sulle entrate che vengono dai permessi di copyright e utilizzo.  Secondo Luca de Gennaro, VP Talent & Music di Paramount Global, la figura del music supervisor è cambiata molto nel tempo: «Negli ultimi vent’anni i music supervisor sono diventati le figure professionali più efficaci per decretare il successo dei brani, sia nuovi che di catalogo, basta osservare i casi di Kate Bush e dei Cramps nel 2022, con canzoni vecchie di quarant’anni che sono ridiventate successi globali perché inserite in scene chiave di serie tv. Oggi, nell’era dello streaming, un music supervisor può e deve fare la differenza».

Le differenze con cui operano compositori e supervisori ne influenzano la visione d’insieme: i primi lavorano spesso sul momento, si concentrano sulla scena e le emozioni, mentre i supervisori hanno un’idea più completa degli archi narrativi, ma le loro visioni finiscono per convergere. La presenza di un music supervisor in ogni caso è, secondo D’Agiout, un valore aggiunto, perché «è una sorta di mediatore culturale in grado di cogliere le opportunità che derivano dalla musica e renderle più comprensibili a chi dovrà utilizzarle, editor, registi ed altre figure coinvolte. Ce ne vorrebbero tanti di più sul mercato, sono figure rare e preziose, in grado di alzare l’asticella del valore percepito di un’opera audiovisiva».

Eppure per l’industria dell’audiovisivo il supervisore musicale è ancora una figura ai margini, in corso d’evoluzione. O meglio, una figura di “raccordo”, come la definisce Silvia Siano: «Oggi siamo in pochi e veniamo da percorsi molto diversi. In futuro probabilmente il ruolo diventerà più istituzionalizzato, la formazione si uniformerà, l’integrazione nelle dinamiche produttive diventerà più naturale. C’è inoltre da considerare che le piattaforme di streaming oggi vengono in possesso dei diritti delle musiche originali delle loro produzioni, entrando quindi a pieno titolo nel mondo dell’editoria musicale e della discografia. Sicuramente questo comporterà ulteriori cambiamenti». L’argomento più spinoso resta il budget, come conferma Luca De Gennaro: «In questo lavoro l’unica regola è che non ci sono regole. I budget sono estremamente variabili, se sei bravo puoi riuscire ad avere brani storici a prezzi ragionevoli, ma puoi anche incontrare difficoltà enormi su operazioni che ti sembravano semplici. Poi quando vediamo film come Air – Il grande salto, con tutte quelle canzoni famosissime e perfettamente utilizzate che la music supervisor Andrea Von Foerster è riuscita a ottenere, la prima cosa che ci viene in mente è “pensa che budget aveva a disposizione, beata lei!”».

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Spoiler! Serie tv e antropologia da divano https://www.fabriqueducinema.it/serie/spoiler-serie-tv-e-antropologia-da-divano/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/spoiler-serie-tv-e-antropologia-da-divano/#respond Thu, 10 Mar 2022 09:54:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16898 Le serie hanno ormai un ruolo importante nella nostra esperienza di spettatori. Abbiamo visto tutti almeno una serie, e molti di noi si sono trovati a finire una stagione tutta d’un fiato per sapere come va a finire, quasi in preda a una specie di dipendenza. Possono, però, le serie farci riflettere e discutere su […]

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Le serie hanno ormai un ruolo importante nella nostra esperienza di spettatori. Abbiamo visto tutti almeno una serie, e molti di noi si sono trovati a finire una stagione tutta d’un fiato per sapere come va a finire, quasi in preda a una specie di dipendenza. Possono, però, le serie farci riflettere e discutere su temi sociali importanti? Sono o non sono uno specchio della nostra contemporaneità?

Lo abbiamo chiesto a Elena Garbarino e Mara Surace, due brillanti scrittrici genovesi, che nel loro libro Spoiler! Serie TV e giustizia sociale appena uscito da Meltemi, portano lo sguardo antropologico su molte celebri serie internazionali. Un pretesto per analizzare alcuni tra gli argomenti più urgenti e attuali del nostro tempo, tra cui la costruzione dell’identità, la rappresentazione della diversità e lo spaesamento dell’individuo postmoderno. Orange is the new black, Derry Girls, Sex Education e Vida sono solo alcuni dei titoli citati nel loro libro.

Come nasce l’idea di applicare l’antropologia contemporanea alle serie?

Elena: In realtà è nato un po’ per caso, ci capitava spesso di confrontarci sulle serie e fare dei raffronti con quello di cui avevamo parlato a lezione. Ci siamo dette che sarebbe stato figo usarle come spunto per parlare di questioni che possono essere ricondotte all’antropologia. Le serie sono utili perché le vedono tutti, chiunque dopo la fine di una stagione ne parla e discute con amici e parenti. Per questo motivo abbiamo voluto aggiungerle alla cassetta degli attrezzi dell’antropologo.  Sono utili per tutti coloro che cercano una rappresentazione che non è nei media tradizionali, uno sguardo su altre culture.

Quali serie possono essere dei buoni spunti di riflessione su tematiche sociali importanti?

Elena: Per quanto riguarda l’importanza della rappresentazione, sicuramente Pose. Nell’ultimo episodio, Blanca, Elektra, Angel e Lulu si incontrano per pranzo e parlano dei successi che sono riuscite ad ottenere. La ballroom ha avuto un ruolo fondamentale nella loro crescita, poiché lì sono finalmente riuscite a esprimere loro stesse senza limitazioni e imposizioni per poi ottenere risultati nel mondo “reale”. Emerge quindi l’importanza di avere un luogo, fisico o narrativo, dove potersi autorappresentare senza subire continuamente la narrazione altrui. Se invece parliamo di temi come l’ambiente e la sua protezione, è interessante notare come spesso vengano percepiti, nella quotidianità, come distanti e slegati dalle dinamiche di potere, sia nelle loro cause che nelle loro conseguenze. The Mosquito Coast mostra invece come la narrazione del progresso, industriale e tecnologico, sia una costruzione del capitalismo, che si autoalimenta nella sua necessità di consumo. In Snowpiercer, poi, la medesima narrazione portata al suo estremo causa l’annientamento della vita umana come la conosciamo, ma non delle sue sovrastrutture, come le classi sociali e i privilegi.

Mara: Sex Education, invece, è stata un ottimo spunto per analizzare una società patriarcale e androcentrica. Analisi che abbiamo sviluppato attraverso studi e opere come Il dominio maschile di Bourdieu, La città femminista di Kern e le opere di Françoise Vergès.

serie The Mosquito Coast
The Mosquito Coast.

Perché proprio le serie tv? Quanto ci rappresentano?

Elena: Può sembrare un argomento leggero, ma in realtà sono lo specchio di quello che viviamo. E poi ci sono temi più sentiti in certe parti del mondo: ad esempio il razzismo o la realizzazione individuale negli Stati Uniti o al tema ambientale nel Nord Europa. Sicuramente in questo momento le esigenze del pubblico spingono le produzioni delle piattaforme a proporre uno sguardo più aperto, a progredire nelle loro proposte di rappresentazione e a dare agli spettatori quello che cercano.

Mara: Il cinema o le serie, però, sono legate al mercato. A volte mi chiedo se il fatto di aprire la rappresentazione della società in modo più equo sia spinto dalla volontà di ampliare e rendere più giusta la narrazione, o se invece sia semplicemente la necessità di attirare un preciso target di persone. A quel punto si finirebbe con lo sfruttare chi è già sfruttato. Vedersi finalmente rappresentati sullo schermo, per tutti coloro che fino a ora non lo sono mai stati, è potente. Può essere una forma di accettazione e liberazione personale, ma spesso questo bisogno viene sfruttato per fare soldi. Una rappresentazione sbagliata, inoltre, può essere dannosa. Se penso a serie italiane mi viene in mente Zero, la prima serie nazionale con tutti i protagonisti afro-discendenti, in cui però la stereotipizzazione è imbarazzante. Non sono stati creati personaggi tridimensionali, reali, sono semplicemente stati sostituiti i personaggi bianchi con dei personaggi neri.  

Qual è stato il vostro intento scrivendo questo libro? A chi vi rivolgete?

Mara: Speriamo che Spoiler! possa dare spunti per approfondire le questioni sociali affrontate. Non ci piace ciò che è scritto in maniera complicata, per questo abbiamo cercato di rendere in modo semplice cose complesse. Se siamo riuscite a catturare la sua attenzione, chi legge avrà magari voglia di cercare più informazioni e documentarsi. Ad esempio, parliamo dell’abolizione delle carceri facendo riferimenti anche a Orange is the new black. Ecco, mi piacerebbe che possa essere uno spunto per poi approfondire il tema con i libri di Angela Davis.

 

 

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Blanca: anatomia di una serie di successo (e perché poteva non esserlo) https://www.fabriqueducinema.it/serie/blanca-anatomia-di-una-serie-di-successo-e-perche-poteva-non-esserlo/ Tue, 30 Nov 2021 13:35:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16520 Non sappiamo dove arriverà Blanca. Se diventerà uno dei prodotti di punta di Rai Uno e Rai Fiction, se conquisterà anche il pubblico estraneo alla tv generalista, se proseguirà per altre venti stagioni sostituendosi a Don Matteo. Ma oggi, nel pieno del suo debutto e a ridosso del finale di stagione, il fenomeno merita d’essere […]

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Non sappiamo dove arriverà Blanca. Se diventerà uno dei prodotti di punta di Rai Uno e Rai Fiction, se conquisterà anche il pubblico estraneo alla tv generalista, se proseguirà per altre venti stagioni sostituendosi a Don Matteo. Ma oggi, nel pieno del suo debutto e a ridosso del finale di stagione, il fenomeno merita d’essere osservato da vicino per una serie di elementi che, se contestualizzati nel contenitore Rai e in relazione al target di riferimento, indicano un (elettrizzante) cambiamento in corso. 

Il look 

Da subito Blanca si è caratterizzata attraverso i costumi della protagonista, a cura di Monica Saracchini e Angelo Poretti, con un look che rimanda felicemente allo stile comic. Blu elettrico, giallo fluo, rosso e verde sono dominanti nell’abbigliamento di Blanca, mentre il cinturone sempre presente definisce la silhouette e l’armatura di Giannetta, collocandosi nel tradizionale fetish del ‘vitino a vespa’ che ha popolato la narrazione femminile e le sexy villain del fumetto americano. 

Lo stile pop della serie si impone poi con una color correction estremamente satura e irrealistica per il gusto abitudinario della prima serata Rai (virando spesso anche sui toni del verde e strizzando l’occhio al Teal&Orange). Il comun denominatore è proprio la costruzione di un mondo visivo che orbita attorno a un’eroina della porta accanto, la cui cecità si trasforma quasi in un superpotere. Con tutte queste scelte Blanca opta per un biglietto da visita che potrebbe disturbare il suo target, e invece piace (se lo share non è un’opinione). 

Bando alla noia 

Dal modo in cui avrebbero raccontato la cecità di Blanca, si giocava invece buona parte della riuscita della serie. La regia firmata da Jan Michelini e Giacomo Martelli trova l’incontro armonioso tra il fine educativo (strutturando e decostruendo gli ambienti dal punto di vista di una non vedente e portandoci a immedesimarci nella disabilità della protagonista) e una chiave decisamente accattivante. Senza inciampare in soporiferi spiegoni pietisti, il mondo buio di Blanca trova un linguaggio fumettistico, vivace e dissacrante. 

L’olofonia 

Due tecniche su tutte risultano particolarmente interessanti: l’olofonia e l’uso del buio. Blanca è infatti la prima serie ad utilizzare totalmente la tecnica di Audio Immersivo dell’olofonia, che esplora lo spazio sonoro a 360°. Essenziale il lavoro sperimentale in fase di presa diretta sul set (ad opera del fonico Roberto Sestito, del microfonista Leonardo Giambi e di una lunga serie di assistenti e sotto-unità), completato poi da una fase di post-produzione e mix altrettanto raffinata e rischiosa (con Marco Giacomelli e Matteo Lugara). 

Perché è così centrale il merito d’aver utilizzato l’olofonia? Perché è una novità. Perché ci restituisce, se ascoltata in cuffia, una riproduzione del suono vicinissima a quella registrata dall’apparato uditivo umano. E dunque facilita l’identificazione con Blanca (non vedente), sostituendosi a un’ipotetica soggettiva e diventando una sorta di punto macchina sonoro. E poi perché è un’invenzione italiana risalente agli anni Ottanta, che ha richiesto non poca fatica in fase di lavorazione: qualcosa di cui vantarci, dunque. 

L’uso del buio 

Un discorso che si replica nel modo in cui Blanca sperimenta le possibilità tecniche offerte dall’ovvia dicotomia cecità-buio. La regia propone infatti una ‘stanza nera’ che, all’occorrenza, isola Blanca dalla condizione dello spettatore vedente, ponendolo insieme alla protagonista in un non-luogo che si popola poco a poco delle percezioni sensoriali di Blanca. Ogni indizio uditivo e percettivo che lei acquisisce muovendosi nello spazio, si trasforma in vfx e inizia a riempire la stanza nera. Noi siamo con lei. 

Struttura verticale ma godibile

Questo diventa inevitabilmente anche un punto a favore della struttura verticale della serie, che segue comunque lo standard episodico ancora caro alla Rai, dove la narrazione ruota attorno ai vari omicidi da risolvere ogni puntata. Ma se un caso che potrebbe annoiare viene risolto dalla lente della cecità di Blanca, con il gusto dell’olofonia, della stanza nera e del décodage (tecnica in cui la protagonista è specializzata), anche il crimine di puntata scorre in modo godibile. E per noi non si traduce solo in un polpettone riscaldato da buttar giù nell’attesa che succeda qualcosa d’interessante, ma diventa una sfida condivisa. Insomma: non ci interessa scoprire il colpevole, ma come Blanca arriverà a scoprirlo. 

Patrizia Rinaldi e Maria Chiara Giannetta 

E qui chiudiamo, last but not least, con la coppia Rinaldi-Giannetta. Alla prima va il merito di aver creato il personaggio dei romanzi noir da cui la serie è tratta, alla seconda va quello di interpretarlo con tutto il piglio, l’ironia e la verve necessaria. Perché Blanca è un personaggio fortemente caratterizzato, e non solo dalla sua condizione di cecità (niente da invidiare ad alcuni piattissimi e stereotipati protagonisti Netflix). Ha i vizi, i difetti e le sfumature di una persona a cui possiamo affezionarci in fretta: odia cucinare, è spocchiosa, pensa al sesso, è una fanatica orgogliosa dell’umorismo nero. E, vero colpo di scena, è sexy. Non è solo una vittima, ma anche una giovane donna che sa di poter piacere. In sintesi, Blanca possiede quello di cui ha bisogno un buon personaggio: è ben scritto e recitato anche meglio.

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Strappare lungo i bordi: Zerocalcare alle prese con il senso (ironico) della vita https://www.fabriqueducinema.it/serie/strappare-lungo-i-bordi-zerocalcare-alle-prese-con-il-senso-ironico-della-vita/ Mon, 15 Nov 2021 08:32:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16383 E se le persone fossero costituite da un insieme di fogli impilati, di quei fogli di quando si stava alle elementari e si doveva ritagliare seguendo lungo la linea, lungo i bordi, senza sbagliare, perché poi non si poteva rimediare allo strappo? Se tutti gli altri riuscissero a seguire bene quelle istruzioni, mentre noi invece […]

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E se le persone fossero costituite da un insieme di fogli impilati, di quei fogli di quando si stava alle elementari e si doveva ritagliare seguendo lungo la linea, lungo i bordi, senza sbagliare, perché poi non si poteva rimediare allo strappo? Se tutti gli altri riuscissero a seguire bene quelle istruzioni, mentre noi invece vagassimo senza sapere cosa vogliamo nella vita? Ragionandoci, ci rendiamo conto che alla fine «è dal tempo degli antichi Greci che l’uomo se domanda se è meglio conoscere l’ignoto col rischio che sia un accollo o rimane’ nell’ignoranza, dove però nessuno te caga il cazzo».

Questa è la premessa della nuova miniserie disponibile dal 17 novembre su Netflix: Strappare lungo i bordi, ideata da Michele Rech, alias Zerocalcare (qui, a pag 10, una nostra intervista agli esordi). Prodotta da Movimenti Production in collaborazione con BAO Publishing, questa miniserie italiana (dalla forte risonanza internazionale) nasce dopo il successo raggiunto dall’artista romano durante i lockdown con i suoi corti trasmessi a Propaganda Live Rebibbia Quarantine. Così, collaborando nuovamente con Valerio Mastandrea (come in La profezia dell’armadillo, presentato nella sezione Orizzonti alla 75esima Mostra internazionale d’arte cinematografica del cinema di Venezia), Zerocalcare ha incorporato lo stile delle pillole (ogni puntata dura tra i 15 e i 20 minuti) in una struttura più compatta, costruendo un mosaico ricco e complesso al di fuori delle Mura romane.

Se infatti le opere di Michele Rech hanno da sempre avuto come sfondo la cultura capitolina (basti anche pensare al suo minicorto su Instagram, sul perché il carciofo fosse il male, o al suo accento che non nasconde le flessioni del romanaccio), i temi che decide di trattare e il modo in cui lo fa non possono non ritrovare un riscontro emotivo su un pubblico molto più ampio, com’è ancora più evidente nella miniserie.

Strappare lungo i bordi
Un’immagine da “Strappare lungo i bordi”.

In un racconto costellato di flashback e aneddoti che spaziano dalla sua infanzia, a lezioni di storia e filosofia, fino ai problemi di tutti i giorni, Zerocalcare tratteggia un percorso fatto di pochissime certezze, ma che proprio grazie a questo lascia un forte impatto nello spettatore. Lo stile è sempre quello, il suo marchio di fabbrica, la sua capacità di costruire un pensiero acuto e profondo, per poi catarticamente ironizzare su ciò che ha appena detto, decostruendolo con citazioni di ogni tipo.

Seguendo la caratteristica voce a macchinetta del fumettista, in ogni puntata lo spettatore viene catapultato in un pastiche di eventi, ricordi e considerazioni, che, oltre a non marcare nettamente la distinzione tra personale e universale (come lo spezzone sulla spinosa questione del “visualizzato” o dell’”online” su Whatsapp), si incastrano, come dei tasselli, con elementi della cultura mondiale.

Si parte da citazioni più implicite, come le strade di Roma di notte che ricordano La notte stellata di Van Gogh (non a caso la scena successiva, ambientata in un museo con L’urlo di Munch, illustra in décadrage proprio il dipinto del pittore olandese), o Le follie dell’Imperatore, quando Zerocalcare manda avanti e indietro l’episodio, per spiegare le parole del suo amico Secco al pubblico, o Tim Burton, di cui riprende lo stile anche visivo nell’illustrare il suo primo fumetto; per arrivare a quelle più esplicite, dalla Seconda Guerra Mondiale, all’abisso di Nietzsche (citazione mainstream sui social), ad Achille e la tartaruga che, tra black humor e dura consapevolezza, servono ad abbozzare il discorso della linea tratteggiata che dà nome e sostanza all’intera miniserie.

Strappare lungo i bordi è questo che dona: tantissimi momenti di distrazione e battute (come la legge del maschio contemporaneo, che con il femminismo non può più neanche lamentarsi del Vietnam a cui è costretto quando deve andare in un bagno pubblico), a cui seguono repentine strette al cuore. E tu, spettatore, vieni immerso in una tempesta, in un turbinio di ironia e consapevolezza in cui sembra che il fumettista romano stia parlando proprio di te e inizi a osservare meglio quel foglio strappato male, cadendo nel nero.

Numerosi sono i “neri” presenti nelle pillole di questa miniserie. Neri metaforici e neri visivi. In uno di questi ultimi echeggiano le parole della canzone Non abbiam bisogno di parole di Ron: «Non abbiam bisogno di parole per spiegare quello che è nascosto in fondo al nostro cuore». E insomma, alla fine, se bisogna descrivere l’esperienza (perché parlare di visione è troppo limitato per un prodotto del genere) di Strappare lungo i bordi basterebbe ciò, basterebbe sapere che è quel qualcosa che ci permette di spiegare quell’area buia dentro di noi. La miniserie di Zerocalcare è sicuramente qualcosa da non perdere, capace di farti ridere, riflettere e, infine, farti sentire meno solo e incasinato, dandoti risposte senza accennarne nemmeno una.

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Luna Park, un mondo magico tra passato e futuro https://www.fabriqueducinema.it/serie/recensioni-tv-serie-tv/luna-park/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/recensioni-tv-serie-tv/luna-park/#respond Tue, 28 Sep 2021 12:00:39 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16144 Luna Park inebria lo spettatore fin da subito. Lo avvolge in un mondo, tra giostre, fiabe e realtà, che ricorda il cinema di un tempo, con un piede, però, nel futuro. Composta da sei episodi, già nel primo notiamo la forza sprigionata da questa magica ambiguità, che si mostra fin da subito dalla scelta della […]

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Luna Park inebria lo spettatore fin da subito. Lo avvolge in un mondo, tra giostre, fiabe e realtà, che ricorda il cinema di un tempo, con un piede, però, nel futuro. Composta da sei episodi, già nel primo notiamo la forza sprigionata da questa magica ambiguità, che si mostra fin da subito dalla scelta della musica: dalle note swing di Pencil Full of Lead di Paolo Nutini, fino al rock contemporaneo di un brano come Dog Days Are Over di Florence + The Machine. E l’incantesimo della nuova serie italiana Netflix non si ferma qui, ma procediamo svelando una carta alla volta.

Luna Park è la nuova serie italiana originale, ambientata nella Roma degli Anni ’60, in uscita il 30 settembre su Netflix. Ideata da Isabella Aguilar e diretta da Leonardo D’Agostini e Anna Negri.

L’intreccio tra generazione passata e nuovi giovani

Sullo sfondo della Roma de La dolce vita, Isabella Aguilar, showrunner e sceneggiatrice della serie, colloca Nora e Rosa, una giovane giostraia e una ragazza della Roma bene, che andranno a far intrecciare le rispettive famiglie. Si apre così una trama che mischia da misteri e intrighi alla ricostruzione chiara e limpida di un’epoca sfarzosa e piena di luci, capace, con l’interiorità dei propri personaggi, di unire diverse generazioni. Nell’immaginario vintage accentuato dai costumi, dalla fotografia, dai dialoghi calzanti e ritmati quanto una partita di tennis, le protagoniste ricalcano un vissuto facilmente riconoscibile dai nuovi giovani.

Nuovi giovani che, grazie a Luna Park, vengono immersi in uno spettacolo nuovo nel clima culturale seriale e/o cinematografico italiano. Prendendo in prestito il ritmo spumeggiante di una miniserie come Hollywood di Ryan Murphy, il tutto è mixato a un contesto genuinamente italiano, che vede rimescolare anche nuove generazioni attoriali, come Lia Grieco nei panni di Rosa, ad altre già consolidate ma in ruoli non meno importanti, come Paolo Calabresi che interpreta Tullio Gabrielli.

Luna Park
Una scena tratta da “Luna Park”

La nuova serialità di Luna Park

Il gioco è sempre lo stesso, per ogni reparto tecnico: un’abile tessitura tra innovazione e il casalingo. La recitazione esce dagli stereotipi attoriali delle piattaforme multimediali ma allo stesso tempo, però, ricalca lo stampo teatrale tipico del clima italiano. Il gusto fresco di trame dal respiro più internazionale, s’interfaccia con il ricordo dei film che un tempo rendevano il nostro panorama cinematografico invidiabile in tutto il mondo. La maestria della serie sta proprio nella sua capacità di intessere queste due anime, con semplicità, senza svelarne l’artificio. La stessa regia, di Leonardo d’Agostini e Anna Negri, tra particolari piani sequenza e tagli più classici, evidenzia la fluidità dell’intera operazione, schioccando come in un numero di magia, in cui, attratti dal sorriso splendente dell’assistente, non ci rendiamo conto di alcun trucco.

Con Luna Park la serialità italiana fa segno in un mondo del tutto nuovo. Un mondo che ti fa sentire mancanza di un futuro, fremendo sul divano in attesa di nuovi prodotti del genere. Impazientendo come i giovani degli anni Sessanta di fronte alle prime magie del mondo circense. Fremendo come Nora e Rosa, nel tentativo di incamminarsi dentro un percorso che va oltre ogni possibile immaginazione, ma che riporta con sé quel fragrante e caldo odore di casa. Il profumo, appunto, di un passato che apre le porte a un luccicante futuro.

 

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Mauro Vanzati, scenografo di “Anna”: «Leggi e pensi: non ce la faremo mai. Poi ce la fai» https://www.fabriqueducinema.it/serie/mauro-vanzati-scenografo-di-anna-leggi-e-pensi-non-ce-la-faremo-mai-poi-ce-la-fai/ Tue, 04 May 2021 10:19:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15518 «Quanti anni di vita hai perso?». «Incalcolabili. Sono contentissimo, la rifarei domani. Però cazzo, ho sputato sangue. È stata una serie infinita, mantenere sempre alta la tensione è stato faticoso. Ho i capelli bianchi». Dopo un anno e mezzo, una pandemia e l’esordio su Sky, ad Anna di Niccolò Ammaniti bisognerebbe dedicare un workshop a […]

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«Quanti anni di vita hai perso?». «Incalcolabili. Sono contentissimo, la rifarei domani. Però cazzo, ho sputato sangue. È stata una serie infinita, mantenere sempre alta la tensione è stato faticoso. Ho i capelli bianchi». Dopo un anno e mezzo, una pandemia e l’esordio su Sky, ad Anna di Niccolò Ammaniti bisognerebbe dedicare un workshop a parte.

Siamo di fronte a una prima stagione in 6 episodi che potrebbe essere anche l’unico capitolo di questo mondo post-apocalittico dominato dai bambini. Ma che è senz’altro il racconto di un visionario attraverso una narrazione spietata e nuovissima: Anna si concede tutto. E gli addetti ai lavori devono confrontarsi con un’asticella che alza inesorabilmente il livello della qualità. Nessun reparto escluso, ma alcuni su tutti. A partire da Mauro Vanzati, scenografo della serie: «Quando ho rivisto Anna mi sono forzato: ho voluto abbandonarmi e dimenticare tutto il dietro le quinte. Anche il mio lavoro. Ma non so se ci sono riuscito davvero, sai?».

Anna sembra un po’ il sogno e l’incubo di ogni scenografo.

L’ho vissuta esattamente così. Dal momento in cui il progetto ha iniziato a concretizzarsi mi dicevo: «Ma come si fa a fare ’sta roba?». Niccolò ha una fantasia incredibile ed essendo uno scrittore ha descritto molto precisamente quello che voleva andare a girare. È anche vero che poi le scene cambiavano in corsa un milione di volte, era un continuo lavorare per correggere gli errori e addrizzare il tiro.

Ma come è andata? Ti arriva una telefonata per fare la serie, e tu…?

In realtà è tutto iniziato a seguito di un incontro con Niccolò, che ha conosciuto anche molti altri professionisti, e forse io non ero il primo della sua lista. A livello di curriculum non avevo alle spalle un progetto così grosso e impegnativo.

Tante maestranze e capi reparto della serie non avevano alle spalle un progetto così grosso e impegnativo.

È stata una precisa volontà di Niccolò. Ha scelto le persone dopo averle provinate e aver stabilito se c’era da parte nostra una risposta e una proposta ai suoi input. Per quanto mi riguarda, dopo una chiacchiera iniziale gli ho portato un po’ di lavori grafici su alcune idee e spunti per il film, e abbiamo iniziato a interagire sempre di più. Ha visto che c’era un dialogo che sembrava fertile e ha deciso di affidarmi il progetto.

Uno schiaffo al sistema: sei balzato direttamente a un livello altissimo.

È assurdo ma è esattamente così. In qualche modo devi guadagnarti la patente per poter essere abile a fare cose di un certo livello, ma paradossalmente questa patente non te la guadagni mai se non ti fanno fare cose di un certo livello. Niccolò invece mi ha dato fiducia e avrei fatto fatica a fare questo step di carriera se non fosse stato per la sua scelta di impostazione del lavoro.

anna-serie-ammanniti
Giulia Dragotto è Anna.

Qual è stato il grande mantra fra te e Niccolò fin dall’inizio?

Una delle prime cose che Niccolò mi ha detto è che voleva usare il meno possibile i visual effects: mi rende orgoglioso che gran parte di quello che si vede nella serie sia stato effettivamente allestito in scena. I VFX sono pazzeschi e si integrano benissimo, ma tutto il sapore della serie in realtà è affidato proprio all’allestimento. Siamo ricorsi agli effetti speciali solo di fronte alle situazioni impossibili: penso al ponte crollato, ai totaloni o ai droni su Palermo devastata.

Anche a Piazza Pretoria a Palermo [detta anche Piazza della Vergogna, nda] avete allestito davvero tutto quel caos?

L’abbiamo fatto. Con molta attenzione e rispettando i limiti, ma l’abbiamo chiusa e lavorata il giorno prima delle riprese per poi devastarla davvero. Immondizia, water rotti sulle scale e allestimento fisico; solo le scritte sulle statue sono ovviamente VFX.

Guardando la serie ho avuto l’impressione che vi siate divertiti facendo un po’ quello che volevate. Senza limiti. Dall’allestimento alla regia, alla narrazione in sé. Invece?

Invece è stata come sempre un po’ una lotta su tutto. Niccolò quelle cose le ha scritte, ma magari ci si aspettava un compromesso da parte sua. Invece no, voleva davvero girarle così, e tante ce le siamo conquistate un passettino alla volta. Quello che mi ha sorpreso, guardando il prodotto finito, è che le volontà di Niccolò erano fondamentali nella narrazione e per far passare tutto quel sentimento. Non è facile capirlo mentre ci sei immerso, ma non ci sono scelte pretestuose e questo è raro. In realtà Niccolò segue un grande rigore e l’ha imposto a tutti.

Quante persone hai potuto avere in reparto?

Di base eravamo una decina, tra preparazione, set e arredamento. Però all’occorrenza aumentavamo esponenzialmente, soprattutto nel numero di manovali. Siamo arrivati anche ad essere 45 persone insieme. I nostri allestimenti erano quasi tutti lunghi e quindi si accavallavano spesso, è capitato di avere cinque set aperti nella stessa giornata, anche quando in Sicilia è scattata una doppia unità.

L’incubo dello scenografo è sempre l’organizzazione del budget: com’è stato per te gestirlo su un progetto così grande?

Inizialmente ero spaventato, erano numeri che non avevo mai dovuto gestire e avrei potuto far cappottare la Wildside! Devo dire che alla fine è stato abbastanza semplice, sono stato veramente aiutato dalla produzione e da Erik Paoletti, un organizzatore molto forte che aveva chiarissimo cosa andavamo a fare. Siamo anche riusciti a rispettare gli accordi iniziali, e lì invece potevo aver sparato un azzardo.

Quand’è che hai percepito davvero la portata del progetto?

Non tanto nel confronto con il budget, perché comunque è stato un lavoro faticoso e il punto era sempre alzare l’asticella. Ma il fatto è che non ho mai visto un vulcano di creatività in perenne evoluzione come Niccolò: a un certo punto sembrava Giochi senza frontiere. Credo che Anna funzioni per questo: ciò che è visto comunemente come un mondo devastato e abbandonato, qui ha su di sé uno strato di fantasia dei bambini che è potentissimo e clamoroso. Diventa pura narrazione.

Le tre grandi sfide che avevi di fronte, a mio avviso, erano lo scenario post-apocalittico distopico, la natura selvaggia e la demolizione costante dell’ambiente.

Assolutamente sì. La prima vera grande sfida poi era cercare di non replicare un cliché. Potresti trovare la chiave per realizzare un posto abbandonato e riproporla a nastro, portandola a casa ogni volta. Ma non era possibile: scenografia e allestimento erano già scritti in sceneggiatura come un racconto. Su ogni ambiente dovevamo fare un lavoro diverso, una narrazione costante. E allora dovevamo chiederci cosa potesse essere successo a un luogo dopo quattro anni, dove potesse tornare a spuntare la natura, dove potesse esserci un degrado o un passaggio depredato dai bambini? La scenografia era parte attiva della storia.

anna la serie di ammanniti
Anna e Astor al Podere del Gelso.

Sembra quasi uno spoglio psicologico della sceneggiatura. Il disordine è uno degli aspetti che mi ha colpito di più: non è mai cinematografato ma sempre realistico. E poi è un disordine dei bambini e non degli adulti.

Lo è. Soprattutto per il Podere del Gelso, la casa di Anna e Astor. Abbiamo anche visto dei documentari su degli esperimenti sociali: cosa succede nel momento in cui dei bambini rimangono da soli, senza il controllo dei genitori? Che tipo di spazzatura, rifiuti e avanzi si formano in questa casa e per quale motivo? Quello è stato il racconto principale. Non c’è più elettricità: bene, avranno senz’altro depredato i supermercati. Le scorte che hanno a casa sono finite: ok, allora cosa mangiano? Abbiamo cercato di raccontare visivamente il percorso a colpo d’occhio. Milioni di pezzi in ogni ambiente. Il rischio era che fosse anche anti estetico, quasi una sorta di discarica. Non sapevo se fotograficamente potesse risultare bello.

Raccordare gli ambienti e i personaggi non dev’essere stata una passeggiata.

In parte è stato un lavoro molto rigoroso, la segretaria di edizione [Anna Belluccio, ndr] è stata fantastica a non impazzire. Rispetto ad altri casi però avevamo un margine di tolleranza maggiore, c’era una montagna di roba in campo. In qualche modo è stato anche un liberi tutti, ma non ricordo particolari disastri.

I tempi di allestimento sono stati dilatati come sembra?

Abbastanza, ma meno di quanto temevo all’inizio. Era un lavoro nuovo per tutti, ma appena ci siamo settati abbiamo scoperto di poter essere più veloci del previsto. Avevamo delle location molto laboriose, il Podere del Gelso ha avuto una delle preparazioni più lunghe. Siamo partiti da una sorta di casa in vendita, l’abbiamo pulita e portata al nuovo per poi sporcarla. Abbiamo lavorato a strati, ci son voluti circa due mesi e mezzo. Il resto andava fatto in corsa, accavallandosi. Altre due location con lunghe preparazioni sono state l’interno della villa di Angelica e il totem davanti alla villa, mentre giravamo con doppia unità.

Nell’ultimo episodio la decomposizione del cadavere della madre di Anna e Astor segna un picco molto violento della narrazione. E la stanza, attorno, si decompone insieme a lei. Come avete realizzato tutto questo?

Sono delle sculture che ha fatto Leonardo Cruciano (uno dei fondatori di Makinarium) cercando di raccontare la storia di un corpo che muore: come si trasforma e cosa succede a quello che gli sta attorno? Si gonfia, esplode e rilascia i suoi liquidi. Spostavamo le sculture insieme alla scenografia, ci abbiamo lavorato tanto in preparazione. Niccolò aveva scritto tutto ed aveva ben chiaro il perché dei vari step del cadavere. Noi un po’ meno. Ma la sua era un’esigenza di raccontare la trasformazione tra l’ambiente e il rapporto che cresceva tra fratello e sorella. Questo aspetto crudo era fondamentale per stringere il loro sentimento, con la morte della madre e la responsabilizzazione di Anna.

Cosa avete utilizzato per realizzare quel liquido? L’impatto è molto forte.

Domandona. C’era Leonardo Cruciano sul set, ma in particolare è stata una collaborazione perché non eravamo arrivati a quel livello di comprensione tale, rispetto al cadavere, che invece Niccolò possedeva. Siamo corsi ai ripari sul momento, ricordo dei materiali reperiti all’ultimo, abbiamo comprato del gel per i capelli e delle polveri. Il punto principale, al di là della verosimiglianza, era che dovesse essere visibile. Non poteva essere trasparente, dovevamo portarlo su dei toni bruni. Mi sono affidato al sapere di Leonardo.

anna la serie
Anna e Pietro sull’Etna.

Uno dei miei ambienti preferiti è il covo dei gemelli. Anche per te?

È uno dei cuori delle location. Ha avuto una genesi lunga, dopo il Covid la serie si è ridotta da 8 a 6 episodi e una delle linee narrative tagliate è stata proprio la loro, a malincuore. A Roma abbiamo trovato questa ex officina di macchina abbandonate, e la geografia dello spazio funzionava. Abbiamo porzionato l’ambiente e costruito all’interno un supermercato, svuotando e allestendo con pittura, invecchiamenti e arredi. È uno dei posti più “gotici” del film, dove succedono cose forti. Arredi dal supermercato, frigoriferi, roba che andava reperita, trasportata e sporcata, poi ripulita per riconsegnarla: una montagna di lavoro e uno degli aspetti di cui sono più orgoglioso. Anche perché eravamo verso la fine delle riprese e io ero arrivato al capolinea.

Quanto sono durate le riprese?

Quasi un anno, compreso lo stop del lockdown. Abbiamo iniziato a ottobre 2019 fino a marzo 2020, quando ci siamo fermati per la pandemia fino a maggio. Da lì abbiamo ricominciato fino ad ottobre 2020, circa.

Anche il totem all’entrata del covo dei blu ha attirato parecchia attenzione. Ti sei divertito?

Leggi una cosa del genere e non ti sembra vero: pensi «non ce la faremo mai», e poi ce la fai. Anche abbattendo i vari vincoli che ci venivano posti. A un certo punto è diventato drammatico, non potevamo ancorarci alla villa, si tratta di una struttura storica del 1600 a Bagheria, con la principessa che ancora abita lì dentro. Abbiamo devastato il giardino e costruito un totem di circa 12 metri. Era saldato a terra su una grossa piastra di ferro, zavorrata con pesi di cemento da cantiere e con un’anima in putrelle di ferro a comporne lo scheletro. La posizione è studiata con un ingegnere, perché quello è un posto esposto ai venti e il totem non doveva soffrire le intemperie. Poi l’abbiamo drappeggiato in scena, creando delle forme base per la testa e il torace. Tutti materiali leggeri, per lavorare in sicurezza senza renderli pericolosi se fossero caduti: sotto c’erano 200 bambini blu. Perlopiù reti, stracci, vestiti, plastiche e corde indurite per mantenere forma e dimensione.

Al netto di tutto qual è stata la tua sfida più difficile?

Ho capito che c’era una logica contraria a quella normale. Tendenzialmente si lavora molto sugli interni e si riposa un po’ sugli esterni. Invece per noi gli esterni erano più difficili, avevamo meno tempo per allestirli ed erano soggetti alle intemperie. Devi simulare quattro anni di assenza completa dell’uomo in posti che in realtà sono vissuti: certe volte non è proprio fattibile. Forse i luoghi più infernali per me sono state le spiagge: non sapevo come fare. Era impossibile tenerle vergini con una troupe di cento persone che ci gira sopra e va ovunque. Come le sistemi? Passi con il trattore e le spiani ma poi diventa un parcheggio. Invece dovrebbe essere una sabbia in cui il vento ha creato delle dune e il tempo ha inciso sul paesaggio. Quello è stato sicuramente un compromesso, ed è stato difficile provare a farlo ma accorgermi che non ci arrivavo.

Quando si dice «c’è un prima e un dopo»: come si passa a un nuovo progetto dopo una serie del genere?

Già. Sarà difficile, non sempre senti quella necessità e quell’urgenza così forte come l’abbiamo avvertita in Anna. Questo ti mette sotto scacco, costantemente alla prova. Fatichi, sei a pezzi, temi di non arrivarci. Ma quando poi finisce, qualcosa fa la differenza: capisci che tutto fa parte di un disegno che effettivamente torna. E se la scenografia funziona è anche perché sono stato spinto oltre il limite. Ora ha un senso e lo riconosco.

 

 

 

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Ritoccàti, la serie in cui la chirurgia estetica fa sorridere https://www.fabriqueducinema.it/focus/ritoccati-la-serie-in-cui-la-chirurgia-estetica-fa-sorridere/ Mon, 12 Apr 2021 10:02:48 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15407 La risata è probabilmente tra i veicoli più potenti per trasmettere un messaggio, in grado di arrivare in questo modo a quante più persone possibili. Ecco perché in un paese in cui i pregiudizi sulla chirurgia estetica sono ancora tanti, si sceglie una commedia come Ritoccàti per parlarne con leggerezza, ma certamente non con superficialità. […]

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La risata è probabilmente tra i veicoli più potenti per trasmettere un messaggio, in grado di arrivare in questo modo a quante più persone possibili. Ecco perché in un paese in cui i pregiudizi sulla chirurgia estetica sono ancora tanti, si sceglie una commedia come Ritoccàti per parlarne con leggerezza, ma certamente non con superficialità. Ideata da Luca Rochira e dal chirurgo Giulio Basoccu, la seconda stagione è appena andata in onda su Sky Uno ed è ora disponibile su Now. Ad interpretarla alcuni tra i giovani attori più apprezzati nel panorama italiano, come Federico Cesari, Giancarlo Commare, Neva Leoni e Michela Giraud. A parlarne è proprio Michela, insieme al regista Alessandro Guida

Perché una sketch-comedy incentrata sulla chirurgia estetica?

Alessandro Guida: Ritoccàti nasce da un’idea di Giulio Basoccu. È stato lui a voler fare una serie televisiva dall’impronta comedy, sia perché la chirurgia estetica è un mondo poco esplorato dalla televisione, sia perché in Italia c’è ancora della paura intorno a questa pratica, a volte anche della vergogna. Questo è quindi un tentativo per sdoganarla. Abbiamo scelto un approccio che fosse il più lieve possibile perché la comicità è il modo migliore per agganciare il pubblico e riflettere su tematiche simili.

Michela Giraud: Giulio Basoccu ha avuto l’intuizione di costruire intorno al suo lavoro un prodotto di spessore: nella serie parla di accettare se stessi, non di fare degli interventi per cambiarsi. Io trovo che sia un’operazione di marketing-non-marketing molto intelligente. È una serie senza pretese e dopo un anno così pesante è bello vedere qualcosa che ti permetta di staccare, una serie leggera e non superficiale.

A chi si rivolge Ritoccàti?

Alessandro: A tutti. Nonostante all’inizio le intenzioni fossero quelle di coinvolgere principalmente un target di ragazzi, vista anche la presenza di un cast molto giovane, poi non è andata solo così. Io sono rimasto davvero colpito quando ci siamo accorti dell’ampiezza del pubblico, complice anche il fatto che Sky Uno è un canale molto seguito dalle famiglie. Ma soprattutto Ritoccàti è in grado di arrivare anche a persone non per forza vicine alla chirurgia estetica.

Ritoccati la serie
Giulio Basoccu, protagonista e ideatore di Ritoccàti.

Michela, come sei stata coinvolta nel progetto?

Michela: Sono stata chiamata da Alessandro, il regista che mi stima di più in Italia. Lui parla di me come se fossi Anna Magnani (per carità, non lo sono, ma mi ci fa sentire). Noi avevamo già lavorato insieme, anche in un’altra serie comedy, Involontaria. E poi mi ha voluta per Ritoccàti.

Alessandro: A me piace coinvolgere Michela perché oltre al talento porta un grande entusiasmo. È capace di fare gioco di squadra e in Ritoccàti questo è fondamentale. Molta della comicità della serie si basa su un lavoro di coppia e nonostante Michela provenga dalla stand-up comedy, dove è da sola sul palco, ha grande capacità di ascolto.

Rispetto all’ambito della comedy ultimamente la percezione comune è che non si possa più dire niente, da un lato per il politically correct dall’altro per evitare di essere sommersi dalle critiche sui social. Qual è il vostro pensiero in merito?

Michela: Ma non è vero che non si può più dire niente, è una falsità. Non si può dire niente se la tua vita è dentro al telefono e vai a vedere tutti i commenti negativi su di te. L’Italia è un paese in cui se vuoi dire una cosa la dici. E aggiungerei purtroppo a volte, perché veramente a me sembra che la gente possa dire proprio tutto, anche troppo. Quindi non è vero, semplicemente i tempi sono cambiati e non si possono più dire certe cose perché è anche giusto che uno non dica più certe cose. È chiaro che se però vuoi dire una parola forte, ma sei in grado di contestualizzarla dandole un senso, allora è un’altra questione. Perché è anche chiaro che quando una persona ha un suo codice etico, capisce da sé quello che si può dire e quello che non si può dire. Per me conta questo.

Alessandro: Per me questa è stata una sfida perché non ero abituato. A parte Involontaria, Ritoccàti è la prima serie comedy che ho realizzato. Mi ha colpito infatti ricevere da Sky tante note in cui ci veniva consigliato di toccare certi argomenti con sensibilità e attenzione. All’inizio è una cosa che ti spiazza, ma si è rivelata invece una bella sfida, perché a quel punto devi ragionare e riflettere per trovare un modo più sofisticato di far ridere la gente. In questo caso mi hanno aiutato tantissimo gli attori, che riescono a rendere divertente qualunque cosa.

Ritoccati regista Alessandro Guida
Ritoccàti, il regista Alessandro Guida al centro.

Oltre a Ritoccàti a cosa state lavorando?

Michela: Sono andate online da poco le ultime due puntate di Lol e poi a metà maggio usciranno i miei due programmi: CCN Comedy Central News con Michela Giraud e Il salotto con Michela Giraud. CCN è la parodia di un telegiornale, mentre invece ne Il salotto invito molti amici, colleghi comici, attori, cantanti e opinionisti di natura molto varia, perché comunque ricalca in qualche maniera l’ossessione per il politically correct (infatti ci saranno anche delle minoranze, tra cui maschi bianchi etero, aha). Ho poi girato i video di Persona By Marina Rinaldi, dove si passa dall’ossessione per la body positive, agli haters, alle etichette. E poi a giugno c’è un appuntamento molto importante, giusto Alessandro?

Alessandro: Sì, uscirà il primo lungometraggio che ho diretto con Matteo Pilati, Maschile singolare. Una piccola avventura che abbiamo realizzato insieme, con un cast giovane di cui fa parte appunto anche Michela, insieme a Giancarlo Commare, Eduardo Valdarnini e Gianmarco Saurino. Siamo molto orgogliosi perché siamo partiti in maniera coraggiosa realizzando un film indipendente e low budget, ma siamo riusciti a fare tombola, ottenendo di uscire su una piattaforma streaming ma avendo anche una distribuzione, per quanto adesso con il covid sia difficile andare in sala. Io poi come sempre faccio video musicali e fra poco ne usciranno diversi. Sto inoltre scrivendo due progetti che spero di realizzare presto.

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Cucine vicine: la serie che parla di cibo e integrazione culturale https://www.fabriqueducinema.it/focus/direct-to-digital/cucine-vicine-la-serie-che-parla-di-cibo-e-integrazione-culturale/ Thu, 25 Mar 2021 09:29:48 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15329 Arriva su Amazon Prime Video Cucine vicine, la serie in 6 puntate che pone il cibo al  centro dell’integrazione tra culture. Quale cultura si nasconde dietro ogni ricetta? Prodotto da Epica Film e diretto da Giulietta Vacis con l’art direction di Eleonora Diana,  il format è distribuito da Direct to Digital.  Cucine vicine, la serie […]

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Arriva su Amazon Prime Video Cucine vicine, la serie in 6 puntate che pone il cibo al  centro dell’integrazione tra culture. Quale cultura si nasconde dietro ogni ricetta? Prodotto da Epica Film e diretto da Giulietta Vacis con l’art direction di Eleonora Diana,  il format è distribuito da Direct to Digital

Cucine vicine, la serie tra food e integrazione 

Negli ultimi anni i cooking show si sono affermati come un nuovo format televisivo di  successo, portando a una riscoperta del cibo, della tradizione e del divertimento dietro i  fornelli. Allora perché non farne anche una serie che parli di integrazione e storie  multiculturali? Perché niente sembra fare da collante sociale più del cibo, spingendoci per  curiosità e per passione oltre i limiti della nostra tradizione. A ideare un format che  racconti tutto questo ci ha pensato la Epica Film, grazie anche alla collaborazione con il  Concorso letterario nazionale Lingua Madre ideato da Daniela Finocchi. La società di  produzione nata a Torino ha vinto proprio per Cucine vicine il bando della Film  Commission Torino Piemonte e dell’Assessorato alle Politiche Giovanili della Regione  Piemonte Under 35 Digital Video Contest – Giovani protagonisti. 

6 episodi della durata di 10 minuti ciascuno, pensati per il web e girati con  tecniche d’avanguardia, raccontano il mondo della cucina mixando il linguaggio  dell’animazione a quello del documentario. Tra reality, competizioni stellate e prove  culinarie, qui il mondo del food si trasforma in un’occasione per mostrarci l’incontro tra  culture. I protagonisti di puntata sono infatti sia italiani d’origine che naturalizzati  ma con radici culturali differenti: quali sono gli ingredienti che accomunano le  diverse ricette? Perché l’ingrediente comune c’è sempre, al di là delle radici.  

Giulietta Vacis: «Il cibo è un para-linguaggio» 

«Il cibo è arrivato alla nostra attenzione come il più familiare e profondo mezzo di  socialità racconta Giulietta Vacis, regista di Cucine vicine ancora di più  quando si pensa ad un Paese come l’Italia, famoso, ammirato ed imitato in tutto il mondo  proprio per questo». Ed è dalla semplicità di questa tradizione che nasce l’idea del  progetto: è proprio attorno a un pasto condiviso che in Italia, da sempre, si raccolgono le  storie e gli aneddoti più intimi, i ricordi, gli incontri e i legami familiari. Varrà lo stesso  anche per le altre culture? Sì, la condizione è universale, e Cucine vicine ce lo racconta: 

cucine vicine
Ingredienti per una delle ricette di “Cucine vicine”

«Ci siamo rese conto che il cibo risulta essere a tutti gli effetti un para-linguaggio e un  trait d’union tra le culture. Non vi è segnale di accoglienza maggiore dell’offerta  di un piatto». 

Cinesi di seconda generazione, coppie di fratelli nati in Italia da genitori marocchini,  richiedenti asilo curdo iracheni, ragazze siriano-russo-italiane: i protagonisti di ogni  puntata presenteranno le loro ricette ma senza svelare il loro aspetto. Dietro la  voice over e l’animazione in time lapse che mostrerà la preparazione del piatto, che storia  si nasconderà? E soprattutto: sarà davvero scontato distinguere una cultura dall’altra,  senza scoprire subito l’aspetto dei protagonisti? È tra le storie legate a una ricetta, tra i  racconti e i ricordi, che le radici si confondono agli ingredienti comuni. E i confini culturali  vacillano, uniti dal cibo. 

«L’immagine dipinta da telegiornali e talk-show è quella di una nazione pietrificata dal  terrore e mortificata dalla violenza dello “straniero”» osserva la regista. «Ma l’Italia è  oggi un paese che, con un certo ritardo rispetto al resto d’Europa, inizia a prendere  coscienza della propria inevitabile multietnicità. Un paese le cui storie cominciano a  ricondurre a nonni e nonne di paesi lontani e a radici differenti, pur mantenendo una  fortissima identità». 

Cucine vicine è ora disponibile su Amazon Prime  Video 

La serie è approdata ora su Amazon Prime Video distribuita da Direct to Digital,  società nata nel 2020 durante il lockdown, proprio con l’obiettivo di valorizzare il ciclo  vitale di prodotti audiovisivi sfuggiti al mercato. Con Cucine vicine la distribuzione abbraccia ancora una volta un progetto indipendente di valore, portando cortometraggi,  film, serie tv e documentari sulle migliori piattaforme digitali. 

Le 6 puntate della prima stagione sono state girate con un IPhone X: è da tempo che le  autrici sperimentano le tecniche d’avanguardia del nuovo mezzo. Sia nella fotografia che  nella ripresa video, l’IPhone ha il vantaggio d’essere piccolo e discreto, perfetto per mettere  a proprio agio anche soggetti non abituati a raccontarsi di fronte a una telecamera. Una  confidenza fondamentale, questa, per ricordare memorie olfattive, visive ed emotive  legate al cibo, e per mettersi l’uno nei panni dell’altro. Al termine di ogni puntata, infatti,  ogni protagonista cucinerà una ricetta proposta dall’altro. «Le donne continuano a  rivelarsi “l’anello forte” delle diverse culture – conclude Giulietta Vacis – Sono  soggetti capaci di cogliere gli elementi dinamici di altri mondi culturali, con un forte  potenziale espressivo. Le donne innescano quelle che Cristina Borderias chiama  “strategie di libertà”, intraprendendo così quei percorsi che portano al cambiamento.  Pur senza dimenticare le proprie origini, hanno un atteggiamento diverso dagli uomini nei confronti del paese d’approdo: se ne appropriano, lo fanno loro, gli sono riconoscenti,  perché casa è dove è la vita».

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Gianmarco Saurino, da zero a cento https://www.fabriqueducinema.it/cinema/people/gianmarco-saurino-da-zero-a-cento/ Tue, 03 Nov 2020 17:06:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14485 È uno dei volti giovani più amati delle fiction Rai: dal casanova dal cuore d’oro Nico di Che Dio ci aiuti al medico combattivo ma fragile di Doc. Nelle tue mani, Gianmarco Saurino si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica, dando inizio a una carriera sempre più in ascesa. E mentre l’anno prossimo […]

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È uno dei volti giovani più amati delle fiction Rai: dal casanova dal cuore d’oro Nico di Che Dio ci aiuti al medico combattivo ma fragile di Doc. Nelle tue mani, Gianmarco Saurino si è imposto all’attenzione del pubblico e della critica, dando inizio a una carriera sempre più in ascesa. E mentre l’anno prossimo lo vedremo cimentarsi anche con il cinema, nel ruolo di un giovane ragazzo omossessuale all’apparenza sicuro di sé, l’amore per la recitazione continua a crescere fin dai tempi della scuola: «Non credo che ci sia stato un momento preciso in cui ho deciso che la recitazione fosse la mia strada. Sicuramente, però, è stato verso la fine della scuola superiore: a quell’età ci si interroga su cosa si vuole fare nella vita. Io avevo frequentato dei laboratori di teatro e avevo lavorato come animatore in un villaggio turistico, e mi ero reso conto che stare sul palco mi piaceva, che mi faceva sentire bene. Allora ho deciso di buttarmi nell’arena!».

E ti sei trasferito a Roma…

Quando ho deciso di tentare questa carriera, non avevo idea del percorso da intraprendere. Vengo da un paese di provincia, quindi non avevo chiaro come dovessi muovermi per fare concretamente l’attore. Ho pensato fin da subito che la formazione fosse fondamentale, cosa in cui credo anche oggi, e ho provato a entrare al Centro Sperimentale, riuscendoci. Da lì, la strada è stata tutta in salita, ma poco alla volta mi sono sempre più convinto di aver seguito la direzione giusta.

Hai iniziato partecipando a diverse fiction Rai come Che Dio ci aiuti e Non dirlo al mio capo. Come è stato passare dalla scuola al set?

Da zero a cento in sessanta secondi! All’inizio non ti nego che è stato straniante. L’approccio che ti da la scuola è essenzialmente teorico, “di mestiere”: ti insegnano i metodi americani, che spesso ritrovi concretamente a teatro. I set televisivi sono invece un mondo totalmente a parte: ti senti immerso in un meccanismo più grande, dove tutto è più pragmatico e in certi sensi artigianale. Una volta superato l’impatto iniziale, ho però imparato a capire cosa di ciò che avevo imparato fosse importante, e mi sono trovato a mio agio. Poi, iniziare con ruoli grandi e periodi di riprese molto lunghi mi ha insegnato la disciplina. La lunga serialità è molto formativa per un giovane attore… Permette di farsi il fisico!

Ora sei sul piccolo schermo con Doc. Nelle tue mani, fiction Rai di enorme successo. Come è stato interpretare Lorenzo?

Lorenzo è il personaggio più difficile che io abbia mai interpretato. È un ragazzo fragile, con una marea di cicatrici nascoste, che soprattutto in questi nuovi episodi stanno emergendo. Io amo dare vita a personaggi difficili, a cui a un certo punto manca la terra sotto i piedi, perché ciò li rende più umani e sfaccettati. Inoltre, quando ho iniziato a lavorare su Lorenzo, mi sono dovuto confrontare anche con una professione complessa come quella del medico. Ho avuto la fortuna di seguire come un’ombra alcuni dottori, respirare in prima persona l’aria dell’ospedale, capire che ciò che per noi è straordinario per i medici è la normalità. Questo mi è stato molto utile.

Stai per esordire anche in un lungometraggio: Maschile singolare, opera prima di Matteo Pilati e Alessandro Guida.

Maschile singolare è un film che parla di amore: pur avendo protagonisti LGBTQ+, credo sia un racconto universale, in cui non è davvero importante l’orientamento sessuale dei personaggi, ma l’amore che si vuole mettere in scena. Io interpreto Luca, un giovane omosessuale dal carattere forte. Sulla carta, Luca doveva essere un ragazzo solido e risolto, tanto nella vita privata, quanto in quella professionale. Discutendo con i registi, ho cercato però di aggiungerci qualcosa di mio: ho voluto mostrare anche la sua fragilità e la sua umanità, che credo l’abbiano reso più vero. Come con Lorenzo in Doc, mi sono divertito a far emergere le sue ferite e le sue insicurezze.

Gianmarco Saurino in Maschile Singolare
Gianmarco Saurino in “Maschile Singolare”

Dopo questi successi, come è cambiata la tua vita quotidiana?

Mi ritengo una persona molto fortunata: sto facendo non solo un mestiere che amo, ma un lavoro veramente fuori dall’ordinario. Quando qualcuno mi riconosce per strada o al supermercato, non posso che esserne felice, ma soprattutto ne sono grato, perché se sono dove sono è anche grazie a chi segue le cose che faccio. In questo senso, amo molto fare teatro, perché rispetto al cinema e alla televisione ti permette di avere un rapporto più diretto con il pubblico: infatti, lo dico sempre, sono un teatrante prestato volentieri alla televisione.

Cosa consiglieresti a un ragazzo che vuole seguire le tue orme?

Ho tenuto diversi laboratori di teatro con ragazzi giovani, e molto spesso mi è stata posta questa domanda. Mio padre, quando gli dissi che volevo intraprendere questa carriera, mi rispose di provare con tutte le mie forze, ma di avere la coscienza di sapere che se avessi dovuto fallire non sarebbe stata colpa mia. Credo che questa frase racchiuda la risposta a questa domanda: il mestiere dell’attore è difficile, bisogna impegnarsi al massimo, ma non è detto che poi ce la si faccia. Credo però che il primo passo sia la formazione, perché lo studio è fondamentale, ma poi serve fortuna, tenacia e, come si dice a Roma, la tigna!

E nel futuro, cosa ti si prospetta?

Nell’immediato, le ultime puntate di Doc, ora in onda. Poi, l’uscita di Maschile singolare, prevista per il 2021. Al momento sto girando la sesta stagione di Che Dio ci aiuti, mentre il Covid ha messo in stand-by altri progetti. Il prossimo anno vorrei prendermi un periodo per fare un po’ di teatro e andare a studiare all’estero, magari a Londra. Credo che ogni tanto sia giusto prendersi una pausa dal set.

Che personaggio vorresti interpretare, se te ne venisse offerta la possibilità?

Come avrai capito, mi piacciono i ruoli drammatici. Poi, sarà banale, ma mi piacerebbe interpretare un cattivo, che è una figura fragile per eccellenza. Oppure, anche l’esatto contrario: non mi ci vedresti come protagonista di una commedia romantica?

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