Sergio Leone Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 21 Jun 2021 17:05:04 +0000 it-IT hourly 1 Profondo Argento: L’uccello dalle piume di cristallo e il giallo all’italiana https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/profondo-argento-luccello-dalle-piume-di-cristallo-e-il-giallo-allitaliana/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/profondo-argento-luccello-dalle-piume-di-cristallo-e-il-giallo-allitaliana/#respond Wed, 19 Sep 2018 14:02:35 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11332 Dagli esordi come critico alla collaborazione come soggettista di C’era una volta il West di Sergio Leone (qui la sua opera prima), dal successo di Profondo rosso al recentissimo “remake” di Suspiria realizzato da Luca Guadagnino (qui la recensione), la fama di Dario Argento è in continua ascesa. Argento fa il salto da critico cinematografico […]

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Dagli esordi come critico alla collaborazione come soggettista di C’era una volta il West di Sergio Leone (qui la sua opera prima), dal successo di Profondo rosso al recentissimo “remake” di Suspiria realizzato da Luca Guadagnino (qui la recensione), la fama di Dario Argento è in continua ascesa.

Argento fa il salto da critico cinematografico appassionato di film di genere a sceneggiatore e poi a regista, anche grazie a Bernardo Bertolucci: dopo aver lavorato insieme alla sceneggiatura di C’era una volta il West di Sergio Leone, l’amico lo incarica di realizzare l’adattamento cinematografico del romanzo La statua che urla (The Screaming Mimi) di Fredric Brown. Terminato il lavoro, Argento inizia a proporre a vari produttori il soggetto, ma il copione rischia più volte di essere modificato o attribuito ad altri. Così, con l’aiuto del padre, fonda la società di produzione autonoma S.E.D.A. Spettacoli, in questo modo finanzia e dirige la sua opera prima.

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L’uccello dalle piume di cristallo (1970) è un raffinato film tra il noir e il thriller, basato sul gioco di sguardi con lo spettatore. La sequenza che apre la pellicola concentra l’attenzione sui preliminari del delitto più che sull’omicidio in sé, in un montaggio alternato che è un flirt con il pubblico in sala, un mostrare e nascondere; una tensione avvolgente tra desiderio e repulsione che fa del primo film del regista romano un successo commerciale eclatante e inaspettato.

Le riprese, iniziate nel settembre 1969, durarono sei settimane e si rivelarono più problematiche del previsto: tra i contrasti con l’attore Tony Musante che riteneva Argento un regista improvvisato, i tentativi di boicottaggio della società cinematografica Titanus di Goffredo Lombardo e il rischio continuo di superare i costi di produzione, la realizzazione del film fu tutt’altro che semplice. Il 19 febbraio del 1970, L’uccello dalle piume di cristallo esce in sala con un divieto ai minori di quattordici anni e la critica, dopo un’iniziale freddezza, lo accoglie come «un sasso nello stagno del cinema italiano». Qualcosa destinato a cambiarlo, dando il via a un filone noto come giallo all’italiana.

Argento è un visionario dalla tecnica impeccabile, sperimenta soluzioni innovative e improbabili, l’opera prima contiene diversi elementi che verranno perfezionati nei film successivi, andando a comporre la sua personalissima firma registica: l’uso singolare della soggettiva e il ralenti esasperante, i primissimi piani, il montaggio alternato, la scarsità dei dialoghi, il whodunit (il giallo deduttivo a enigma) e l’interesse per le psicopatologie.

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Il punto focale del film però, come in quasi tutte le opere di Dario Argento, non sta in superficie. Il protagonista della pellicola è Sam Dalmas (Tony Musante), un giovane scrittore italo-americano che lavora a Roma, dopo essersi specializzato nello studio degli uccelli rari. Unico testimone di una colluttazione in una galleria d’arte tra una donna e una figura misteriosa in nero, Sam non può più partire per gli Stati Uniti con la sua ragazza, Giulia (Suzy Kendall). Solo lui può identificare quella figura, ma continua a sfuggirgli un particolare risolutivo per il caso. Ed è proprio il tentativo di Dalmas di analizzare i dettagli di ciò che ha visto, il focus del film, per questo la scena della galleria d’arte è soprattutto una lezione di cinema, una profonda analisi della poetica e della teoria dello sguardo.

Per quanto si tenda a legare la figura di Argento a Alfred Hitchcock – in quanto maestro del brivido – è evidente il debito del primo cinema argentiano nei confronti della filmografia di Mario Bava (La ragazza che sapeva troppo ma anche Sei donne per l’assassino) e di Sergio Leone – soprattutto nella scelta delle musiche di Ennio Morricone. Quello che però rende Dario Argento un grande regista già dal suo esordio è soprattutto il suo essere un vero cinefilo: Argento conosce il cinema ancora prima di farlo, lo capisce profondamente ancora prima di scriverlo e lo ama in modo sincero quando il suo non esiste ancora. Il voto che compie il maestro della suspense è pura devozione alla settima arte, non al denaro non all’amore né al cielo, prendendo in prestito le parole di De Andrè, solo al cinema.

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Per un pugno di capolavori: Sergio Leone e Il colosso di Rodi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/per-un-pugno-di-capolavori-sergio-leone-e-il-colosso-di-rodi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/per-un-pugno-di-capolavori-sergio-leone-e-il-colosso-di-rodi/#respond Thu, 21 Jun 2018 09:00:32 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10754 Sergio Leone è riconosciuto universalmente come uno dei più importanti registi della storia del cinema, nonostante abbia diretto appena sette film (considerando solo quelli regolarmente accreditati). Leone era proprio come i suoi personaggi, come un cowboy taciturno e imperscrutabile, caratterizzato da un sigaro sempre acceso e da una frase epica da sfoggiare all’occorrenza, un po’ […]

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Sergio Leone è riconosciuto universalmente come uno dei più importanti registi della storia del cinema, nonostante abbia diretto appena sette film (considerando solo quelli regolarmente accreditati). Leone era proprio come i suoi personaggi, come un cowboy taciturno e imperscrutabile, caratterizzato da un sigaro sempre acceso e da una frase epica da sfoggiare all’occorrenza, un po’ come la sua dichiarazione più famosa: «Quando ero giovane credevo in tre cose. Il Marxismo, il potere redentore del cinema e la dinamite. Oggi credo solo nella dinamite».

Ha iniziato dal genere peplum (o il più gergale sandaloni), incentrato sulle azioni eroiche del mondo epico greco-romano. Negli anni sessanta, nonostante i detrattori, ha cambiato il genere western, l’ha reso più sporco e cattivo e per questo più umano. Grazie a titoli come Per un pugno di dollari, Il buono, il brutto, il cattivo e C’era una volta il West, ha dato vita a un sottogenere italiano noto come spaghetti-western. Mentre, con C’era una volta in America ha profondamente rinnovato il lessico dei gangster movie. Leone è giovanissimo quando l’Italia è appena uscita dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e l’industria cinematografica è tutta da ricostruire. Le grandi produzioni hollywoodiane, attratte dai prezzi molto bassi e dalla disponibilità di manodopera a buon mercato, accorrono a Cinecittà nel periodo della cosiddetta Hollywood sul Tevere.

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Figlio d’arte: il padre Vincenzo Leone (in arte Roberto Roberti) è attore e regista ed e considerato uno dei pionieri del cinema muto italiano e la madre, Edvige Valcarenghi (in arte Bice Valerian), è un’attrice. Leone inizia a lavorare nel cinema come comparsa, appena diciottenne, in Ladri di Biciclette di Vittorio De Sica (qui il suo esordio) e come assistente alla regia per vari kolossal come Quo Vadis (1951) e Ben Hur (1959). In quegli anni spesso non viene neanche accreditato, come accade anche per la sua prima regia: il peplum Gli ultimi giorni di Pompei (1959). La pellicola era originariamente diretta da Mario Bonnard, ma venne ultimata da Leone perché il regista era troppo malato per terminare il film.

Grazie alla lunga esperienza maturata sui set, il regista romano è riuscito a realizzare la sua opera prima: Il colosso di Rodi (1961) un peplum epico-romano. Il talento di Leone sta proprio nel far sembrare spettacolare un film a basso budget, rivelandosi un cineasta dal gusto per lo spettacolo e già con un’ottima padronanza tecnica. La vicenda è ambientata nell’Isola di Cipro ed è la storia dell’enorme statua fatta costruire da Serse all’imbocco del porto di Rodi per bloccare i movimenti delle navi greche. Si tratta di cinema popolare, ma realizzato da formidabili artigiani in un immaginario d’intrattenimento fatto di intrighi e tradimenti, bene e male, eroi dai muscoli oliati che difendevano regine bellissime e città sotto assedio. Il Colosso di Rodi è un’opera che denota alcune immaturità, ma resta una visione godibile, soddisfacendo le aspettative di spettacolo e di avventura e realizzando anche un buon incasso al botteghino (657 milioni di lire).

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Il lungometraggio è stato anche al centro di una celebre lite: il protagonista maschile, John Derek, aveva accusato Leone di essere troppo inesperto per dirigere il film e per questo voleva prendere in mano la regia. Alla fine ha avuto comunque la meglio Leone, grazie al sostegno della maggioranza della troupe, mentre Derek si è dimesso dal set.

Sergio Leone è stato un regista molto amato, sia da alcuni attori come Clint Eastwood, che da lui stesso è stato scoperto e trasformato da attore televisivo a Divo del cinema, sia da registi come Quentin Tarantino, che si è ispirato a Sergio Leone per realizzare il suo celebre The Hateful Eight, scegliendo Ennio Morricone (compagno di classe, amico e compositore di fiducia di Leone) per la colonna sonora. A Tarantino è legato un aneddoto: sul set de Le iene (1992), agli inizi della propria carriera, non conoscendo ancora tutti i termini tecnici era solito chiedere ai propri operatori di ripresa «give me a Leone», ovvero «datemi un Leone», per avere uno di quei primissimi piani sui dettagli, marchio di fabbrica del cineasta italiano.

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Un regista geniale e innovativo, decisamente post-moderno, l’uomo che ha trasformato Clint Eastwood in una star, il narratore che per rappresentare l’estremo Occidente si rifaceva all’estremo Oriente (anche plagiando Akira Kurosawa e perdendo una causa per questo). Un regista che ha portato sullo schermo l’essenzialità dei gesti del cinema muto paterno e la tecnica hollywoodiana appresa dagli americani, facendo del suo cinema uno spettacolo con profondità inaspettate. Nonostante il successo più o meno costante, il regista romano aveva così poca fiducia nell’accoglienza delle sue pellicole, da dichiarare a ogni fine set che quello sarebbe stato il suo ultimo film.

Le opere di Sergio Leone – tutt’altro che parlate, infatti Adrian Martin definisce i suoi film «odi ai volti umani» – sono piene di frasi culto che l’hanno reso parte di un immaginario immortale. Dopotutto, chi di noi non ha mai detto almeno una volta nella sua vita la frase cult pronunciata da Ramon Rojo (Gian Maria Volonté): «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto?»

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Ruggero Deodato, il cannibale che odia l’horror https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/ruggero-deodato-il-cannibale-che-odia-lhorror/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/ruggero-deodato-il-cannibale-che-odia-lhorror/#respond Mon, 30 May 2016 10:54:07 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3248 Ride all’appellativo di “Monsieur Cannibal”, con cui firma anche una rubrica su una rivista, odia la sua foto di Wikipedia e sgrida i giovani cresciuti nella bambagia che si scandalizzano per un film, ma non per gli orrori che passano ogni giorno al telegiornale. Teme di essere ricordato più per I ragazzi del muretto che […]

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Ride all’appellativo di “Monsieur Cannibal”, con cui firma anche una rubrica su una rivista, odia la sua foto di Wikipedia e sgrida i giovani cresciuti nella bambagia che si scandalizzano per un film, ma non per gli orrori che passano ogni giorno al telegiornale.

Teme di essere ricordato più per I ragazzi del muretto che per la sua trilogia sui cannibali, ma soprattutto detesta essere definito un regista horror. Parliamo di Ruggero Deodato, 76 anni e un nuovo film fresco di riprese. Si chiama Ballad in Blood ed è un noir realizzato tra gli studi romani della De Paolis, la rampa Prenestina e il Pozzo di San Patrizio a Orvieto, una storia ispirata a un noto episodio di cronaca nera con protagonista un gruppo di studenti Erasmus.

Come avrete capito, questo filmmamker di culto trasuda ancora tanta energia e passione per il suo mestiere, con cui ha ispirato nomi quali Tarantino e probabilmente buona parte dei found footage oggi tanto in voga nelle sale. Noi preferiamo però presentarvelo come un vero artigiano del cinema, impegnato in prima linea nelle riprese dei suoi film, a piedi nella jungla e in luoghi esotici dove pochi dei suoi colleghi più blasonati avrebbero osato addentrarsi.

Lo intervistiamo poco dopo il 36° anniversario dell’uscita di Cannibal Holocaust. Lo sappiamo perché Ruggero ci fa sentire il messaggio vocale di “auguri” che gli ha mandato uno dei suoi più grandi fan, Eli Roth. Se ve lo state chiedendo, non c’è assolutamente alcun rancore per quella faccenduola della trama di The Green Inferno che assomiglia troppo a quella di Ultimo Mondo Cannibale. Dopo l’iniziale disappunto del regista italiano, i due si sono più che riconciliati e si scambiano i messaggini di cui sopra.

Andiamo subito al punto: perché non ti piace essere definito un regista horror?

Sono anni che lo ripeto: non sono un regista horror, faccio film realistici. Anzi, odio i film horror e specialmente gli splatter. Anche i miei colleghi come Bava e Argento non mi hanno mai considerato un cultore del genere. Personalmente apprezzo solo quei film che fanno davvero paura come The Others e Shining, ma gli altri non li guardo proprio.

_TPL1854Deodato-®FrancescaFagoRitoccoQual è il tocco “alla Deodato”?

Metto sempre l’anima nei miei film, qualcosa che fa capire chiaramente che li ho girati io.  Ad esempio in Un delitto poco comune ho mandato Donald Pleasence a urlare come un forsennato in mezzo a corso Vannucci a Perugia, in cerca dell’assassino, con la gente che non capiva cosa stesse succedendo. Il film ruota intorno alla progeria, una malattia rara che causa l’invecchiamento precoce e dunque il volto del killer cambia in continuazione rendendolo irriconoscibile. Il vero tocco alla Deodato però è la scena in cui c’è il malato, un vecchio-bambino, che dondola sull’altalena con il cigolio delle catene che rende tutto molto inquietante.

Anche una buona dose di avventura fa parte del tuo stile, almeno a giudicare dalle foto del set di Cannibal Holocaust.

Cannibal Holocaust è stato più semplice rispetto a Ultimo Mondo Cannibale, dove stavamo in una jungla malese che è molto peggio di quella amazzonica. Ma mi sono sempre divertito. Vedevo le foto di questi posti fantastici su National Geographic, scrivevo una storiella e andavo da un produttore: così sono nati i miei film sui cannibali. Una di quelle riviste ce l’ho ancora in buone condizioni, ma solo grazie a un mio fan tedesco che l’ha trovata e mi ha regalato la sua copia. La mia l’avevo portata con me durante le riprese e con tutta l’umidità che ha preso era praticamente da buttare. Nel ’75, quando ho cominciato a girare in quei posti, nessuno viaggiava e non potevano credere che esistessero indigeni che vivevano a quel modo. Loro invece erano proprio così, allo stato primitivo, ed era difficilissimo trovare il modo di comunicare perché non parlavano nessuna lingua e non capivano nemmeno i gesti. L’unica cosa che si poteva fare era un suono, una sorta di “gha gha” per farli muovere.

Hai girato questi film anche con un intento documentaristico?

No, direi piuttosto che mi piaceva Mondo Cane di Jacopetti. Era molto innovativo sia nella fotografia di un’Africa stupenda, sia nell’elemento di verità che aggiungeva alla storia. Ma lui era un delinquente, nel senso che se sapeva che ci sarebbe stata, che so, una fucilazione, faceva in modo che si organizzasse davanti alla macchina da presa. Pagava anche per decidere il luogo e l’orario in modo da avere l’ambientazione più scenografica. I film erano stupendi ma odiavo questo modo di mistificare la realtà per fare degli scoop: Cannibal Holocaust nasce proprio da questa repulsione. Era una denuncia, e finalmente l’hanno capito anche gli inglesi. Il film è uscito per la prima volta sul grande schermo solo due anni fa, mi hanno anche invitato per presenziare all’evento, a Londra. Tutto merito di un censore che si è accorto del valore di accusa del film e lo ha riabilitato, così finalmente non mi sono trovato davanti solo un pubblico di gotici coi tatuaggi e coi piercing. C’era perfino Vanessa Redgrave.

_TPL1888Deodato-®FrancescaFagoCome hai raccontato altre volte, il film è nato anche dalla rabbia contro la TV.

Sì, mio figlio all’epoca era piccolo e a un certo punto mi ha pregato di cambiare canale perché al TG c’erano troppi morti e gli facevano impressione. I miei film invece venivano censurati e tagliati, ci mancava poco che li bruciassero. Rispetto a Jacopetti ho anche girato in modo più “cialtrone”, senza teli e senza curare troppo la fotografia, ma anche perché volevo più verità. Una volta sviluppata la pellicola l’ho graffiata e sporcata proprio per aumentare questo effetto. Quando Sergio Leone ha visto il film mi ha avvertito: «La seconda parte è un capolavoro, ma passerai tanti guai». E infatti: quattro mesi con la condizionale… Mi hanno anche accusato di aver ucciso gli attori. In Spagna presero addirittura per vero un finto reportage della rivista Photo, fatto con le foto di scena, ma almeno quando si è saputo che era un falso il film è esploso ed è diventato un successo.

 Al realismo nello stile corrispondeva però un reale impegno nelle riprese, nel mezzo di luoghi davvero selvaggi.

Abbiamo girato circa un mese nella jungla: la prima settimana mi volevano ammazzare tutti perché mi sono rifiutato di girare dove era previsto all’inizio, a Kuala Lumpur, dove avevano fatto il Sandokan di Sollima. Era un parco pieno di cartacce dove la gente andava a fare i picnic… A me serviva la jungla! Così siamo andati in un posto che si poteva raggiungere solo con sei ore di piroga. Ce li ho portati, anche il direttore della fotografia che era lo stesso di Sollima e che all’inizio voleva andarsene. Poi ci siamo abituati e ci siamo divertiti moltissimo.

_TPL1940Deodato-®FrancescaFagoQualche aneddoto?

Ho sempre avuto troupe molto paurose, i romani poi sono tremendi, così di solito andavo avanti battendo le mani per scacciare i serpenti. Con le piogge alte i serpenti non ci sono, ma quando cala l’acqua se ne trovano tantissimi. Lamberto Bava, con cui siamo ancora amici, sul set di Ultimo Mondo Cannibale è stato morso proprio da uno dei serpenti che stavamo mettendo in una fossa per girare una scena. Anche se erano senza veleno non lo voleva fare nessuno, e così ho convinto Lamberto ad aiutarmi. Bisognava prenderli per la testa senza stringere troppo, ma lui deve essersi agitato un po’ e così un serpente lo ha morso sulla mano, allora lui l’ha strappato via e quello lo ha morso sull’altra. Sanguinava tantissimo: lo hanno dovuto portare in elicottero a Kuala Lumpur. La domenica con Stefano Rolla, aiuto regista, facevamo a gara a chi si staccava dalle caviglie più sanguisughe con le sigarette. Stefano era un avventuriero come me. È il regista che è morto in Iraq, nell’attentato di Nasṣiriya.

Ti infastidisce essere ricordato come Mr. Cannibal? O ti diverte?

A me diverte tutto. Non mi importa nemmeno quando mi insultano. Nella mia carriera ho variato così tanto che ce n’è per tutti i gusti. Se non ti piace Cannibal Holocaust puoi vedere Uomini si nasce poliziotti si muore. Se preferisci il genere fantastico c’è The Barbarians, se vuoi qualcosa da teenager vatti a vedere I ragazzi del muretto. Vuoi piangere? C’è L’ultimo sapore dell’aria, che è carinissimo. Quest’ultimo che ho fatto, Ballad in Blood, è un noir puro, seppur girato sempre con realismo… E con qualche tarantinata. Ho anche un altro progetto, di cui però non posso parlare, che se riuscirò a realizzare sarà qualcosa di completamente nuovo per me.

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