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]]>Per fare però il punto sui cinque anni di attività, dall’America Occupato al Piccolo America, abbiamo incontrato Valerio Carocci, oggi presidente dell’associazione, colui che ha animato questo movimento dall’inizio.
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]]>L'articolo Elisa Amoruso, regista e scrittrice proviene da Fabrique Du Cinéma.
]]>di Giovanna Maria Branca foto Andrea di Lorenzo
Elisa Amoruso, classe 1981, ci aspetta nella sede della Tangram Film di Carolina Levi a Trastevere. È la casa di produzione che ha partecipato alla realizzazione del suo primo film, molto applaudito allo scorso Festival di Roma nella sezione Prospettive Doc Italia: Fuoristrada. Lo vedremo presto nelle sale italiane, distribuito dall’Istituto Luce, e da Fandango International all’estero. Elisa è una sceneggiatrice, tra gli altri film Passione sinistra di Marco Ponti, uscito nel 2013; una scrittrice, il suo primo romanzo Buongiorno amore è anch’esso del 2013; una fotografa. E ora anche una regista.
Tra queste forme di espressione quale ti rappresenta meglio?
La scrittura è sicuramente la mia base di partenza, ma tutto è iniziato dalla fotografia, che ha poi aiutato il passaggio dalla scrittura alla regia. Mio padre commercia in macchine fotografiche, quindi ci sono cresciuta in mezzo. Ho iniziato a fare la fotografa di scena per i cortometraggi degli amici e poi per tutta la seconda serie di Boris. In precedenza, nel 2005, mentre frequentavo il primo anno del corso di sceneggiatura al Centro Sperimentale, ho iniziato la collaborazione con Claudio Noce per cui ho sceneggiato il corto Aria, che ha vinto tantissimi premi anche ai David di Donatello e ai Nastri D’argento. Poi la nostra collaborazione è continuata con il mediometraggio Adil e Yusuf (2008), che è stato a Venezia e che è servito da studio per il nostro primo lungometraggio: Good Morning Aman (2009). Per Claudio Noce ho anche scritto la sceneggiatura di La foresta di ghiaccio, con Emir Kusturica protagonista.
Poi sei passata al documentario: un genere in cui non è la finzione, ma la realtà a parlare.
È stata una scelta naturale. Ho trascorso un anno e mezzo con i “personaggi” di Fuoristrada: quello che accadeva era così forte che la storia mi è arrivata nel suo farsi, il mio sguardo era orientato su ciò che mi dettava la vicenda, tutto in presa diretta, nel massimo rispetto della realtà di queste persone. Senza forzature, costruzioni o prese di posizione. Ho seguito semplicemente il modo in cui vive questa famiglia composta da Beatrice, Marianna e il loro figlio. Beatrice prima si chiamava Pino, faceva e fa ancora la meccanica nella sua officina a San Giovanni ed è una campionessa di rally. Il suo ambiente quindi è quasi del tutto composto da uomini, che però la stimano e la rispettano dato che è bravissima nel suo mestiere. Anche se, come ci si poteva aspettare, ha perso almeno metà della clientela dopo il cambiamento di sesso. Il titolo è nato dalla storia stessa, quella di un meccanico che guida nei rally: Fuoristrada, una metafora che racconta un po’ tutta la vicenda di vita di Beatrice, della sua famiglia fuori dai canoni e dell’amore che la unisce a Marianna.
In qualità di giovane autrice qual è la tua prospettiva sul cinema italiano? Quali le limitazioni e gli ostacoli che hai incontrato e quali invece gli aspetti positivi?
Con tutti i miei progetti ho sempre fatto domanda al Ministero, ma non avendo nomi di rilievo nel cast né l’appoggio di grandi distribuzioni sono stati tutti rifiutati. Almeno fino all’ultimo film cui sto lavorando, come sceneggiatrice e regista: Se Dio vuole – Insha’Allah.
Per Fuoristrada però volevamo almeno ottenere il riconoscimento dell’interesse culturale, e per fortuna ci siamo riusciti. Se Dio vuole invece è una coproduzione Italia/Polonia con il 40% di produzione polacca. La Opus Film ha fatto richiesta per il finanziamento al Polish Film Institute, che dovrebbe darci 400.000 euro. Abbiamo incontrato a Cannes il direttore del PFI che è un grande sostenitore del film: ci ha addirittura detto che gli dispiace poter offrire “solo” questa cifra, che per l’Italia ormai è un’enormità. Però dobbiamo riuscire a raccogliere il restante 60%: il Ministero italiano ci darà 150.000 euro, bisogna ancora trovare il resto dei soldi.
Credo che gli autori della nostra generazione non abbiano una resistenza a priori nello spendere energie, tempo e denaro in un progetto, anche se non c’è nessuno che lo finanzia. La nostra generazione non è affermata e sostenuta come quella precedente, ma questo è anche un aspetto positivo: ci dà maggiore libertà dalle influenze esterne, maggiore possibilità di sperimentare svincolati da pressioni. Insomma, mi pare che anche se ci mettono sulla strada veramente tanti ostacoli, questo non basta a fermarci. E anche un giornale come Fabrique, con tutti i giovani talenti del nostro cinema, lo dimostra: è l’esempio concreto di come nonostante tutto noi comunque andiamo avanti.
Puoi dirci qualcosa in più sul tuo prossimo film Se Dio vuole e in generale sui tuoi progetti futuri?
Il soggetto di Se Dio vuole l’avevo scritto addirittura quando frequentavo ancora il Centro Sperimentale, è rimasto nel cassetto per tanti anni. Quando poi abbiamo presentato il progetto in Polonia, dato che all’epoca frequentavo un master alla scuola di cinema di Andrzej Wajda, è piaciuto così tanto che abbiamo iniziato a sviluppare la sceneggiatura: Wajda, scherzosamente, mi disse che avrebbe voluto averla lui l’idea. È un noir ambientato tra l’Italia e la Polonia, che indaga l’identità di una donna alle prese con due storie d’amore: una nel presente, a Varsavia, con l’uomo che ha sposato, e l’altra nel passato, con un algerino, quando era una giovane immigrata polacca a Roma. Abbiamo già due dei protagonisti: Kasia Smutniak e Robert Wieckiewicz, un attore molto famoso in Polonia, mentre resta aperto il casting per l’algerino.
L’altro progetto cui sto lavorando è il mio secondo libro. Buongiorno amore, che avevo iniziato solo per sentirmi in contatto con l’Italia mentre vivevo in Polonia, è andato inaspettatamente benissimo. Così tanto che Newton Compton me ne ha “commissionato” un altro. Insomma, tra la scrittura del romanzo e il film… se mi proponessero qualcos’altro dovrei inventarmi una seconda me!
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]]>Il 30 Aprile 2014 si sono concluse le selezioni ma, in occasione dei festeggiamenti della 15° edizione e della partnership di Fabrique du Cinéma, c’è ancora un posto a disposizione!
Se non hai partecipato alle selezioni, il tuo corto dura meno di venti minuti ed hai realizzato il trailer, inviaci la tua opera entro il 30 maggio a [email protected] (wetrasfer o link privato)
Il trailer verrà proiettato il 6 giugno durante l’evento di Fabrique du Cinéma all’Aranciera di San Sisto e potrai concorrere all’ultima chance per partecipare a luglio alla Sezione Maremetraggio e chissà, aggiudicarti il premio di 10.000 euro!
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]]>Felicità.
Due estati fa Ciro mi chiamò per vedere il film alla tv del suo salottino-studio. Non lo sentivo da un po’ e mi fece un gran piacere. Faceva caldissimo, presi il motorino scappando dal lavoro (precario e sottopagato) che stavo facendo in quel momento per la Rai. Ciro era stanco e felice, aveva appena finito il montaggio del lungometraggio realizzato in poco più di una settimana, con l’attrezzatura che poteva entrare nell’utilitaria che gli avevano prestato. Nei 10 anni precedenti ha fatto diverse piccole regie, più che altro pubblicità e tentativi di fuga, ora ha 39 anni. Il suo film racconta l’ineluttabile sconfitta della nostra generazione, parla il linguaggio della nostra generazione ed è stato fatto con l’incazzatura della nostra generazione. Siamo quei figli che nel migliore dei casi crescono con un pensiero critico, perché in Italia si studia tanto, e finiscono con le lauree in mano a spiegare ai genitori che è inutile spedire cv. Il suo appartamento, quello dove mi aveva invitata a vedere il film, è anche il set di Spaghetti Story. Coi mobili girati, ma si riconosce. Quel giorno sulla scrivania aveva pacchetti per spedizioni, inviava copie del film a produzioni e registi per cercare di dargli una distribuzione, mi disse che solitamente non riceveva risposte. Io gli dissi che la forza del film era averlo realizzato, che l’avrebbe dovuto promuovere spingendo sul fatto che era costato meno di 15mila euro e che era stato realizzato in 11 giorni. Mi pareva l’unico “titolo” possibile per quella storia. Ma Ciro mi disse che non voleva si sapesse il budget, o almeno non subito, perché avrebbe voluto che la gente se ne incuriosisse in modo sincero e non viziato dall’etichetta low budget, anzi no budget. Ciro aveva ragione e io avevo torto. Al cinema Aquila, al Pigneto, a Roma, qualche mese dopo il film riempiva le poltrone mentre i film dei “grandi” andavano semi-deserti nella sala accanto. Gli avevano concesso due giorni, c’è rimasto 13 settimane. Altri cinema lo cercavano e le copie avevano iniziato a girare in Italia. E Ciro se andava all’estero per portarlo ai festival, fino a Mosca e a Dhaka, prendendosi sempre un sacco di applausi alla fine delle proiezioni. Si era creato da solo un bel sito web, pubblicato su YouTube i trailer e i cortometraggi con gli stessi protagonisti che anticipavano in qualche modo quello che sarebbe stato il film (il corto Salame milanese ha 260mila visualizzazioni), una pagina Facebook piena di fan. Spaghetti story non sarebbe arrivato dove sta ora se non ci fosse stata la
Rete
Il film è a tratti ingenuo e ha tanti difetti. Sono esattamente l’ingenuità e i difetti che ne fanno trasparire l’urgenza. C’era qualcosa di importante che stava dentro una storia talmente realistica da poter essere girata su quel divano. La storia dei protagonisti è anche la storia di Ciro e anche la mia, e forse la vostra. Trentenni che invecchiano faticando per crescere. Mi pareva bello, diciamo disneyano, pensare che il cinema si potesse inventare esattamente come qualunque altro mestiere quando lo si vuole davvero. In quel periodo mi era capitato di intervistare registi come Gianni Amelio e Marco Bellocchio (per una rivista no budget pure quella), loro mi dicevano sempre la stessa cosa, che oggi fare cinema è più facile per i giovani, basta una spesa minima con l’attrezzatura digitale, il problema è solo trovare qualcosa da dire. Il problema, infatti, è quell’urgenza. Ovvio che i film non si possono fare con 15mila euro, ovvio che chiunque merita una paga dignitosa, dall’attore al fonico. E ovvio dunque che quel che ha fatto Ciro non è l’obiettivo, ma forse può essere un mezzo. Io non so se Spaghetti story vincerà un David, però mi piacerebbe vedere come sarebbe. Mi piacerebbe anzi che qualcuno desse a Ciro 9milioni di euro per fare il prossimo film e magari che ne desse solo 15mila a Sorrentino. Così, tanto per provare cosa potrebbe succedere in un’Italia per una volta alla rovescia.
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