Rocco Fasano Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Tue, 25 Jul 2023 10:50:25 +0000 it-IT hourly 1 Tiziano Russo: da Skam Italia a Noi anni luce https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/tiziano-russo-da-skam-italia-a-noi-anni-luce/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/tiziano-russo-da-skam-italia-a-noi-anni-luce/#respond Tue, 18 Jul 2023 12:23:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18595 Salentino, con una solida esperienza dietro la macchina da presa costruita tra spot e videoclip sempre con uno sguardo creativo al servizio dell’umanità delle sue storie, Tiziano Russo ha girato le immagini per canzoni di musicisti come Ghali, Francesco Gabbani, Boosta, Negramaro. Qualche cortometraggio e poi Skam Italia, il format internazionale di finzione Netflix. Ma […]

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Salentino, con una solida esperienza dietro la macchina da presa costruita tra spot e videoclip sempre con uno sguardo creativo al servizio dell’umanità delle sue storie, Tiziano Russo ha girato le immagini per canzoni di musicisti come Ghali, Francesco Gabbani, Boosta, Negramaro. Qualche cortometraggio e poi Skam Italia, il format internazionale di finzione Netflix. Ma è con Noi anni luce che esordisce alla regia cinematografica uscendo in sala il 27 luglio distribuito da Notorious Pictures, presentandolo prima al Festival di Giffoni il 23 luglio.

Carolina Sala, vincitrice del Fabrique Award 2022 per Vetro, in quest’altra opera prima diretta da Russo è con Rocco Fasano. Interpretano due ragazzi che s’incontrano in ospedale per un problema di leucemia. L’incipit narrativo  usa la malattia, con leggerezza e serietà, come leva per raccontare la vita e la crescita di una ragazza insieme a una madre un po’ ansiosa che ha il volto di Caterina Guzzanti.

Dalla regia di una serie come Skam Italia al film Noi anni luce, com’è avvenuto il tuo passaggio?

È stato tutto piuttosto automatico. Il film l’ho girato meno di un anno fa, ma si è incastrato perfettamente trai set di Skam 5 e Skam 6. Li ho vissuti quasi come un unico grande lavoro, anche se il film ha una storia a parte che ho provato a portare in scena cercando più autenticità possibile. Quindi non ho avvertito un grande salto tra serialità e cinema perché ho lavorato con il mio stesso modo di rappresentazione, di fare cinema.

Noi anni luce sembra racchiudere molti generi: dramedy, medical, road movie, ma soprattutto il coming of age. Qual è stata l’impostazione originaria della narrazione?

L’ho sempre presa come una storia di formazione, un coming of age. Tutti gli altri generi per me sono leggibili come sottotracce. Ed è inevitabile perché trattiamo la storia di una diciassettenne che a causa della malattia scopre di avere un mondo intorno fatto di rapporti, evoluzione, esplorazione e crescita. Nel mio modo di raccontare cerco di essere più vicino alla verità e ai giovani. Nella luce e nel buio. E nei coming of age proprio a quell’età ti arriva qualcosa addosso, così inizi a cambiare perché capisci che c’è davanti una vita. 

E questo l’hai fatto anche con la malattia, che hai toccato in maniera molto discreta, delicata, ma senza pietismi.

Sì, per questo motivo avevamo un referente. La malattia c’è, nel film costituisce il motore orizzontale che porta avanti la storia, e per questo il confronto con un medico anche in scrittura è stato fondamentale. Lui ci diceva che la malattia è fatta di grandi curve, picchi alti e bassi. Quindi non si può raccontare solo i momenti bassi di una malattia, solo la sofferenza, altrimenti se ne perde il realismo. Noi l’abbiamo affrontata con la giusta distanza perché nel film la malattia smuove anche qualcosa di bello, per assurdo. Michela Murgia ha detto che il periodo più libero della sua vita è iniziato paradossalmente con la sua malattia. “Faccio quello che voglio, dico quello che voglio: sono libera”. Secondo me lo è sempre stata, ma adesso ancora di più. Vedo questa libertà come la possibilità di mettere da parte la malattia. Raccontarla, ma tenendola a debita distanza.

Come hai scelto il cast di attori, e come hai lavorato con loro, e soprattutto con i protagonisti?

La ricerca non è stata facile. Ho fatto tantissimi provini, ma sempre con le idee chiare. Rocco Fasano lo conoscevo da Skam 5, e sapevo di avere un attore capace di muoversi in un linguaggio di spensieratezza. Carolina Sala mi sembrava perfetta invece perché apparentemente distante, ma con dentro la voglia di esplodere per comunicare. Ha un viso angelico ma deve affrontare una cosa più grande di lei. Poi una figura ironica, comica come Caterina Guzzanti affronta un personaggio nuovo. Lei è stata molto felice perché per la prima volta interpretava una madre, in più seria, drammatica. Ho scelto personalità molto diverse fra loro per renderle più simili a una famiglia vera e propria.

Tiziano Russo
Tiziano Russo sul set.

I due protagonisti sono molto giovani ma già con solide esperienze alle spalle. Cosa ti hanno donato lasciandoti sorpreso?

Fino al primo ciak la mia paura era: “Ce l’ho la coppia, si o no? Riuscirò a creare questa simbiosi?” Io faccio sempre delle prove a casa mia, e ci eravamo stati tre settimane. Già lì c’era una chimica, provando le scene più importanti. Ma dalle prove al set tutto può cambiare. Quello che mi hanno ridato è stato l’ascolto. Ho trovato due ragazzi che sanno come ascoltarsi, sono completamente aperti a ogni tipo d’informazione e richiesta. Sono grandi studiosi, presenti e attentissimi nel dedicarsi al copione. Mi hanno fatto felice.

Anche la musica svolge un ruolo importante. Oltre al tuo pezzo ci sono anche i ComaCose.

In un film di questo tipo c’è la possibilità di muoversi in diversi generi musicali. C’è anche Fulminacci, Filippo è un amico e amo la sua musica. I ComaCose coprono il finale, ma tengo molto anche a La musica di FORTE con Fulmini. C’è anche musica internazionale però. Come gli Isaac Delusion, con Isabella. Mentre io non sono musicista, cazzeggio con la chitarra, però una volta registrando voce e chitarra in camera ho pensato d’inserire una mia cosa per la scena del falò, che doveva dare un po’ l’idea dei sensi annebbiati. Così la mia imperfezione diventava perfettamente adatta a quel contesto. 

Quali sono i tuoi autori di riferimento e il cinema di cui ti nutri di più?

A Sergio Bassetti del Centro Sperimentale devo tantissimo, mi ha iniziato a tutto il cinema di Polanski. Poi con gli anni i riferimenti cambiano insieme allo sguardo. Oggi tra Bong Joon-ho e  Yorgos Lanthimos non saprei chi scegliere. Li guardo con grande rispetto… e da lontano! Spero di avvicinarmi piano piano, con umiltà. Ho 37 anni e ho notato che ogni decennio cambiano i riferimenti e questi tre registi dominano i miei tre decenni di vita e cinema.

Quali saranno i tuoi prossimi set?

Skam 6 l’ho finito di girare tre mesi fa, quindi adesso siamo in post-produzione.  Ora esce Noi anni luce e voglio godermi il momento. Lo presentiamo anche al Festival di Giffoni, e l’idea di incontrare così tanti ragazzi è molto stimolante. Dopo vorrei esplorare anche nuovi generi, nuovi scenari. Per l’anno prossimo ho già in cantiere una cosa, che non sarà un teen. Questo posso anticiparlo: sarà un dramedy con personaggi adulti.

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Rocco Fasano: sento la rivoluzione sulla pelle https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/rocco-fasano-sento-la-rivoluzione-sulla-pelle/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/rocco-fasano-sento-la-rivoluzione-sulla-pelle/#respond Thu, 14 Apr 2022 19:21:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17071 Strano a dirsi, ma chi esordisce oggi ha almeno tre vantaggi: ruoli, piattaforme e social. Uno chiama l’altro, e sono tutti figli della stessa epoca: quella in cui può finalmente esistere un personaggio teen omosessuale e bipolare come Niccolò Fares (Skam Italia). Se quel ruolo e quell’interpretazione, poi, fanno anche innamorare il pubblico, e se […]

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Strano a dirsi, ma chi esordisce oggi ha almeno tre vantaggi: ruoli, piattaforme e social. Uno chiama l’altro, e sono tutti figli della stessa epoca: quella in cui può finalmente esistere un personaggio teen omosessuale e bipolare come Niccolò Fares (Skam Italia). Se quel ruolo e quell’interpretazione, poi, fanno anche innamorare il pubblico, e se hai davvero talento, allora la cassa di risonanza è enorme: in un attimo hai oltre 200mila followers che si aspettano qualcosa da te, come artista e come essere umano. Rocco Fasano, 29 anni, è il frutto di quest’epoca. Esponente di una mascolinità onesta e di una generazione che affida al cinema e alla serialità il potere del futuro: è a lui che Fabrique du Cinéma dedica la copertina del nuovo numero.

«Sappi che sono davvero emozionato, perché Fabrique lo conosco da almeno sette anni, ai tempi in cui iniziavo a muovermi in questo lavoro. Molti amici mi hanno introdotto a questa rivista e sono cresciuto avendola sempre presente, come riferimento di un magazine con una forte spinta indipendente e con lo sguardo rivolto alle novità di questo Paese. Quindi ora mi state dicendo che mi annoverate tra i nuovi volti dello spettacolo italiano?».

Ebbene sì, e a me sembra quasi ovvia la tua presenza qui. Secondo te quand’è che si crea un nuovo volto nell’immaginario collettivo, e cosa ti ha portato ad esserlo?

Me lo sono chiesto, e molto è da attribuire a Skam Italia. È stato uno spartiacque e non solo per me. Siamo riusciti a fare una serie nuova con un linguaggio nuovo, che affrontasse tematiche attuali parlando onestamente ai giovani e dei giovani. Skam Italia è nato come un esperimento sociale, fortemente e orgogliosamente europeo, inizialmente fondato solo sul passaparola.

Basta guardare le ultime edizioni di Sanremo per capire che un nuovo volto si posiziona laddove al pubblico manca un elemento di identificazione e c’è un vuoto da riempire. Rocco-persona e Niccolò-personaggio che vuoti hanno colmato?

Mi azzardo a fare un’ipotesi: forse le mie performance rientrano in un filone di scelte che appartengono un po’ allo stesso mondo. Nel caso di Niccolò è stata una delle prime rappresentazioni a rifiutare la mascolinità tossica. Ma parliamo sempre di personaggi maschili pronti a non insabbiare, nascondere e demonizzare la propria vulnerabilità. Quelli sono fardelli culturali che ci portiamo dietro dal secolo scorso. Ecco, un personaggio come Niccolò riconosce la propria fragilità, la studia e ne trae forza. E io, da performer, ho fatto lo stesso processo su di me. Ci credi che è stata una gioia?

Ci credo sì. Non a caso i giovani si identificano molto in te: merito del tuo attivismo, dell’aspetto un po’ androgino, dei ruoli?
Non ne ho una percezione chiara, ma so che vorrei essere una figura propositiva che non ha paura di esprimersi né a livello artistico né come essere umano. Per me questo mestiere è una fede da prendere di pancia. Questa è la generazione del turning point, parliamo di realtà che loro vivono tutti i giorni. Penso subito a Euphoria, che per me è l’esempio di serie tv perfetta. Si rivolge ai giovani in maniera accattivante e brillante, con proprietà di linguaggio e cognizione di causa. Ma nel nostro paese mancava qualcosa del genere.

Borderline e omosessuale in Skam, in Non mi uccidere (su Netflix) porti in scena una metafora “supernatural” della manipolazione maschile e dell’annichilimento giovanile. E sei un attivista antifascista in Hotel Portofino su Sky, in mezzo a un cast internazionale. La senti giusto un po’ di responsabilità?

Eh… [ride]. È vero quello che dici su Non mi uccidere, lì incarno un esempio negativo: è una favola nera che si concentra sull’affrancamento della figura femminile da una serie di figure nocive. Per molti versi il film mostra la liberazione di donne che non accettano di farsi sottomettere. Gli uomini che orbitano attorno sono presenze-zavorre che provano a manipolarle. In qualche modo le tematiche sono sempre quelle, no?

Siete stati la prima generazione di attori a doversi confrontare anche con i social. Senti la responsabilità di sfruttarli per il bene del progetto?
Bella domanda, anche perché oggi non c’è un libro delle regole. Credo sia imprescindibile, da lì passa la promozione del progetto ma anche un approccio culturale. Il paradigma sociale è cambiato: come lo ignori un fatto del genere? Se diventi un personaggio devi per forza barcamenarti. Non mi dispiace avere un dialogo con chi mi segue, lasciare una traccia virtuale del mio percorso. Rimango prudente, però: mi spaventa l’idea che si finisca ad aver paura di rivolgere la parola a un ragazzo o a una ragazza.

Siete tanti, siete amici tra voi, uniti ma in rappresentanza di identità diverse. Stai attraversando una piccola rivoluzione?

Io devo dire, senza esagerare, che sulla pelle un po’ la sento questa rivoluzione. Sono anni turbolenti, ma possiamo fare la differenza. Con i media e come singoli. Se ci esprimiamo davvero e se facciamo tutto quello che vogliamo fare, senza paura, noi possiamo realizzare un cambiamento anche con l’intrattenimento.

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Fotografa Roberta Krasnig, Assistenti Sonia Pagavino, Elisa Mallamaci; Stylist Stefania Sciortino, Assistente Giulia Laface; Capelli Adriano Cocciarelli@Harumi; Makeup Ilaria Di Lauro; Abiti: Diesel, Gucci; Prodotti per capelli: Body e Sun Schwarzkopf Professional; Location: Studio 21 – Roma

 

 

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Andrea De Sica, “Non mi uccidere” e qualche film anni Ottanta: «Volevo un horror imbastardito» https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/non-mi-uccidere/ Wed, 05 May 2021 13:26:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15525 «È appena tornato in libreria Non mi uccidere, il libro di Chiara Palazzolo. C’è una postfazione di Gianni Romoli che racconta la genesi del film e il rapporto con la scrittrice, i suoi obiettivi quando io ero molto più piccolo. E un po’ non esistevo. Mi piace perché la seconda parte di questa postfazione racconta il […]

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«È appena tornato in libreria Non mi uccidere, il libro di Chiara Palazzolo. C’è una postfazione di Gianni Romoli che racconta la genesi del film e il rapporto con la scrittrice, i suoi obiettivi quando io ero molto più piccolo. E un po’ non esistevo. Mi piace perché la seconda parte di questa postfazione racconta il mio arrivo».

Confesso di averle pensate tutte prima di vedere il secondo film di Andrea De SicaNon mi uccidere. Scettica, forse, di fronte alla reference dell’horror, del teen e perfino di Baby, oltre a un’inevitabile quanto superficiale – ho scoperto poi – connessione con Twilight. Ho cambiato idea dopo pochi minuti: De Sica è uno che ha compreso come generi prolifici quali l’horror o il thriller vadano riconsiderati a partire dai codici di tensione e action. Usa una storia d’amore teen come pretesto, punta tutto su Alice Pagani (e riesce a tirarle fuori un personaggio vero) e tenta quello che da spettatore vorrebbe vedere: violare i cliché.

Mi è piaciuto molto l’obiettivo che ti sei posto di fronte ai codici del genere: provare a rimetterli in discussione partendo proprio dalle reference più ovvie. Cos’è che volevi evitare?

Di fare la copia degli horror americani classici degli ultimi trent’anni, che sono a soggetto prettamente claustrofobico. Da Saw L’enigmista, capolavoro che fece anche da apripista, tutta la new wave degli anni Duemila è basata sulla location singola, dove l’incombenza della minaccia esterna viaggia sull’ora e mezzo di film. In Non mi uccidere neanche ti immedesimi con la vittima. È un film dove la protagonista diventa il mostro: già in questo per me c’era un ribaltamento di quella formula. E poi volevo evitare quello che in Italia vedo come un ritorno a un cinema action di genere, dove però l’action è più un’esposizione virtuosistica e coreografica. Tenevo molto all’action, perché non l’avevo mai fatta, ma se la uso sono passaggi drammaturgici importanti. Non volevo inserirla solo perché è figo che si sparino e che scoppi una testa come un melone. Non a caso la grande scena action del film è il momento di coming of age di Mitra: la vera catarsi del film avviene attraverso il combat e la violenza. Questa per me era una sfida.

L’action non è mai gratuita ma poi quando la inserisci ci vai giù pesante, superando sicuramente il primo accostamento a Twilight. Alcune scelte sono molto crude: hai avuto carta bianca o sei dovuto scendere a compromessi?

Il problema è quando l’abbrutimento fisico e la violenza diventano sadismo, ma per il resto mi sono sentito libero di fare quasi tutto. Che poi l’abbrutimento psicologico può essere molto più horror, pensa a Gaspar Noé, che amo e mi repelle allo stesso tempo. È un sadico provocatore: lo ami o lo odi? Io non volevo esserlo, però: volevo essere crudo attraverso uno spirito più realistico. Stavo raccontando la storia di una ragazzina che deve mangiare e vampirizzare gli altri e questo mi permetteva delle licenze, chi l’ha prodotto e distribuito ha avuto un’adesione quasi totale, trovandosi preparato di fronte alla sceneggiatura.

Su un paio di scene avrei voluto chiudere gli occhi: hai pensato a come sarebbe stato l’effetto in sala?

Mi viene in mente la sequenza dell’unghia. Ecco, un po’ rosico: sono scene horror immaginate per la sala. Il vero divertimento quando realizzi questo tipo di film è pensare a una sala in cui senti il sussulto di massa. Quando ho scoperto che non saremmo usciti al cinema mi sono depresso brutalmente. A oggi è stata comunque una scelta felice.

Non mi uccidere
Alice Pagani-Mirta protagonista di “Non mi uccidere”.

Pensi che un’uscita in sala dopo il lancio su piattaforma potrebbe essere vincente?

Lo stanno facendo tutti, quindi credo di sì. È buono che il pubblico possa anche scegliere, è una forma di modernità. Credo fosse un processo già in corso, il Covid lo ha solo velocizzato.

Ultimamente ho studiato la serie The Sinner, straordinaria nel rilanciare nuovi codici di tensione. Lì si lavora molto per sottrazione, e ho notato anche in te la volontà di contenere anziché sfoggiare: c’è stata?

Assolutamente sì, anche perché diventava noioso e ripetitivo pensare alle scene action e di violenza e chiedersi “adesso come la facciamo?”. Il cinema vive del fotogramma ma anche di quello che resta fuori dal fotogramma: il fatto che ci siano dei momenti in cui noi intuiamo ma non vediamo, accende di più la fantasia e il ruolo attivo dello spettatore, anziché mostrare tutto in modo compulsivo. Molti passaggi in sceneggiatura li ho tagliati e sottratti proprio sul set, mi sembrava un’esagerazione e un inutile dispendio di energie.

Per esempio?

Il finale era molto più lungo, ma uno dei “cattivi” rischiava di diventare un Terminator e mi sembrava grottesco. Quando scrivo e non vedo l’immagine tendo a essere ipertrofico ed esagerare, ma quando giro cerco di trovare l’equilibrio. Quindi mi fa piacere che tu me lo dica: significa che in fase di riprese ho capito quali erano le cose essenziali. E di fatto, per me, la cosa essenziale era lei. Non volevo perdermi in una parodia di un film anni Ottanta. Sono rimasto fedele alla mia protagonista.

Anche nei confronti del sesso c’è un’attenzione diversa, rispetto alla solita acrobazia sexy e soprannaturale tra vampiri.

La prima scena di sesso è in stile Il tempo delle mele, mentre la seconda è in stile Dracula di Bram Stoker. È una simmetria ricercata, per evidenziare il cambiamento di Mirta. Nella prima lei sta sotto, è spaventata, c’è il rito teen della perdita della verginità. Ma la seconda volta è un essere ormai assetato di sangue, che prende per il collo lui e lo tiene fermo. C’è un riscatto femminile anche fisico, percepito sia da lui che da noi: lei non è più Mirta.

E nella catarsi di Mirta la musica gioca un ruolo importante. Rispetto a Baby c’è un modo diverso di inserirla e renderla godibile, senza che il ritmo delle scene vada a interromperla. Da cosa è dipeso?

Quello è un peccato e tu hai ragione a notarlo. Nelle serie bisogna tenere un ritmo legato al linguaggio. È una legge orrenda fondata sulla paura che il pubblico “cambi canale”, quando invece da un punto di vista tecnico sono stato totalmente libero. Baby ha una valanga di repertorio musicale però tagliato in modo serrato. Mentre nel film ci sono 4 pezzi di repertorio non nostro, usati fino alla fine. La scena della discoteca in cui Mirta inizia a compiere la sua trasformazione me la sono goduta davvero: 6 minuti di musica a raccontare una dannazione inesorabile in chiave moderna, non più sinfonica ma techno.

Sei stato anche un abile equilibrista nella scelta delle location. Dall’inizio dichiari: questo non è un horror americano, si ritorna in vita all’italiana, dal loculo di marmo anziché dalla terra. Allo stesso tempo hai creato un’ambientazione forte di certi scenari internazionali, come il bosco e i set notturni. Che registro hai seguito?

L’idea era quella di dare un doppio registro al film, tra passato e presente. Avrei dovuto iniziare a girare il 4 maggio 2020, ma è arrivato il lockdown. Ho continuato a lavorarci insieme ad Alice Pagani e quel tempo in più mi ha giovato anche per curare gli effetti prostetici, una cosa nuova per me. Ma nel frattempo è diventato un film estivo: come rendere il presente invernale e sporco che avevo immaginato, dove l’asfalto fosse dominante e il look in contrasto con il passato? La verità è che sono stato incredibilmente fortunato: ogni volta che giravo le scene con Alice “da morta” pioveva.

Quante settimane hai avuto a disposizione per le riprese?

7 settimane, e devo dire che è un film che ha avuto il suo budget, un’opera seconda girata con più mezzi rispetto all’esordio. Il budget poi non è mai abbastanza ed è comunque stato complicato: ci sono boschi di notte, il campo lungo per me aveva una sua importanza e nelle notturne va illuminato e scenografato in grande. Tra l’altro sono state 2 settimane a Roma e 5 in Alto Adige, dove i sopralluoghi sono stati complessi. Lì ci sono ambienti nuovi, molto freddi e impersonali, ma il nostro obiettivo era quello di “non sentire” l’Alto Adige. Per esempio il motel era un posto abbandonato degli anni Settanta, lo abbiamo restaurato con un’operazione di scenografia importante.

Tra l’altro avete anche utilizzato i led wall per alcune scene di camera car, giusto?

Rocco Fasano non aveva la patente, ho provato a fargli fare una guida in un parcheggio ma mi sono spaventato. Quindi con Francesco Di Giacomo abbiamo deciso di provare questa tecnologia nuova, ci siamo fatti mandare il materiale dalla serie Devils. Abbiamo alternato riprese con gli stunt in una strada bellissima e solo nostra, la Val D’Oca, chiusa perché pericolante. Poi abbiamo costruito un led wall in un capannone industriale per girare l’interno auto con Alice e Rocco. Con un montaggio efficace si crea davvero quell’illusione di velocità dentro l’auto.

La tensione riuscita nel film dipende anche molto dal look. Avete girato in anamorfico: come siete arrivati alla scelta delle lenti?

Sì, era la prima volta per me. Abbiamo usato delle Cooke Anamorphic. Ora va molto di moda ma devi anche trovare il film giusto per farlo, c’è un rapporto con gli spazi diverso. Francesco Di Giacomo ha insistito da subito e io mi fido molto di lui. Mi piace la sensazione allucinatoria del film dovuta anche a questa scelta. La luce non arriva mai in modo teatrale, lavoriamo sempre sulla scena. In generale io tenevo molto alla pasta e alla sporcizia, volevo che il look del film fosse rovinato e restituisse come un senso di “abrasività” della vita. Rompevo davvero a tutti sulla sporcizia, appena vedevo una cosa pulita e ben fatta inorridivo.

Non mi uccidere
Rocco Fasano è il protagonista maschile.

Per la color vale un po’ il discorso delle location: siete completamente in trend ma allo stesso tempo evitando i vizi del trend attuale, su tutti la dominante gialla e verde e lo stile dei flashback.

A noi piace sempre pensare in controtendenza. Come nel finale: anziché farlo asettico, freddo e monocromatico, ci trovi tutti i colori del mondo. In America lavorano proprio sull’armonia cromatica. La color è molto bella perché Francesco le ha dato queste tonalità particolari, azzardando e impastando i colori. Certe dominanti sono sempre un po’ virate, ma mai troppo. Dev’esserci una piacevolezza nel guardare il film, il colore non deve creare una distanza di fondo. Qui mi porto dietro il sapore del fumetto e del cinema coreano: volevo fare un film imbastardito di molte cose che mi piacciono. Se nel 2021 fai l’horror come già ti aspetti che sia, dopo un quarto d’ora ti chiedi: ma perché?

A proposito di aspettative: Alice Pagani qui le supera. C’è stato un level up significativo. Come avete lavorato su Mitra?

[Ride ndr] Sono contento, vedo che Alice in questo film è piaciuta quasi all’unanimità. La storia di Mirta coincide con la storia di Alice Pagani, che si è messa sulle spalle un monolite spaventoso che avrebbe potuto schiacciarla e che non era sicura di poter sostenere. Ci ha messo quattro mesi per riprendersi dal film, è stata massacrata in qualsiasi modo, ma è stata anche un samurai perché non ha mai mollato. Voglio dire: è rimasta tumulata dentro una bara in mezzo ai morti veri per mezz’ora, al buio, solo con una radiolina attraverso la quale le parlavo. E non ha detto niente. Insieme abbiamo lavorato sulla chiave per non rendere il morto statico, da quando risorge al modo in cui si muove e parla.

Su di lei avete anche utilizzato delle lenti a contatto piuttosto invasive.

Sì, sono difficilissime da sostenere e seccano davvero l’occhio. Praticamente le ho chiesto di fare una scena in cui aveva un dialogo emotivamente forte, in cui le sparavano, esplodeva e doveva piangere con le lenti a contatto. Alice ha avuto il sangue addosso anche per dieci ore di fila, le ha causato delle reazioni epidermiche che per il suo lavoro possono essere un problema.

Quindi sei un sadico o era davvero necessario?

No, per me a quel punto del film bisognava stare là. E lei ne era consapevole. Ha grandissima lucidità nel capire cosa sto facendo, ormai lavoriamo insieme da un po’ di tempo.

Eri sicuro dall’inizio che Mirta dovesse essere lei?

Abbiamo iniziato a parlare di questo film durante la stagione 1 di Baby, le ho fatto un provino: volevo che capisse che niente era scontato e volevo vedere come si sarebbe posta dopo essere diventata famosa con Baby. Perché qua dovevo trovare un’attrice che fosse pronta a tutto. E lei c’è stata. Adesso adora il film e lo sente come un figlio.

Adesso sei a uno snodo importante della tua carriera: da qui in poi ogni mossa pesa.

È come una partita a scacchi, sembra Il settimo sigillo! Qualsiasi regista ha l’ansia del fallimento, ma non deve diventare un’ansia da prestazione. Quella ti rovina sia la vita che il modo di lavorare. Per me è così: c’è un filo tra I figli della notte, Baby e Non mi uccidere, ma sono anche progetti molto diversi. Spero che il prossimo progetto non sia niente di prevedibile. Magari farò un terzo film e poi riprenderò il secondo capitolo di Non mi uccidere, chissà. So solo che fare la stessa cosa all’infinito mi annoierebbe e in Italia c’è sempre la tendenza a riproporre quello che è piaciuto ed è andato bene: ecco, spero di rimanere libero il più possibile. Nel momento in cui non lo sarò più forse cambierò lavoro.

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Belva, il nuovo clip di Gazzelle girato in pellicola dai Bendo, con Rocco Fasano (Skam) https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/belva-gazzelle/ Wed, 03 Feb 2021 09:53:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15164 È uscito in questi giorni Belva, il nuovo brano di Gazzelle con il videoclip dei Bendo (Lorenzo Silvestri e Andrea Santaterra). I due must di quest’operazione sono sicuramente Rocco Fasano in versione mostruosa e la scelta di girare in pellicola. È stato proprio Gazzelle a volere Fasano come suo alter-ego: «Ho scelto Rocco perché appena abbiamo realizzato l’idea del video mi è venuto […]

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È uscito in questi giorni Belva, il nuovo brano di Gazzelle con il videoclip dei Bendo (Lorenzo Silvestri e Andrea Santaterra). I due must di quest’operazione sono sicuramente Rocco Fasano in versione mostruosa e la scelta di girare in pellicola. È stato proprio Gazzelle a volere Fasano come suo alter-ego: «Ho scelto Rocco perché appena abbiamo realizzato l’idea del video mi è venuto in mente che avrei voluto qualcuno con quella faccia lì, alla Robert Pattinson – ci racconta il cantante – Rocco mi sembrava perfetto, l’avevo visto in Skam e mi aveva colpito molto, sia per la faccia che per il suo modo di recitare».

Belva è la storia di un amore finito o forse sul punto di finire, che è perfino peggio. Ma è anche uno stato d’animo e un fare i conti con il proprio lato oscuro mentre una storia cade a pezzi. «La Belva per noi non era un costume ma una fase intermedia, una sorta di mutazione – ci spiegano i Bendo – Volevamo rappresentare un disagio profondo che, come scrive Flavio, deriva sempre dalle relazioni: il protagonista vive una storia alla deriva e si vede inappropriato, sbagliato, brutto».

Qui subentra l’urlo, con una rabbia e una disperazione a tinte horror: passando tra i canini da mannaro del protagonista, si sprofonda dentro di lui attraverso una discesa viscerale: è l’incontro tra la Belva e il suo vero io: «A un certo punto ti guardi dentro e ti chiedi: in che mondo sono? E finalmente tocchi il fondo. Quello è un luogo con un solo ingresso ma privo di uscite: solo lì ti confronti con te stesso e decidi di agire. Dopo la stanza rossa Rocco torna più libero e determinato: “Adesso vado da lei e la affronto”. E infatti finché siamo noi da soli con lui, ci appare mostruoso. Ma quando alla fine incontra la ragazza [Daphne Morelli, ndr] torna umano. Perché è Belva solo ai suoi occhi, con se stesso».

Belva videoclip di Gazzelle
Un frame da “Belva”

Il “fondo” è stato pensato dai Bendo come un limbo di pelo rosso 4×4 metri. Una stanza senza soffitto (dedicato all’illuminazione) e con un tendaggio d’ingresso (per i movimenti di camera). «È stata progettata come una sorta di canadese. La camera entrava fisicamente nel limbo assecondando la transizione che poi è stata fatta in VFX sull’ingresso nella bocca. Ovviamente Andrea Ferrarello [VFX, ndr] non ha dormito due giorni per realizzarlo!». 

Due giorni sono serviti anche per girare il videoclip, tra interni ed esterni con camera car, segnando una nuova tappa del percorso che lega il collettivo milanese al cantautore romano. «È stato come sempre un lavoro di gruppo con i ragazzi – racconta Gazzelle – Sviluppiamo insieme le idee creative e siamo arrivati a questa chiacchierando: il concept della Belva ha preso il sopravvento in modo naturale». I Bendo qui rilanciano con un videoclip interamente girato in pellicola, firmando la loro prima esperienza in Super 16: «Sembrava quasi scontato utilizzare un approccio analogico, in linea con la storia. La pellicola restituisce un’atmosfera unica e rende molto più romantico anche il trucco animale su Rocco».

Loro la definiscono, curiosamente, “un’esigenza”, ma la pellicola ha anche rappresentato una sfida: «Al monitor non si vedeva nulla. Ma è stato bello: abbiamo diretto la scena guardando solo la scena, alla vecchia maniera. Il vero dramma della pellicola è quello di finire i metri, e invece siamo stati talmente bravi, o forse terrorizzati, che la pellicola è avanzata. C’è stato un grande lavoro di preparazione, prima di iniziare abbiamo fatto un montaggio con lo storyboard sulla canzone spaccando il secondaggio. E in effetti, tutto quello che abbiamo girato è stato montato nel video».

«Il brano ha le sonorità degli ultimi anni Novanta-inizio Duemila, in linea con il percorso sonoro che Flavio [Flavio Bruno Pardini è il vero nome di Gazzelle ndr] ha intrapreso con quest’ultimo progetto. Per noi il video è ambientato nel ’97». Gazzelle lascia volentieri la scena a Fasano, senza mai comparire nel video: «Mi piacciono molto le scene in cui Rocco è in macchina e guida con quell’aria sollevata, libera, e allo stesso tempo confusa. La trovo molto potente e dentro al mood della canzone, all’atmosfera che la musica crea. Tutto merito di Bendo e di Rocco. Bravi tutti».

Credits
Regia: Bendo (Lorenzo Silvestri e Andrea Santaterra); Cast: Rocco Fasano, Daphne Morelli; Produzione: Antonio Giampaolo per Maestro Production; D.O.P: Leonardo Mirabilia; Colorist: Rosario Balestrieri; VFX: Andrea Ferrarello; Costumi: Noemi Intino; Special VFX e make-up: Vanessa Di Serafino

L'articolo Belva, il nuovo clip di Gazzelle girato in pellicola dai Bendo, con Rocco Fasano (Skam) proviene da Fabrique Du Cinéma.

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