Rai Cinema Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 15 Jul 2022 10:30:23 +0000 it-IT hourly 1 L’età dell’innocenza: il giudice, mia madre https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/leta-dellinnocenza-il-giudice-mia-madre/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/leta-dellinnocenza-il-giudice-mia-madre/#respond Fri, 17 Jun 2022 10:48:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17291 28 maggio 1974, Brescia. Una bomba nascosta in un portarifiuti esplode ferendo 102 persone e uccidendone altre 8, durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista. Una delle piazze più famose del bresciano diventa all’improvviso un sostantivo macabro del vocabolario italiano, come succede solo alle località colpite dalla cronaca nera: La strage di Piazza della Loggia. […]

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28 maggio 1974, Brescia. Una bomba nascosta in un portarifiuti esplode ferendo 102 persone e uccidendone altre 8, durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista. Una delle piazze più famose del bresciano diventa all’improvviso un sostantivo macabro del vocabolario italiano, come succede solo alle località colpite dalla cronaca nera: La strage di Piazza della Loggia. 43 anni dopo il giudice Anna Conforti pronuncia l’ultima sentenza del processo e della sua carriera: «È stato il momento in cui ho deciso di fare questo film, L’età dell’innocenza. Mi sembrava che stessimo vivendo tutti e due, in contemporanea, un momento di passaggio importante. Io me n’ero andato di casa da poco, mia madre stava per chiudere la sua vita lavorativa con una sentenza storica».

A parlare è Enrico Maisto, autore del docufilm L’età dell’innocenza, prodotto da Start e Rai Cinema e premiato al 62º Festival dei Popoli come Miglior documentario italiano. Attraverso lo spirito young-adult, e senza voler più trovare risposte né emettere “sentenze”, Maisto racconta la storia vera del distacco tra lui e sua madre, filmandola nel suo ultimo giorno di lavoro alla Corte d’Assise di Milano. «Pensa che all’inizio immaginavo un film molto più cupo, con un sentimento di lutto rispetto a un’epoca che finisce. Poi la commedia della vita è entrata a gamba tesa».

Dopo l’ultima sentenza la telecamera spia la coppia di genitori in cucina, dove regna un silenzio quasi mistico. Senza mai romperlo, il marito dà alla moglie una pacca leggera sulla spalla e poi un bacio, sempre piccolo e sempre sullo stesso punto. La delicatezza è quella dell’Amour di Haneke, ma senza messa in scena. «Due ergastoli. Chiudere una carriera con due ergastoli è pesantissimo, ti sconvolge anche se sei convinto che sia la scelta giusta. Tornati a casa dopo la sentenza, nell’aria c’era il senso della fine e anche il rendersi conto che tutti i telegiornali già ne stavano parlando. Mia madre, ovunque fosse in quel momento, era irraggiungibile. Solo lei può sapere cosa stava provando, noi le giravamo intorno senza capire come accarezzarla. Mio padre era l’emblema di questa tensione, e alla fine è venuto fuori un gesto molto semplice, che dice tutto di quel momento e di loro due».

Enrico Maisto è nato alla fine degli anni Ottanta, figlio di magistrati in un’epoca in cui esserlo conferiva un’aura di timore e insieme di ammirazione. «In quegli anni sono successe due cose fondamentali rispetto alla magistratura: le stragi, che hanno trasformato i giudici in martiri, e poi Tangentopoli, che prima li ha visti come degli eroi e poi, con l’arrivo di Berlusconi, ha rovesciato totalmente la loro immagine. Ma il periodo in cui erano sia martiri che eroi ha coinciso con il momento in cui io ero più piccolo, e questo ha lasciato un segno profondo. C’era anche la paura di perderli, che li ammazzassero. Arrivavano echi dagli anni di piombo, i delitti di mafia, quelli legati al terrorismo politico. L’aspetto di morte, lugubre e tetro, ancora risuonava. Così da piccolino mi è venuto da fare questo paragone tra la toga di mia madre e il mantello di Batman. Nel ’92 avevo quattro anni ed erano appena usciti i primi film di Tim Burton, che mi hanno investito in pieno. Non è un caso che il mio eroe preferito sia un orfano».

L'età dell'innocenzaImpenetrabile, ironica, mordace. Anna Conforti è un magistrato rigido e perso nei silenzi del film, che poi d’improvviso si fa carico di tutta una comicità materna dal retrogusto alla Zerocalcare (è uno spasso vederla uscire fuori dalla TV, mentre al telegiornale scorrono le immagini della sentenza, e andare a parlare col figlio assumendo quasi le sembianze di Lady-Cocca). «Mi sono reso conto che mia madre era un personaggio bellissimo, da film. Non ho fatto nient’altro che provocarla perché si potesse rivelare. Lei ha questi lampi, queste frasi che hanno un carattere quasi lapidario. A volte sono molto divertenti, altre molto incisive».

Tra le frasi più forti (rispetto a ciò che ci aspetta che una donna pensi e dica, ancora oggi) Anna confessa: «Non voglio giudicare più, e soprattutto non voglio più essere giudicata. Perché chi giudica alla fine viene giudicato sempre». Maisto commenta: «Vai a costruire le tue piccole trappole per provocare i bersagli del film ma poi succede qualcosa che ti spiazza. Quel momento rappresenta il logoramento che quel ruolo ha prodotto in mia madre in quarant’anni di professione. La fatica, il convivere con la paura del dubbio e dell’errore, il desiderio di liberarsi di questa toga. Non è un caso che quando lei dice di non voler più giudicare inizi anche un dialogo nuovo tra di noi».

«Mi sono innamorata di te e della maternità poco per volta… Che poi, quando c’ero riuscita, tu te ne sei andato. Che sfiga, eh?». L’altra frase è fulminante, eppure Enrico-figlio non solo la accoglie, ma da regista sceglie anche di inserirla nel film. «È una frase che ti rovescia addosso un bel senso di colpa. Esprime tutto il suo desiderio di volersi riappropriare di quello che ha perduto a causa del lavoro, di tutti i momenti della vita in un colpo solo». E di far pace con il periodo storico in cui Anna ha iniziato ad essere madre e giudice insieme, che ha più a che fare con le aspettative sociali mancate che con le mancanze di un genitore.

Divertito all’idea che il suo terzo film sia uscito in sala insieme a Top Gun: Maverick – «Ovviamente lo so solo io, Tom Cruise non ne ha idea» – Maisto nota che mentre Cruise è arrivato a pilotare aerei per far coincidere la sua persona con il personaggio (sul mito di quel cinema partito negli anni Ottanta che sognava da bambino), lui stia invece portando avanti una narrazione che «fa i conti con un uomo fragile e vulnerabile, diverso da quei modelli maschili introiettati in passato». Enrico incarna una dimensione generazionale, il conflitto di quelli nati sotto il segno dell’adolescenza perpetua e che non smettono mai d’essere figli. Il confronto con sua madre è spietato: uno va via di casa a trent’anni, l’altra chiude il capitolo di una strage italiana. Si scrutano e quasi non si conoscono: l’età dell’innocenza del figlio si conclude quando inizia quella della madre.

Questa è un’anticipazione dell’articolo che sarà pubblicato per intero sul prossimo numero di Fabrique du Cinéma, disponibile solo per gli abbonati: per abbonarti vai sulla pagina Fabrique du Cinéma/Abbonamenti

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L’angelo dei muri, il regista: “parlo delle paure che ci portiamo tutti dentro” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/langelo-dei-muri-il-regista-parlo-delle-paure-che-ci-portiamo-tutti-dentro/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/langelo-dei-muri-il-regista-parlo-delle-paure-che-ci-portiamo-tutti-dentro/#respond Mon, 06 Jun 2022 06:36:34 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17264 Esce il 9 giugno in sala L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini, sesto lungometraggio del regista friulano, prodotto e distribuito da Tucker Film in collaborazione con Rai Cinema e MyMovies e presentato per la prima volta nel 2021 alla 39esima edizione del Torino Film Festival. Interamente girato a Trieste con pochissimi cambi di scenografia, L’angelo […]

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Esce il 9 giugno in sala L’angelo dei muri di Lorenzo Bianchini, sesto lungometraggio del regista friulano, prodotto e distribuito da Tucker Film in collaborazione con Rai Cinema e MyMovies e presentato per la prima volta nel 2021 alla 39esima edizione del Torino Film Festival.

Interamente girato a Trieste con pochissimi cambi di scenografia, L’angelo dei muri segue le vicende dell’anziano protagonista Pietro (Pierre Richard), il quale, sottoposto a sfratto dalla casa dove ha abitato tutta la vita, decide di nascondersi tra i muri e il buio silenzio dell’abitazione piuttosto che doversene separare. Presto, però, l’entrata di due nuove inquiline, madre e figlia (Zala, interpretata da Iva Krajnc, e Sanja, interpretata da Gioia Heinz) mette a repentaglio la ritrovata tranquillità di Pietro, che, nascosto come un “angelo” tra le pareti, si troverà ad affezionarsi lentamente alla piccola Sanja, quasi completamente cieca e alla ricerca di un amico con cui dividere il tempo nella grande casa vuota. Ma l’amicizia tra Pietro e Sanja porta alla luce le tenebre interiori del protagonista.

 

L’angelo dei muri è tutto ambientato in una casa, eppure il contesto cittadino e triestino è ben presente, dalle vie alla lingua dei protagonisti. Anche le tue opere precedenti sono fortemente legate alla tua terra d’origine, il Friuli Venezia-Giulia. Spesso hai detto che non è tanto la terra a ispirarti una storia, ma la storia stessa che si mette in dialogo con la terra. È stato così anche per questo film?

Per me il racconto di una storia parte sempre dal legame con quello che hai vissuto nella tua terra, nei luoghi che hai abitato. E questo avviene sia culturalmente che spazialmente, e in modo molto naturale, come un lascito. Nel caso de L’angelo dei muri ho voluto inserire sia elementi di contesto cittadino e triestino, come gli scorci dei palazzi austro-ungarici e l’atmosfera plumbea che gravita su tutto, ma anche particolari più intimi, rielaborando sui ricordi della mia infanzia. Quindi abbiamo ombre, suoni, grandi stanze e le paure che si generano a contatto con questi ambienti… tutti dettagli che ho assorbito passando molta della mia infanzia in montagna, nella grande casa che avevano i miei nonni.

La storia comunque non risulta mai localistica, anzi, si fa portatrice di un messaggio valido in qualsiasi luogo e tempo.

Questo per me è un paradosso felice, perché sono convinto che sia la potenza di una storia a darle portata e rilevanza. Se una storia raggiunge la completezza traendo la propria forza dall’humus in cui è cresciuta, allora toccherà corde che suonano simili, se non uguali, in tutte le anime. Questa è la grande potenza della narrazione: sapersi rendere universale, essere come una forma adattabile al contesto di provenienza di ognuno. E in questa dinamica c’è una dimensione che mi è particolarmente cara: quella della solitudine, dell’introspezione che ne consegue e dei suoi corredi e correlativi emotivi. Spesso si parla di questo quando si parla di paure, e nei miei film sono spesso le paure a catalizzare le indagini interiori dei protagonisti. Perché ognuno si porta dietro paure diverse e parole diverse per descriverle. L’essenza, però, è una, e valida per tutti gli esseri umani.

Tra l’altro di solitudine tu hai sempre parlato, e in modo, mi sembra di percepire, affezionato. Come una vecchia amica che porti con te e che fornisce combustibile alla voglia di narrare. Ragionamento che imbocchi decisamente nel film, dove, oltre a Pietro, protagonista sembra essere la rarefazione… 

Con la solitudine ho iniziato a ragionare più approfonditamente da Occhi, verso il 2007, e poi dopo con Oltre il guado (2013). L’angelo dei muri è però sicuramente, a oggi, il mio punto più alto di espressione della solitudine. E tutto parte in effetti da lì, dalla rarefazione, sia dal punto di vista scenografico che di quello che è la resa visiva finale. Regnano i silenzi, le parole pronunciate dagli attori sono pochissime e il vero dialogo che s’instaura è quello tra il rumore e l’assenza di rumore. Quindi si crea un enorme spazio vuoto, vuoto sotto ogni punto di vista, ed è attraverso questo vuoto che si può descrivere la solitudine sotto la forma dell’introspezione e della genesi delle paure. Paure che a me piace chiamare “neorealiste”, cioè comuni, con cui chiunque può entrare in empatia e fare i conti.

L'angelo dei muri

Una cosa che colpisce molto, all’inizio del film, e che sembra porsi come manifesto di questo approccio alla solitudine, è il piano sequenza di apertura: minuti interi dove domina la tecnica cinematografica nella sua versione più genuina, dove la camera non fa altro che muoversi nel silenzio, contravvenendo all’abitudine che vuole questo tipo di ripresa supportata da grandi musiche e ritmi.

Assolutamente sì. Io sono molto affezionato al piano sequenza, che considero la ripresa a maggior portata narrativa del cinema. Il piano sequenza è l’unico momento di un film in cui puoi esperire il tempo, in cui il tempo non è manipolato dal montaggio ma, semplicemente, scorre, è presente. E, percependo il tempo, ci si immedesima, ci si cala nel pathos del momento, si ritorna a una specie di battito cardiaco primitivo, un bioritmo del tutto nostro che, però, stiamo perdendo nei tempi sempre più frenetici che viviamo. Quindi questo battito, così come il piano sequenza, per me significa fermarsi, rallentare, indulgere nella dilatazione temporale, così che si creino “finestre” per l’introspezione. Inoltre, per L’angelo dei muri il percorso del piano sequenza di apertura traccia un vero e proprio risveglio per il protagonista. Il passato bussa alle porte della mente, il sogno muore e bisogna fare i conti con la propria realtà interiore.

Torniamo un attimo all’elemento della paura di cui parlavamo prima. L’angelo dei muri può essere letto come una “favola nera”, per quanto risulti però diverso dai tuoi film precedenti, che virano decisamente all’horror. Puoi parlarci meglio di questa diversità?

Naturalmente non si può parlare de L’angelo dei muri come di un horror, perché è piuttosto un dramma psicologico. L’elemento della favola, e della favola nera, deriva molto dalla fisicità dell’attore protagonista, Pierre Richard, perfetto per qualsiasi adattamento dell’opera dei fratelli Grimm. Sul concetto dell’horror però mi piace sempre dire che, per me, ha soprattutto a che vedere con l’orrorifico, per tornare al punto delle paure che ci portiamo dentro. Mi piacerebbe che i confini della nozione di horror si allargassero, che uscissero dal senso comune che lo avvicina più a una sequenza di jumpscare o agli slasher movie. Se l’idea del film di genere contemplasse anche la dimensione emotiva e non solo puramente visiva di ciò che si porta sullo schermo, probabilmente l’etichetta di “horror” potrebbe descrivere molte più cose di quelle che ci immaginiamo canonicamente. Ed è qui che torniamo a quello che mi piace chiamare neorealismo delle paure, un dare corpo, e volto, a quello che ci portiamo dentro.

Pierre Richard in L'angelo dei muri
Pierre Richard in “L’angelo dei muri”.

Pierre Richard ha quindi avuto un ruolo fondamentale nel dare al film la sua veste finale?

La mimica e il modo di portarsi sul set di Pierre sono stati elementi fondamentali. E la sua prova attoriale è stata, a mio modesto parere, da manuale, perché la sfida principe de L’angelo dei muri era sorreggerne l’impianto narrativo, e si parla di un’ora e tre quarti, usando solo la fisicità e l’espressività di un uomo anziano, fragile, schiacciato dal suo passato. Appena ho visto Pierre, mi sono subito convinto su di lui.

Parliamo della produzione de L’angelo dei muri, perché la tua carriera registica inizia nell’autoproduzione per poi transitare da piccole produzioni e, ora, arrivare a una produzione più strutturata. Com’è avvenuto questo salto?

Lavorare con una produzione più grande è stato un grandissimo piacere, e poter avere il supporto di una squadra più articolata è stato fondamentale per portare a termine la realizzazione del film com’era nell’idea originaria. Paradossalmente, però, ci siamo fermati a tre/quattro attori e praticamente una sola location di ripresa. Ovviamente, la maggior disponibilità anche in senso economico ha permesso, per esempio, di scritturare un attore del calibro di Pierre Richard. Allo stesso tempo, però, avere avuto esperienze di autoproduzione si rivela secondo me sempre utile quando si tratta di coordinare le operazioni sul set: hai conoscenza di prima mano del lavoro delle altre figure e questo ti fornisce una visuale molto più chiara delle tempistiche e dei passaggi da mettere in campo.

Quindi questa sarà la strada dei prossimi progetti? Puoi già darci qualche anticipazione?

Di sicuro voglio portare avanti entrambi questi filoni di produzione, quello in solitaria e quello di una produzione esterna e strutturata. Questo per un motivo molto semplice: le produzioni tradizionali hanno tempi di lavorazione per loro stessa natura più lunghi, e ti obbligano a una selezione a monte delle idee. Non a caso abbiamo già fatto qualcosa l’estate scorsa sul versante dell’autoproduzione, con letteralmente altre cinque persone più le comparse. Questo, per me, è lo spazio in cui sperimentare, e sperimentare è estremamente utile e appagante.

 

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Il mio corpo vi seppellirà: un western che soffre d’ansia da prestazione https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/il-mio-corpo-vi-seppellira-un-western-che-soffre-dansia-da-prestazione/ Fri, 07 May 2021 07:35:17 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15534 Si possono dire tante cose sul cinema italiano, ma non che non stia cercando di darsi da fare. Sembra quasi obsoleto parlare ormai di costruzione o ricostruzione, nascita o rinascita. Come tutto ciò che riguarda l’arte, in particolare quella cinematografica, la morte è sempre vicina e un nuovo Messia si scorge all’orizzonte. È stato il […]

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Si possono dire tante cose sul cinema italiano, ma non che non stia cercando di darsi da fare. Sembra quasi obsoleto parlare ormai di costruzione o ricostruzione, nascita o rinascita. Come tutto ciò che riguarda l’arte, in particolare quella cinematografica, la morte è sempre vicina e un nuovo Messia si scorge all’orizzonte. È stato il caso di Lo chiamavano Jeeg Robot per il fantasy, genere poco esplorato in Italia, di Ammore e Malavita per il musical, de Il primo re per la ricostruzione (semi) storica della fondazione di Roma. L’impegno è tanto e i risultati fruttuosi, da maestranze che ricevono candidature agli Oscar come il Pinocchio di Garrone a narrazioni più classiche che risuonano all’interno di festival internazionali come per Marco Bellocchio e Alice Rohrwacher, fino all’esplorazione di generi teen e horror in stile Sulla stessa onda su Netflix e Non mi uccidere di Andrea De Sica (che, in questo caso, racchiude entrambi i filoni).

Ad aggiungersi a questa schiera di operazioni ammirevoli, di minore impatto forse perché succube di un periodo di ristrettezze distributive e probabilmente meno coinvolgente a causa di una fattura notevole ma una narrazione ingombrante, è Il mio corpo vi seppellirà di Giovanni La Parola (con Miriam Dalmazio, Antonia Truppo, Margareth Madè, Rita Abela). Produzione da applausi quella che ha visto collaborare Cinemaundici, Ascent Film, Apulia Film Commission assieme a Rai Cinema. Ragguardevole per messinscena e tendenza alla veridicità dei più efferati crimini, dove anche una testa che rotola ai piedi di un uomo o un cuore strappato direttamente dal petto non lasciano mai la sensazione di riproduzione posticcia, bensì di impressionante effetto.

È esattamente su questa aria da avida e opportunistica crudeltà che il film sceneggiato da Alessia Lepore assieme a La Parola avanza, avvolgendo indietro il nastro del tempo fino a condurre lo spettatore nella Penisola di un Vittorio Emanuele appena diventato re dell’intera Italia. Brigantaggio e sopravvivenza finiscono per coincidere in una Sicilia rurale e contadina, punteggiata dalle divise di uomini di (non) onore e donne che hanno scelto la libertà piuttosto che i soprusi, le ristrettezze, l’ingordigia e le prevaricazioni di uomini tronfi e sessualmente selvaggi. Un’unione che non necessariamente fa la forza per le protagoniste di una storia che non risparmia la propria dose di pallottole e squartamenti, rimanendo prigioniera di quella stessa intrepida voglia di osare, osare e ancora osare, che costringe l’opera a dover fare i conti proprio con se stessa.

il mio corpo vi seppelliràL’ambizione de Il mio corpo vi seppellirà è tale da trasparire a ogni inquadratura, a ogni battuta degli interpreti, a ogni pistolettata o combattimento corpo a corpo che i personaggi si trovano a dover affrontare. Ma questa medesima, intrepida smania finisce per sovrastare qualsiasi altra componente del racconto in costume, che sembra voler più imitare con attenzione il western invece che incorporarlo e riproporlo realmente. I personaggi sono quindi sporchi, anche troppo accuratamente; i protagonisti sono costruiti su certe personalità del genere eppure troppo stilizzati da assomigliare a quelli visti in tante opere simili. Anche l’eccesso di sangue è troppo solerte, zelante, spinto alla spettacolarizzazione. Uno stile, quello che Giovanni La Parola vuole ricercare, quasi accademico e dunque semplicemente manieristico. Di cuore perché assistito in qualsiasi sua singola parte o risvolto e, anche solamente per questa ragione, lodevole per l’apporto produttivo investito e tramutato poi in film.

Il bisogno spasmodico di compiacere un cinema italiano privo al momento di un immaginario western contemporaneo si percepisce all’interno di una narrazione che cerca insieme di colpire attraverso un prototipo da cinema classico riscrivendolo però secondo i dettami della modernità. Desiderio predominante nei caratteri delle donne protagoniste, nel modo in cui l’opera le fa interagire tra loro e col mondo esterno, ma anche nell’assetto generale del racconto, dove una fluidità e una scrittura più trascinante anziché così analitica avrebbe trasmesso maggiore calore alla pellicola e, di conseguenza, allo spettatore.

Il mio corpo vi seppellirà soffre d’ansia da prestazione, ma supera la prova con un ottimo risultato. Ci mette tutta la fermezza essenziale, ma è lo slancio quello che manca. Un film da premiare anche e soprattutto donandogli una visione, il cui interesse rimane comunque circoscritto e limitato a quelle sue quasi due ore di esistenza.

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Giuseppe Saccà: è in atto un cambio di paradigma https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/giuseppe-sacca/ Mon, 23 Mar 2020 10:55:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13682 Giuseppe Saccà, 37 anni, produttore di quel Favolacce dei gemelli D’Innocenzo premiato con l’Orso d’Argento a Berlino che avrebbe dovuto uscire nelle sale ad aprile, ci racconta come potrà evolversi la distribuzione dei nuovi titoli con la chiusura delle sale per l’emergenza da coronavirus e, più in generale, del cambio di paradigma a cui stiamo assistendo in […]

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Giuseppe Saccà, 37 anni, produttore di quel Favolacce dei gemelli D’Innocenzo premiato con l’Orso d’Argento a Berlino che avrebbe dovuto uscire nelle sale ad aprile, ci racconta come potrà evolversi la distribuzione dei nuovi titoli con la chiusura delle sale per l’emergenza da coronavirus e, più in generale, del cambio di paradigma a cui stiamo assistendo in questi tempi.

Iniziamo con una domanda inevitabile. Come stai vivendo il presente?

Con una forte apprensione ma anche con ottimismo. Spero che quello che sta succedendo porti tutti a capire l’importanza e la bellezza delle piccole cose, dal vedere un film in sala con gli amici, a una mostra al museo o uno spettacolo a teatro. Sono tutte cose che davamo per scontate prima ma che ora non lo sono più. Abbiamo compreso che c’è un qualcosa di più grande di noi, in questo caso è di dimensioni microscopiche ma comunque è molto potente e capace di fermare tutto. Questo ci ricorda la caducità della vita e ci ribadisce che non siamo immortali. Probabilmente non tutti saremo più gli stessi. Molti lasceranno il proprio lavoro perché si renderanno conto di averlo sempre odiato, lasceranno i vecchi amori e ne troveranno di nuovi.

Sei produttore indipendente dal 2014, prima hai un passato da attore. C’è un collegamento tra le due esperienze? Cosa ti ha fatto fare questo salto?

Penso che aver visto questo lavoro anche da un’altra angolazione sia importante. Sicuramente essendoci passato ho prestato una particolare attenzione come produttore nei film fatti da Pepito, e lo si vede anche in Favolacce, con attori sconosciuti al grande pubblico come Gabriel Montesi, Barbara Chichiarelli, Max Malatesta, Ileana d’Ambra e Lino Musella. A farmi prendere la decisione vera e propria di lasciare il lavoro di attore è stato anche il fatto che ho capito di non avere il carattere per fare questo mestiere. Richiede una corazza dura, la forza di resistere a tutti i “no” che ti vengono detti e la voglia di essere esposti, cose che non mi appartenevano fino in fondo.

Nel 2018 hai prodotto La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo. Come è avvenuto questo incontro?

In realtà i Fabio e Damiano hanno fermato mio padre Agostino a teatro e gli hanno chiesto se poteva leggere un loro copione. Mio padre, uomo curioso e intuitivo, ha preso il copione, lo ha letto tutto la notte stessa e la mattina mi ha chiamato per dirmi che secondo lui era straordinario. Anche Rai Cinema, nella persona di Paolo del Brocco, partner industriale e finanziario ma anche e soprattutto partner editoriale, ha creduto subito in questo progetto. Se un giovane produttore e due giovani registi dopo soli quattro anni si trovano a ritirare un Orso d’argento alla loro opera seconda, tutto ciò è frutto del lavoro di una squadra che termina con un distributore internazionale che è Michael Weber di The Match Factory, una società di vendita mondiale che rappresenta filmmaker di tutto il mondo. È Rai Cinema che ha cresciuto me e questi due registi e mi sento di doverla ringraziare per questo.

EPA/RONALD WITTEK

Berlino 2020, Favolacce vince l’Orso d’argento per la sceneggiatura. 

Favolacce è un film estremamente contemporaneo. Io credo che il talento di Damiano e Fabio sia la loro incredibile connessione con la contemporaneità: il film parla dei nostri tempi e anche di questo momento, paradossalmente, perché parla di solitudine e di incomunicabilità all’interno delle famiglie. In Favolacce, come ne La terra dell’abbastanza, i personaggi sono allo stesso tempo infernali ed estremamente poetici, veri. Sullo schermo non si muovono caratteri e attori fasulli, gli spettatori riconoscono se stessi in tutte le loro ombre ma anche in tutta la loro luce.

Parliamo della distribuzione del film. Prevedi ci saranno delle novità in merito, considerando i tempi imprevedibili di riapertura dei cinema?

Questa è la domanda capitale che tutto il sistema cinematografico si sta facendo adesso. So che si sta iniziando a ragionare anche su modelli distributivi diversi o meglio di incentivare quelli che già esistono. Si parla di distribuire direttamente su piattaforme online, ma non ti posso assicurare che questo sarà il caso di Favolacce. Qualora comunque si tendesse a prendere questa strada, tutta la filiera produttiva dovrà essere d’accordo. Io, da produttore, non posso far altro che ragionarci perché un prodotto non può rimanere fermo e perché il pubblico giustamente vuole poterne fruire, ma accanto a questo dico che dobbiamo tutelare al massimo la sala perché è un bene imprescindibile.

Progetti futuri, sperando ovviamente di tornare presto alla normalità?

Con i fratelli D’Innocenzo stiamo già lavorando sul loro prossimo film; stavamo inoltre partendo con la preparazione di un film sulla famiglia de Filippo con la regia di Sergio Rubini. Ci sono anche un paio di esordi molto interessanti di cui però ancora non posso parlare. Inoltre io ho fondato da poco una società che si occupa di arte contemporanea. Siamo allestendo un museo multimediale a Enna, un progetto molto interessante perché sono profondamente convinto che l’arte, il cinema e la moda siano dei mondi che si debbano intrecciare. Basti pensare ad esempio al lavoro straordinario che sta facendo Alessandro Michele, il giovane direttore creativo di Gucci.

Che consigli daresti a chi vorrebbe lavorare nella produzione cinematografica?

Io non do consigli ai giovani perché secondo me non ne hanno bisogno. Li darei invece ai miei colleghi produttori indipendenti, soprattutto a quelli più grandi di me. Sono loro che devono favorire l’accesso alla filiera produttiva degli under 35, perché penso che la chiave vincente non sia la “rottamazione” ma la fusione e la collaborazione tra generazioni. Sono dell’idea che chi ha fame e ha voglia di fare è portatore di novità e di linguaggi: ne sono un esempio proprio Fabio e Damiano D’Innocenzo. L’unica cosa importante è trovare il giusto equilibrio tra chi è giovane e porta innovazione e chi invece percorre queste strade già da tempo e quindi ha esperienza e conoscenza. Oggi assistiamo a un cambiamento di paradigma per cui sono proprio i giovani a darci la chiave e gli strumenti culturali per leggere il mondo e consentire a noi più adulti di entrarci in contatto. Io ho 37 anni e sono figlio di una cultura novecentesca come mio padre e come mio nonno, ma ora sono la Generazione Z e i Millennials a possedere le chiavi per leggere il presente. Mi rivolgo produttori più maturi, alle banche che danno i crediti, a Rai Cinema, a Rai Fiction. A loro dico di fare sempre di più, anche in questo momento di crisi, perché è soltanto nella collaborazione che può venire fuori qualcosa di nuovo e importante.

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L’amore davanti al “Monitor” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/lamore-ai-tempi-del-monitor/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/lamore-ai-tempi-del-monitor/#respond Mon, 19 Oct 2015 14:10:24 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2102 Presentato con successo alla Festa del Cinema di Roma (sezione Alice nella città/Panorama) “Monitor” è un’opera affascinante che segna l’esordio nel lungometraggio di Alessio Lauria, prodotta da Rai Cinema e Tea Time Film con un budget di 200.000 euro.  Noi di Fabrique lo avevamo già intervistato a proposito del divertentissimo corto Sotto casa, divenuto un piccolo […]

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Presentato con successo alla Festa del Cinema di Roma (sezione Alice nella città/Panorama) “Monitor” è un’opera affascinante che segna l’esordio nel lungometraggio di Alessio Lauria, prodotta da Rai Cinema e Tea Time Film con un budget di 200.000 euro. 

Noi di Fabrique lo avevamo già intervistato a proposito del divertentissimo corto Sotto casa, divenuto un piccolo cult sul web con la sua storia di un uomo in estasi per aver trovato parcheggio davanti al portone del proprio palazzo. A pochi anni di distanza Alessio Lauria ha girato Monitor, un’atipica love story ambientata in un mondo distopico, solo apparentemente perfetto, in cui i dipendenti di una multinazionale sfogano ansie e frustrazioni a dei monitor, persone che li ascoltano da dietro un muro senza conoscerne l’identità e hanno il compito di stilare relazioni per l’azienda. Il risultato è un’opera prima per molti versi coraggiosa, inventiva e ottimamente realizzata.

Una delle cose migliori di Monitor sono le interpretazioni di tutti gli attori, in primis dei protagonisti Michele Alhaique e Valeria Bilello. Qual è stata la tua esperienza con loro?

Michele è stato fin dall’inizio la prima scelta mia e di Manuela Pinetti, tanto che abbiamo scritto la sceneggiatura pensando al suo volto. Nonostante avesse un range abbastanza ristretto di emozioni entro cui poter spaziare, è riuscito a rendere con efficacia l’evoluzione di un personaggio che pur cambiando non si snatura mai. Valeria Bilello invece mi era piaciuta molto in Happy Family di Salvatores e fin da subito si è dimostrata una persona estremamente intelligente e ricettiva. C’è stata un’affinità immediata tra noi e anche lei, come Michele, è stata bravissima nel non andare mai sopra le righe, giocando con microespressioni e microtoni.

Così come le interpretazioni e la sceneggiatura, composta da dialoghi asciutti, anche la regia si caratterizza per un’essenzialità priva di virtuosismi.

Il mio gusto personale è legato all’essenzialità e alla sobrietà. Sono convinto che se si usano i movimenti di macchina solo se funzionali a un particolare momento del racconto acquistano un valore aggiunto e si possono apprezzare di più. Nel contesto di un film low budget come il nostro non ci sarebbe comunque stato modo di dedicarsi a elaborati movimenti di macchina, che avrebbero richiesto molto tempo e una grossa organizzazione. In questo caso, quindi, la scelta di una regia essenziale si è dimostrata a tutti gli effetti la più adeguata.

Non capita spesso di riuscire a girare un lungo avendo alle spalle un solo corto. Come ci sei riuscito?

Entrambi i miei lavori sono stati realizzati grazie al Premio Solinas. Sotto casa è nato nel contesto del concorso “Talenti in Corto” ed ha avuto molta fortuna. Nello stesso anno, il 2011, ho vinto anche il concorso “Solinas Experimenta” e così poco dopo ho avuto l’opportunità di iniziare a lavorare a Monitor. Per tutto il processo di scrittura e di realizzazione del film il Solinas mi ha messo a disposizione tutor molto preparati e da loro ho imparato davvero tanto.

 

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