Quinzaine des Réalisateurs Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 02 Sep 2021 13:10:22 +0000 it-IT hourly 1 Europa di Haider Rashid, una bella sorpresa a Cannes https://www.fabriqueducinema.it/festival/europa-di-haider-rashid-una-bella-sorpresa-a-cannes/ Sun, 18 Jul 2021 12:38:02 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15867 È Europa l’ultimo film italiano (per metà: la coproduzione è del Kuwait) passato in rassegna nella Quinzaine des Réalisateurs, sezione quest’anno particolarmente ricca di grande cinema e per la quale c’è da fare tanti complimenti al nuovo delegato Paolo Moretti. Diretto da Haider Rashid, fiorentino di nascita, padre iracheno e madre italiana, Europa è un’opera […]

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È Europa l’ultimo film italiano (per metà: la coproduzione è del Kuwait) passato in rassegna nella Quinzaine des Réalisateurs, sezione quest’anno particolarmente ricca di grande cinema e per la quale c’è da fare tanti complimenti al nuovo delegato Paolo Moretti.

Diretto da Haider Rashid, fiorentino di nascita, padre iracheno e madre italiana, Europa è un’opera coraggiosa che vince la propria scommessa sia per l’argomento trattato che per le scelte formali.

Il tema qui è l’immigrazione, raccontata attraverso l’avventurosa fuga per la sopravvivenza del giovane migrante iracheno Kamal, interpretato Adam Ali, lodevole per lo sforzo duplice della resa precisa delle emozioni del personaggio e contemporaneamente la restituzione dello sforzo, della fatica fisica, dei gesti irrigiditi dalla paura.

Il suggestivo incipit notturno racconta uno scenario che è ben noto allo spettatore mediamente informato sui fatti: la raccolta del denaro dei migranti da parte dei trafficanti che si occuperanno del viaggio, la luce della luna e le torce dei cellulari illuminano volti sui quali la macchina da presa indugia febbrilmente, quel tanto che basta per suggerire che il tempo stringe, e che bisogna agire nell’ombra. Ma l’arrivo improvviso dei miliziani di frontiera (siamo al confine fra Bulgaria e Turchia) fa precipitare gli eventi, i migranti si disperdono, molti vengono uccisi, qualcuno scappa ma viene catturato. Il sogno si infrange su quelle sponde, ma Kamal riesce a fuggire.

Ed è qui che comincia il suo percorso di sopravvivenza, raccontato in maniera intelligente ed efficace da Rashid con l’ausilio del direttore della fotografia Jacopo Caramella, che qui mette in mostra le sue formidabili abilità di operatore attaccandosi in maniera solidale al protagonista, facendo perno sul suo volto e sul suo corpo, sia che fugga, sia che si arrampichi su un albero, sia che si ingegni ad accendere un fuoco o a procurarsi scarsissime quantità di cibo.

In questo film, il discorso visivo si fa parte integrante del racconto: la macchina da presa di Rashid segue Kamal ossessivamente, al punto da non più generare solo empatia, ma anche imponendo allo spettatore di condividerne fisicamente il punto di vista, c’è immedesimazione, non solo comprensione distaccata della sua corsa nel bosco (location per esigenze produttive ritrovata in provincia di Arezzo).

Europa alterna sapientemente, nei suoi 70 minuti circa di durata, momenti dal ritmo forsennato a sospensioni che raccontano la tregua di Kamal e, per quanto sia il racconto di una solitudine, sono disseminati alcuni incontri che rientrano pienamente nei topoi dell’avventura: un compagno defunto, un inseguitore, una donna che presta soccorso, un possibile salvatore finale.

Una bella sorpresa, un cinema intelligente che padroneggia il linguaggio e allo stesso tempo ragiona sul racconto, usa il particolare per riflettere sul generale e, infine, apre alla speranza.

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Futura, i giovani secondo Marcello, Munzi e Rohrwacher https://www.fabriqueducinema.it/festival/futura-i-giovani-secondo-marcello-munzi-e-rohrwacher/ Sat, 17 Jul 2021 14:57:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15862 Il terzo dei quattro film italiani selezionati alla Quinzaine des Réalisateurs è il film collettivo (la definizione è degli autori) Futura, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, con il titolo – appropriato e suggestivo – mutuato da Lucio Dalla, il quale è stato oggetto di un altro lavoro di Pietro Marcello che in […]

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Il terzo dei quattro film italiani selezionati alla Quinzaine des Réalisateurs è il film collettivo (la definizione è degli autori) Futura, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, con il titolo – appropriato e suggestivo – mutuato da Lucio Dalla, il quale è stato oggetto di un altro lavoro di Pietro Marcello che in questi giorni è visionabile su Nexo Digital, Per Lucio, montaggio di materiale d’archivio sul grande musicista bolognese.

Futura è un film sui giovani. Come ha voluto precisare a chiare lettere Marcello in una delle serate della Quinzaine in cui il film è stato proiettato, nel nostro tempo si dà troppo spazio alla voce dei “vecchi”, è invece giusto che i giovani abbiano una propria tribuna di espressione, un territorio d’elezione che li elegga portavoce del proprio tempo. Ed è molto bello che questo territorio sia il cinema.

Un cinema didattico, quello dei nobili intenti di cui antichi maestri italiani sono stati paladini: si pensi a Rossellini, naturalmente, ma anche il reportage-fiume di Luigi Comencini I bambini e noi, di cui alcuni spezzoni significativi e iconici sono sapientemente inseriti nel montaggio di Futura.

Questa è dunque la missione di Marcello, Munzi e Rohrwacher, un cinema didattico che non tenga la lezioncina pedante agli spettatori, ma che in qualche modo ne smuova la coscienza, ne amplifichi le vedute, insomma, non un cinema che finisca in parlamento e generi la redazione di nuovi DDL (che, comunque, non sarebbe male), ma un cinema che penetri nel quotidiano, e che aiuti a gettare uno sguardo nuovo su questo enorme, importante e variegato corpus della società: la gioventù.

Il film ha vissuto una lavorazione avventurosa (è proprio il caso di dirlo: come il nome della casa di produzione di Pietro Marcello). Iniziato nel febbraio del 2020 come un viaggio attraverso tutta la penisola (Marcello è un grande ammiratore di Guido Piovene e del suo Viaggio in Italia, chissà che la suggestione non venga da lì), alla ricerca di ragazze e ragazzi in ogni contesto urbano ed extra-urbano, ha poi avuto la battuta d’arresto della pandemia e dei vari lockdown. La diffusione del nuovo virus, senza diventare un fatto su cui speculare opportunisticamente e sul quale aggiustare la rotta del film, è una circostanza storica che, per tragica ed epocale che sia, non cambia il punto di vista sui giovani e sul loro futuro: le incertezze e le speranze delle allieve del corso per estetiste di Mariglianella in provincia di Napoli sarebbero state le stesse, comunque, e lo stesso vale per le matricole della Normale di Pisa; i ragazzi della campagna teramana vivono in un tempo che sembra sospeso (per quanto il film sia orizzontale, come lo ha definito Marcello nell’introduzione a una delle proiezioni di Cannes, la sensibilità dei registi emerge seppur discretamente dai rispettivi reportage: in questo caso, il discorso su una dimensione a-temporale, di un’epoca indefinibile, è una cifra che appartiene ad Alice Rohrwacher da sempre), viceversa hanno le idee molto chiare sul presente e su alcune sue deformazioni dovute ai social network i ragazzi della periferia romana intervistati da Francesco Munzi.

L’aspetto visivo, infine, merita una sottolineatura: le riprese rigorosamente in 16 millimetri (una tavolozza quasi ideologica alla quale Pietro Marcello, per fortuna, non rinuncia mai) conferiscono ai volti di questi ragazzi una statura iconica che col digitale difficilmente si sarebbe raggiunta, e i tre autori, tutti eccezionali ideatori di immagini per il cinema, non rinunciano mai alle sacrosante regole della composizione. Per questa felice commistione fra la cura estetica e la profondità di penetrazione dentro alla materia d’indagine, questo film sì, come auspica Pietro Marcello, può fare scuola.

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Re Granchio: alla Quinzaine un film fra doc e visionarietà https://www.fabriqueducinema.it/festival/re-granchio-alla-quinzaine-un-film-fra-doc-e-visionarieta/ Tue, 13 Jul 2021 07:07:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15846 Il secondo dei film italiani della Quinzaine des Réalisateurs, Re Granchio, è l’esordio al film di finzione di due giovani e talentuosi registi, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, che avevano conquistato pubblico e critica nel 2015 con Il solengo, film documentario che aveva trionfato a DocLisboa, che con l’escamotage del racconto popolare tramandato oralmente […]

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Il secondo dei film italiani della Quinzaine des Réalisateurs, Re Granchio, è l’esordio al film di finzione di due giovani e talentuosi registi, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, che avevano conquistato pubblico e critica nel 2015 con Il solengo, film documentario che aveva trionfato a DocLisboa, che con l’escamotage del racconto popolare tramandato oralmente dai vecchi della comunità raccontava l’esistenza misteriosa di un uomo di Vejano, un piccolo centro nella Tuscia laziale, che per sessant’anni aveva vissuto lontano da tutto e da tutti, rintanato in una grotta.

Con Re Granchio, film presentato a Cannes, i due registi, entrambi approdati ad altri lidi nel corso della loro vita (Alessio in Argentina, Matteo a Berlino) tornano nello paese del solengo e elevano all’ennesima potenza l’ambizione narrativa e il potere evocativo delle storie del focolare.

Ritroviamo personaggi – anzi, persone: gli anziani che si riuniscono a tavola davanti a un bicchiere di vino, leitmotiv di tutto il film, non sono attori – che avevamo già visto nel documentario, però questa volta ci viene raccontata una storia accaduta alla fine del XIX secolo, la storia di un reietto, Luciano,  che si oppone ai soprusi del principe del villaggio ed è amato teneramente da una giovane contadina, il cui matrimonio è assolutamente proibito dal padre padrone.

A causa di questa ribellione, Luciano viene messo all’indice, fino a subire addirittura un attentato, a essere dato per morto, ed è a questo punto che il film, perfettamente bipartito, prende la sua seconda strada, e si sposta nella Terra del Fuoco, in cui anche quella basilare forma di civilizzazione, per arcaica e feudale che fosse, del villaggio della Tuscia qui viene a mancare, c’è solo la montagna, la natura selvaggia dell’uomo e delle cose, dove è un granchio a guidare gli avventurieri.

La maturità registica di Rigo de Righi e Zoppis si manifesta soprattutto nella capacità di raccogliere influenze molteplici, metabolizzarle e piegarle a un linguaggio proprio. Come dovrebbe sempre essere, infatti.

La prima parte del film, quella che più porta alle estreme conseguenze il lavoro de Il solengo, sfocia in momenti che potrebbero far pensare al documentario antropologico, agli insuperati maestri italiani delle feste e della tradizione popolare portata al cinema De Seta e Di Gianni, ma Rigo de Righi e Zoppis, che già dispongono di una propria cifra stilistica per il racconto dal vero, travalicano la dimensione documentaristica e cristallizzano e sublimano le immagini della festa popolare in tableau vivants di chiara natura pittorica, debitrice sicuramente di un regista da loro amatissimo, e cioè Paradjanov.

Mentre nella seconda parte di Re Granchio, che sarebbe semplicistico bollare come western, nonostante una mano sicura nel gestire la tensione, il montaggio, il sonoro, il ritmo tipici del genere, le coordinate spazio-temporali vanno via via offuscandosi, confondendosi, fino a diventare irrilevanti, o nulle, e questo tipo di operazione visiva (e visionaria) è in comune con il Lisandro Alonso di Jauja, e non a caso troviamo il suo nome nei ringraziamenti.

Un’ultima sottolineatura meritano due scelte attoriali di Rigo de Righi e Zoppis: il protagonista Luciano è interpretato da Gabriele Silli, artista contemporaneo che pure sulla natura e sulla materia (proprio come in questo film) stabilisce il suo campo d’indagine, e poi il ruolo del principe che gode della geniale e ieratica performance di Enzo Cucchi, l’artista simbolo della Transavanguardia italiana.

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Festival di Cannes: applausi per “A Chiara” di Carpignano https://www.fabriqueducinema.it/festival/a-chiara/ Sun, 11 Jul 2021 13:32:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15842 Un’emozione forte, commovente, per noi spettatori e per la delegazione di A Chiara presente in sala al gran completo: applausi, grida di giubilo, sguardi che si incrociavano con il regista Jonas Carpignano, con gli attori-non attori del meraviglioso film di cui ancora scorrevano i titoli di coda, un rito collettivo che è tornato a rinnovarsi […]

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Un’emozione forte, commovente, per noi spettatori e per la delegazione di A Chiara presente in sala al gran completo: applausi, grida di giubilo, sguardi che si incrociavano con il regista Jonas Carpignano, con gli attori-non attori del meraviglioso film di cui ancora scorrevano i titoli di coda, un rito collettivo che è tornato a rinnovarsi dopo quasi un anno e mezzo di disperazione, di uno smarrimento di cui non si riusciva a vedere la fine.

E invece è stata un tripudio la serata della Quinzaine des Réalisateurs, sotto la nuova direzione di Paolo Moretti, in cui è stato proiettato A Chiara, ultimo lavoro di Jonas Carpignano (che siamo orgogliosi di aver avuto come giurato dei Fabrique Awards nel 2018), portato eroicamente a termine dopo una lavorazione travagliata, interrotta più volte per cause dovute alla pandemia, destino che è toccato a tante altre produzioni italiane e internazionali che hanno voluto comunque spiegare le vele in un periodo di mare pericolosamente in tempesta.

Carpignano racconta ancora, irriducibilmente, Gioia Tauro.

A Chiara è il terzo capitolo di una trilogia che indaga tre grandi aspetti presenti in città: dopo l’immigrazione in Mediterranea (2015, visto a Cannes alla Semaine de la Critique) e la comunità rom di A Ciambra (2017, prima volta in Quinzaine), ora è la ’ndrangheta a essere oggetto di indagine narrativa.

Anzi, per meglio dire, la ’ndrangheta è un pretesto.

Ad aprire il film è la festa di compleanno della maggiore delle tre sorelle Guerrasio, Giulia. Il contesto giovanile è descritto con mano sicura, c’è un’analisi affidabile dei comportamenti, dei riti, delle piccole ossessioni di ragazzi e ragazze adolescenti di un importante e problematico centro urbano calabrese. Il giorno seguente, quando Claudio, il padre, parte improvvisamente, Chiara, la seconda delle tre figlie, vuole scoprire la ragione dietro quel gesto. E comincia a fare domande, a cui non ottiene risposta, finché non decide di mettersi da sola in cerca della verità. Sul padre, certo, ma soprattutto su se stessa.

A Chiara non è un gangster movie, ma il racconto tenero, addirittura con derive oniriche, avventurose, fiabesche, della crescita di un’adolescente nata in un contesto difficile. Il racconto di un rapporto perso, cercato, riconquistato di una figlia con il padre, la maturazione di una coscienza morale, il coraggio di disobbedire quando il prezzo è un bene superiore. A interpretare Chiara e la sua famiglia nel film sono la straordinaria Swamy Rotolo e le sue vere sorelle, il suo vero padre, la sua vera madre, che non hanno mai letto la sceneggiatura ma venivano informati giorno per giorno sulle scene da girare.

Il metodo-Carpignano ha quindi dato, ancora una volta, i suoi straordinari frutti. Anche lo stile che avevamo ammirato nei film precedenti è riproposto ma questa volta più libero, senza la preoccupazione di dover tener conto anche di esigenze documentaristiche: è un film di solido impianto drammaturgico e altrettanto solide sono le idee di regia che lo sostengono, i piani sequenza pieni di suspense, l’uso creativo e dinamico delle luci (fotografia, ancora in pellicola, di Tim Curtin), la creazione delle atmosfere (l’incontro nella nebbia fra padre e figlia è una sequenza memorabile), la già citata deriva onirica legata al bunker (i passaggi segreti sono un topos del film d’avventura), e qualche rimando simbolico affidato all’attività fisica di Chiara: al tapis roulant di prima scena, un nastro dove si corre, si suda, ci si sforza, ma non si va da nessuna parte, si oppone la pista di atletica dell’inquadratura finale, dove finalmente Chiara spicca il proprio volo. Un parallelo che ricorda il finale di un altro grande film visto a Cannes qualche anno fa, Loveless di Andrej Zviagintsev, dove pure il tapis roulant veniva utilizzato come metafora di un mondo che non riesce ad andare avanti.

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