Paolo Sorrentino Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Sun, 12 Feb 2023 18:08:39 +0000 it-IT hourly 1 Cinque validi motivi per vedere Call My Agent Italia https://www.fabriqueducinema.it/focus/cinque-validi-motivi-per-vedere-call-my-agent-italia/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/cinque-validi-motivi-per-vedere-call-my-agent-italia/#respond Wed, 25 Jan 2023 14:32:22 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18143 Call My Agent Italia, l’attesissimo remake del fortunato format francese, ha dalla sua (almeno) cinque punti di forza rispetto all’originale. Eccoli: 1) Da Boris a Call My Agent Italia: Italians do it better Terreno pericolante come pochi, quello su cui si incamminava Call My Agent Italia. A stargli con il fiato sul collo c’erano, direttamente […]

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Call My Agent Italia, l’attesissimo remake del fortunato format francese, ha dalla sua (almeno) cinque punti di forza rispetto all’originale. Eccoli:

1) Da Boris a Call My Agent Italia: Italians do it better

Terreno pericolante come pochi, quello su cui si incamminava Call My Agent Italia. A stargli con il fiato sul collo c’erano, direttamente da Parigi, il format originale con uno schieramento di star internazionali (Jean Reno, Charlotte Gainsbourg, Isabelle Huppert, Juliette Binoche, Jean Dujardin) e giocando in casa il mostro-sacro-Boris. Il confronto qui era immediato: si passa dal pesce rosso insider dei set all’italiana, al cane mascotte dell’agenzia di spettacolo CMA, Marcello (richiamato al suon di «come here», che fa già ridere così). Il tutto inevitabilmente ambientato a Roma, anche stavolta. Siamo nell’universo del meta cinema, della casta che svela i propri altarini in chiave comedy: e farlo in Italia dal 2007 in poi, senza provocare il paragone con Boris, è praticamente impossibile.

Invece il nostro Call My Agent non solo diverte e fila che è una meraviglia – scritto da Lisa Nur Sultan, sempre più forte, e diretto da un accuratissimo Luca Ribuoli – ma ci ricorda che questa è anche una delle cose che sappiamo fare meglio. Vuoi per scanzoneria innata o perché non ci resta che ridere, ma quando si tratta di autoironia siamo i migliori della classe. L’elenco di scene brillanti e battute che hanno il potenziale per tradursi in citazioni popolari “alla Boris” è davvero succoso. Dal tormentone sul nuovo mito del «ruolo femminile irriverente tipo Fleabag» (che ormai utilizziamo per vendere qualsiasi contenuto come “molto poco italiano”), all’attrice megalomane senza talento incarnata da Emanuela Fanelli (se vogliamo, spassoso update della “cagna maledetta” firmata Crescentini), ma anche a gag che inquadrano le dinamiche penose del lavoro all’italiana (di cui Biascica rimane il portavoce per eccellenza): «Non non sei tu che te ne vai – urla l’agente alla sua assistente under 30 – ma sono io che ti licenzio! (pausa) Che cazzo dico, non sono io che ti licenzio senza giusta causa, ma sei tu che te ne vai». D’altronde Favino sale sul palco dei David, farfuglia in spagnolo ma riceve comunque la standing ovation perché è Favino, mentre Sorrentino orchestra un pesce d’aprile proponendo la terza stagione sul Papa con Ivana Spagna, Madonna e Lino Banfi, senza che nessuno osi battere ciglio… Un po’ come quando René Ferretti dava del «genio!» a chiunque lasciando il re nudo, no?

2) I “pacchetti agenzia”: è outing

Ebbene sì, Call My Agent Italia lo fa: inserito en passant durante una scena tra Maurizio Lastrico e Kaze (il contesto è un litigio tra agente e attrice esordiente), la serie mette in bocca all’agente il famoso segreto di Pulcinella. La questione funziona più o meno così: in fase di casting c’è sempre una gerarchia di ruoli ed interpreti; allora può capitare che se per il tuo film vuoi il pezzo da novanta della mia agenzia, in cambio mi prendi anche alcuni attori minori tra quelli che rappresento. È una moneta di scambio, discutibile o meno, che tutti conoscono ma che nessuno dichiara apertamente. Per questo la battuta ha il retrogusto di un outing: «Ho fatto quello che fanno le agenzie – ammette il personaggio di Lastrico – cioè dei pacchetti. Ho cercato di prendere due piccioni con una fava». Dopotutto chi si era mai vantato di “smarmellare” prima che Duccio aprisse le danze? Insomma, i cast di certe serie tv con cinque o sei attori provenienti dalla stessa agenzia, e gli aneddoti su callback e ruoli vinti per legittima bravura ci lasciano un po’ disorientati, ma qui il dubbio sulla leggenda dei pacchetti viene risolto «così, de botto». E amen.

Call My Agent Italia
Sara Lazzaro in “Call My Agent Italia”.

3) Sofia e Monica: un passo avanti ai francesi

Che poi non è che in Dix pour cent filasse proprio tutto liscio, specialmente in termini di scrittura. Su certi personaggi solidissimi e originali (in primis la Andréa Martel di Camille Cottin) gravava il peso di altri ruoli abbozzati in modo macchiettistico e un po’ ridicolo, poi corretti nel corso delle stagioni. Noémie e Sofia (nella versione originale Laure Calamy e Stéfi Celma) sono l’esempio meno riuscito. Nel nostro remake italiano, invece, si ha l’impressione che già in sceneggiatura siano state individuate e rifinite proprio queste mancanze, riscrivendo i personaggi con l’obiettivo di superare frivolezze e momenti d’imbarazzo. La Monica di Sara Lazzaro e la Sofia di Kaze brillano per caratterizzazione e interpretazione – non per riflesso – e acquisiscono una nuova dignità. Entrambe portano a un’imprevedibile riscoperta dei due ruoli: chapeau.

4) Viva Jean Reno, però…

Sorrentino fa Sorrentino. Entra in scena annunciato dal primo piano di una suora, dispensa aforismi sulla vita e si prende gioco di tutti, a partire da se stesso (non dimentichiamo i pionieri del format “Sorrentino che imita Sorrentino”: i The Jackal). Accorsi fa Accorsi. E qui è davvero uno showman di prim’ordine, tra il santone del cinema italiano e il ragazzaccio ancora tormentato di Radiofreccia, sempre ossessionato dalle sue due cose preferite: l’Emilia Romagna e «l’ennesima idea di Stefano Accorsi». Favino è esilarante. Rimane il dubbio che la sua, più che una partecipazione, sia una richiesta d’aiuto: “Pietà, smettetela di prendermi così sul serio”. E poi tra De Angelis che manda al diavolo il web politicamente corretto e Cortellesi che studia il proto-etrusco mostrandoci (di nuovo) quanto ci incensiamo anche in quelle occasioni, arrivano loro due: Guzzanti e Fanelli, insieme. Che vorresti ridere ma non ci riesci, per quanto fa ridere.

5) Perfetti sconosciuti e Bali: la storia ci insegna che

Due moniti grossi come monoliti, da non sottovalutare solo perché siamo in piena commedia. Primo: un cinema senza coraggio e senza lungimiranza, è un cinema perdente. Il più grande errore commesso alla CMA ha un nome, un cognome e un titolo venduto in 80 paesi per un incasso globale di 320 milioni di dollari: Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. Il poster del remake coreano campeggia sulla macchinetta del caffè dell’agenzia per ricordare a tutti che quando un regista propone un’idea insolita, un agente dovrebbe pensarci bene prima di rispondere: «Non suona. Messaggini e spuntine blu? Ma fai Immaturi 3, non rompere il cazzo».

Secondo: al netto del fatto che Call My Agent Italia fa satira, la maggior parte di ciò che mostra corrisponde alla realtà. Quel tipo di adrenalina è davvero il motore della nostra industria, ma il senso di ridicolo che spesso ne scaturisce… pure. Il segreto per prenderla con leggerezza e ricordarci che non siamo a questo mondo per salvarlo, ma al massimo per intrattenerlo un po’, è nei primissimi episodi. Questa storia inizia quando il fondatore dell’agenzia, in videocall dall’Indonesia, annuncia a tutti di voler mollare la baracca: «In un pianeta dove esiste Bali, me vuoi di’ perché devo mori’ a Roma Prati?». Ma infatti: perché?

 

 

 

 

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È stata la mano di Dio, a Venezia 78 per Sorrentino applausi a scena aperta https://www.fabriqueducinema.it/festival/e-stata-la-mano-di-dio-a-venezia-78-per-sorrentino-applausi-a-scena-aperta/ Fri, 03 Sep 2021 08:59:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15948 Dopo il road movie statunitense, primo approdo oltreoceano, dopo le flaneries disilluse e decadenti di Jep Gambardella sul lungotevere e nei palazzi romani, dopo il racconto di due dolorose senilità in una gabbia dorata in Svizzera, dopo il mega affresco di due pontefici, il divo e Mefistofele, e dopo il magniloquente dittico sul Cavaliere, Paolo […]

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Dopo il road movie statunitense, primo approdo oltreoceano, dopo le flaneries disilluse e decadenti di Jep Gambardella sul lungotevere e nei palazzi romani, dopo il racconto di due dolorose senilità in una gabbia dorata in Svizzera, dopo il mega affresco di due pontefici, il divo e Mefistofele, e dopo il magniloquente dittico sul Cavaliere, Paolo Sorrentino torna a Napoli con È stata la mano di Dio.

È un ritorno felice, felicissimo, cinematograficamente parlando, pur con al centro un enorme dolore, che qui l’autore semina e dissemina in un memoir, in un racconto di formazione, in un coming of age sulla base di una scrittura che quasi mai è stata così precisa, essenziale, leggera. In una parola: vera.

Vera, nonostante il racconto di È stata la mano di Dio cominci subito con un’evocazione che più napoletana non si può: un enorme abbraccio alla città, che comincia dal mare, individua Castel dell’Ovo, la collina di San Martino, finisce sul mare e poi si inoltra, di notte, insieme niente di meno che a San Gennaro, nei meandri oscuri della città dove facciamo la conoscenza di una presenza misteriosa, che a Napoli – come racconta Matilde Serao – esiste dalla notte dei tempi: il munaciello. Lo possono vedere solo in pochi. Lo può vedere solo chi ha il dono.

L’alter ego che Sorrentino sceglie per questa trasposizione divertita e insieme commovente della propria giovinezza si chiama Fabietto Schisa, interpretato dal giovane Filippo Scotti che è bravissimo. Certo, è stato guidato da un grande direttore di attori, ma il ragazzo ha stoffa.

Questo giovanotto solitario, allampanato, caratterizzato splendidamente dall’inseparabile walkman con le cuffie, si muove nella Napoli alta della metà degli anni ’80, l’epoca che potremmo chiamare a.D., avanti Diego, se è vero che un Messia venuto dall’Argentina ha segnato in questa città un evidente prima e dopo che ancora oggi porta i suoi malinconici strascichi.

Napoli alta perché Sorrentino racconta una classe sociale che nella proficua produzione cinematografica napoletana si vede rarissimamente: la borghesia. Gli Schisa abitano al Vomero, in un parco sobrio e pieno di gente per bene, al piano di sopra c’è una baronessa decaduta e decadente ma che gioca un ruolo decisivo in questa storia, la dirimpettaia è un’aspirante attrice che sogna di fare la protagonista per Zeffirelli e per un attimo sembra esserci riuscita, c’è anche il fool dal cuore d’oro che si traveste da Super Mario. E poi le vacanze: i momenti di svago, meravigliosamente corali, con una rappresentazione precisa, impietosa ma affettuosa, del caleidoscopio di umanità di Napoli e dintorni riunita tutta insieme, coppie male assortite, anziane uccellacce del malaugurio che poi avranno il loro riscatto, la zia bellissima che genera i primi pruriti adolescenziali, lo zio che agisce al limite dell’illegalità ma ha il cuore d’oro, e tanti altri.

In È stata la mano di Dio Sorrentino ha dato fondo a una mole sconfinata di ricordi, di immagini, di parole ascoltate o origliate in quel momento della sua vita, che verrebbe voglia di guardare questo film seduti accanto a lui e chiedergli cosa sia accaduto davvero e cosa no, cosa sia troppo assurdo per non essere successo invece veramente oppure cosa sia stato ammorbidito per pudore, o per qualunque altro motivo.

Eppure, in questo romanzo per immagini vivace, colorato, divertente come forse mai è stato Sorrentino, c’è anche un’immane sofferenza, la più grande che un adolescente, già di per sé fragile, potrebbe incontrare sul suo cammino. E quel momento, proprio quella tragica agnizione, è un momento altissimo del film, quasi buzzatiano, con questa surreale impossibilità dei medici di riuscire a dire al ragazzo cosa sia successo ai suoi genitori.

In chiusura, il dialogo con l’agognato maestro Antonio Capuano: quante grandi verità quel profeta è capace di dire al giovane Sorrentino, che illuminazione, che rivelazione devono essere state per lui quelle parole. Che le abbia pronunciate davvero, poco importa, perché il futuro regista dimostra di aver appreso la lezione.

Ultima menzione per gli attori. Già detto del sorprendente Scotti, sugli altri non ci potevano essere dubbi: Servillo e Saponangelo, Betti Pedrazzi memorabile nel ruolo della baronessa, Renato Carpentieri con le sue solite sublimi fiammate, Ciro Capano nei panni di Capuano, il bravissimo Biagio Manna che è il contatto del film – e di Fabio – con il ventre di Napoli, Luisa Ranieri, che in questa storia, della città di Napoli, è un po’ l’incarnazione.

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I corti più belli in visione free su Fabrique: il primo, Birthday https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/birthday/ https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/birthday/#respond Thu, 19 Mar 2020 09:57:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13664 In esclusiva per i lettori di Fabrique la visione gratuita, per un periodo di tempo limitato, dei corti più premiati degli ultimi anni: i loro autori sono registi giovani e promettenti, e noi scommettiamo sul loro talento*.  Cominciamo con Birthday di Alberto Viavattene: il suo lavoro ha attirato l’attenzione di Paolo Sorrentino che l’ha voluto […]

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In esclusiva per i lettori di Fabrique la visione gratuita, per un periodo di tempo limitato, dei corti più premiati degli ultimi anni: i loro autori sono registi giovani e promettenti, e noi scommettiamo sul loro talento*. 

Cominciamo con Birthday di Alberto Viavattene: il suo lavoro ha attirato l’attenzione di Paolo Sorrentino che l’ha voluto sui suoi set.

Notte. Un’infermiera violenta si aggira per i corridoi di una casa di cura. Sottrae farmaci per rivenderli ai drogati e ruba ai pazienti più vulnerabili. E odia sopra ogni cosa le persone anziane. Entrando nella stanza 12, occupata da tre sorelle, scopre che una di loro ha appena compiuto cento anni: da qualche parte ci deve essere un regalo di compleanno… che cambierà la loro vita per sempre.

Alberto Viavattene è nato a Torino nel 1986. Nel 2015 gira il videoclip virale Rockin’1000 – Foo Fighters learn to fly. Il video raggiunge il record di dieci milioni di visualizzazioni su YouTube in soli due giorni, attirando media e stampa internazionali, totalizzandone poi oltre trentacinque milioni e diventando così il video più visto in Italia del 2015. Nel 2017 gira il suo ultimo cortometraggio dal titolo Birthday, con protagoniste Roxane Duran e un’incredibile Sydne Rome. Dal 2007 affianca alla carriera di regista quella nel reparto fotografia delle produzioni di Paolo Sorrentino, prendendo parte, tra gli altri, alla lavorazione de Il divo, Youth e The Young Pope.

Alberto, da dove nasce l’idea per un corto patinato e cupo insieme come Birthday?

Per me l’horror nasce dal quotidiano, non è da ricercare troppo in là: un’anziana non più capace di intendere e di volere, chiusa in una casa di riposo in balia del prossimo, è una situazione spaventosa. Poi l’Indastria Film ha coinvolto uno sceneggiatore ma io, già dopo il primo giorno di riprese, avevo capito che non sarei riuscito a seguire la sceneggiatura. Ho dovuto rielaborarla sul momento, l’ho modificata a tal punto che lo sceneggiatore ha chiesto di togliere il proprio nome dai titoli.

Sei l’incubo di ogni sceneggiatore…

Lo so [ride ndr]. È stata una situazione estrema, c’erano pochi giorni e il budget non era alto, andavano prese delle decisioni.

Come spieghi la tua predilezione per l’horror?

È un genere nel quale mi sono trovato un po’ invischiato, è stata più un’esigenza, ho capito di riuscire a ottenere una certa attenzione nei festival di genere, dove una buona idea riesce a risaltare anche se hai pochi mezzi. Girerei volentieri anche un film drammatico o un noir, l’unico che non farei è una commedia.

Birthday Anno di produzione: 2017, Durata: 15 min, Macchina fotografica: DRAGON ROSSO, Formato: 1,85: 1, Suono: Dolby Digital 5.1]

* Dopo la scadenza il corto integrale è sostituito dal trailer.

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Loro 2, il film che ci scuoterà come un terremoto https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/loro-2-il-film-che-ci-scuotera-come-un-terremoto/ Thu, 03 May 2018 07:51:23 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10189 In bene o in male, quando torna al cinema Paolo Sorrentino riesce sempre a far discutere e a scaldar gli animi. Che si tratti dei detrattori più corrosivi o degli aficionados più mielosi. Stavolta più che mai le coscienze si sentono messe a scacco. Abbiamo finalmente completato la visione di questa lunga allegoria su Berlusconi […]

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In bene o in male, quando torna al cinema Paolo Sorrentino riesce sempre a far discutere e a scaldar gli animi. Che si tratti dei detrattori più corrosivi o degli aficionados più mielosi. Stavolta più che mai le coscienze si sentono messe a scacco. Abbiamo finalmente completato la visione di questa lunga allegoria su Berlusconi con Loro 2 e, come nel primo tempo (o film se preferite), contrastanti emozioni si sono rincorse al pari delle scene formalmente trionfanti ma metaforicamente stratificate come una torta setteveli che si stampa prepotentemente sul palato. E da qualunque parte stiate, si tratta del completamento di un geniale film commerciale ben vestito e impomatato da film d’arte.

Quasi tutta la vicenda del presidente senza aziende (conflitto d’interessi docet) continua a svolgersi nella sua villa in Sardegna, che il regista elegge a non-luogo cinematografico per farne la sua tavolozza più malleabile. Tutto si svolge intorno alla crisi matrimoniale e alla nuova trovata di portare all’opposizione 6 senatori della maggioranza per tornare in sella al governo. Satellite narrativo parecchio ridimensionato invece il Riccardo Scamarcio faccendiere dalle escort facili. Elena Sofia Ricci, dal canto suo, con una Veronica Lario sfaccettatissima, spezza le catene della depressione col divorzio. Intorno a lei Sorrentino costruisce il personaggio non solo migliore, ma meglio equilibrato tra metafora e copione con dialoghi fulminanti e incontrovertibili contro il marito. Grande connubio di teatralità in parole e immagini.

A questo proposito non viene abbandonata la strada dell’allegoria teatrale coltivata in punta di lattice da Toni Servillo, che fa turbinare al meglio il suo Silvio oratore proprio contro Veronica. Addirittura, in una lunga telefonata notturna da finto venditore immobiliare, l’attore abbandona per un po’ la parlata milanese astraendosi dalla cadenza berlusconiana. “L’altruismo è il miglior modo per essere egoisti”: si lascia sfuggire in un altro momento, forse una chiave di lettura anche per l’interpretazione a volte personalistica di Servillo. D’altro canto, ad esser detrattori, si potrebbero interpretare le debolezze nella cadenza milanese come un limite attoriale frutto di un mancato studio sul personaggio e farne un’accusa. Pure su questo si discuterà non poco. Ma viva Dio quando un film scuote gli animi e scontra le opinioni. Nel bene o nel male significa energia che viene trasmessa al pubblico, quindi ricircolo delle emozioni.

La deriva morale di Loro resta comunque la nostra per un motivo molto semplice. Come nel primo tempo, è e sarà una buona percentuale di pubblico ad aver votato almeno una volta quel politico. Il senso di colpa dello spettatore non è solo sordo, ma silenzioso e imbarazzato, nell’aver permesso, in democrazia, un certo piegarsi degli eventi col proprio piccolo voto. Che quel voto sia stato convinto, svogliato, sognante, innamorato di speranze o chissà cos’altro, quel Loro non siamo direttamente Noi, è vero, perché si tratta di una élite. Ma solo indirettamente e in parte sì, quella è una nostra essenza che forma l’ethos del popolo italiano negli ultimi decenni: lo sfrenato desiderio che Sorrentino, come un profumiere, ha estratto da pile di cronaca per la sua nuova fragranza cinematografica.

In mezzo c’infila note anche comiche. Stempera il trailer tv di Congo Diana, una strampalata serie da Canale Cinque che sembra fare affettuosamente il verso a Boris. Rimangono salace punteggiatura le scenette sul servitore calvo che si comporta come un riservato Alfred con il suo Batman. Farebbe sorridere anche la coreografia sempliciotta del Menomale che Silvio c’è con le escort. Ma ovunque si rida o si ridacchi, ci è sempre riservato un angolo imbevuto di vergogna. Poi si arriva a toccare anche la tragedia assoluta tirando in ballo il terremoto del 6 aprile 2009 che distrusse L’Aquila. Anche qui un paio di sorrisi inaspettati di cui non sveleremo i dettagli ci vengono pizzicati dall’istrione Silvio/Servillo. Ma la via, in questo frangente, tra macerie e facce tramortite è quella del dolore. Più omaggio o speculazione narrativa? Al pubblico l’ardua sentenza.

Merito dell’autore napoletano è il raccontare, immaginandolo, il midollo più umano, ridicolo e colpevole della storia di uomo potente astraendolo dal tempo e rinfilandocelo come un ago arzigogolato di significati. Ma il tempo, quello vero, è tiranno, e la scelta di tema e personaggio pesano oggi come piombo sulle sue spalle. Ma Sorrentino si conferma un artista nel forgiarne leggere farfalle. Come per Il divo, il futuro senza il vero protagonista (scevri dal volergliene) sarà il vero orizzonte di una comprensione sedimentata di Loro.

https://www.youtube.com/watch?v=vzs5-MDjG_k

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Le Precensioni: Loro 1 https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni-loro-1/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni-loro-1/#respond Thu, 26 Apr 2018 08:08:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10124 Dopo una puntata dedicata ad Io sono Tempesta e una ad Il tuttofare, la rubrica delle precensioni di Alabama e Chicken Broccoli torna anche questa settimana, concentrandosi sul nuovo e attesissimo lungometraggio di Paolo Sorrentino, intitolato Loro 1 (qui il trailer ufficiale). Prima parte di un dittico incentrato sulla controversa figura di Silvio Berlusconi, il film è nelle sale italiane dal […]

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Dopo una puntata dedicata ad Io sono Tempesta e una ad Il tuttofare, la rubrica delle precensioni di Alabama e Chicken Broccoli torna anche questa settimana, concentrandosi sul nuovo e attesissimo lungometraggio di Paolo Sorrentino, intitolato Loro 1 (qui il trailer ufficiale). Prima parte di un dittico incentrato sulla controversa figura di Silvio Berlusconi, il film è nelle sale italiane dal 24 aprile, mentre il suo seguito esordirà il prossimo 10 maggio. Nel cast figurano l’attore feticcio di Sorrentino Toni Servillo (già apparso i pellicole come L’uomo in più o La grande bellezza) nei panni dell’ex premier ed Elena Sofia Ricci in quelli della moglie Veronica Lario.

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Sorrentino e L’uomo in più: il calcio, la musica e nessun pareggio https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/sorrentino-e-luomo-in-piu-il-calcio-la-musica-e-nessun-pareggio/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/sorrentino-e-luomo-in-piu-il-calcio-la-musica-e-nessun-pareggio/#respond Wed, 25 Apr 2018 07:53:16 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10116 Che posso dire, che è meglio aver amato e perso, piuttosto che mettere linoleum nei vostri salotti?: ed è con questa citazione di una poesia di Amiri Baraka (In Memory of Radio) che si apre il primo film di Paolo Sorrentino, scritto e diretto nel 2001. Napoli, anni ’80. Antonio Pisapia (Andrea Renzi) è un […]

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Che posso dire, che è meglio aver amato e perso, piuttosto che mettere linoleum nei vostri salotti?: ed è con questa citazione di una poesia di Amiri Baraka (In Memory of Radio) che si apre il primo film di Paolo Sorrentino, scritto e diretto nel 2001.

Napoli, anni ’80. Antonio Pisapia (Andrea Renzi) è un calciatore all’apice della propria carriera, uno che non si presta ai trucchi del calcio scommesse, un timido e i timidi decidono di fare i difensori, si nascondono dietro agli attaccanti, tentano di passare inosservati. Tony Pisapia (Toni Servillo) è un cantante di successo, un uomo egocentrico e dipendente dalla cocaina. Il calcio e la musica sono fabbriche di sogni e – in un’epoca di eccessi come lo sono stati gli anni ’80 – i due omonimi hanno tutto da perdere: Tony viene sorpreso a letto con una minorenne, mentre Antonio si rompe i legamenti durante un allenamento.

Una chiave di lettura la dà anche la frase che l’ex Presidente rivolge ad Antonio: Penso che il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste. Forse il senso del film è tutto lì, non vale la pena giocare se non ti diverti, perché ’a vita è ‘na strunzata, dice Tony. Ed è la poesia di Sorrentino, grottesca e ironica insieme, sin dal primo film – in quel monologo di Servillo sulla libertà, la vita, la morte, la cocaina e il dolore, c’è già tutto. La narrazione procede parallela raccontando la disfatta dei due protagonisti, omonimi ma diversi, fino a quello sguardo lunghissimo che lega per sempre le loro vite e li conduce ognuno al proprio epilogo.

L’uomo in più del titolo viene citato per tutto il film, ma viene esplicitato solo nel finale: inteso non solo come schema di gioco rivoluzionario (quattro punte invece di tre), ma soprattutto come necessità dell’altro e di quello che rappresenta. Alla fine della storia, quando le luci si spengono, i due infelici si riconoscono come spiriti affini: nell’istante in cui si guardano, scelgono il proprio finale e rifiutano la dittatura dell’apparenza, reagiscono all’emarginazione.

Non è un caso che dell’Italia, prima di indagare la Chiesa, la scelta di Sorrentino sia ricaduta sul mondo della musica leggera e su quello del pallone, entrambi orgoglio del nostro Paese. Il film d’esordio del regista premio Oscar è un insieme di scelte musicali azzardate, luce fredda e regia esplicita, con una sceneggiatura equilibrata e tutti quei contrasti che caratterizzeranno poi tutti i suoi film.

Il talento di Sorrentino si fa notare subito, presentato alla Mostra di Venezia del 2001, vince il Nastro d’Argento per il miglior film esordiente e ottiene tre candidature al David di Donatello. Il regista napoletano è anche autore del soggetto e della sceneggiatura, per creare i due Pisapia si è ispirato a due personaggi reali: il cantautore Franco Califano e il calciatore Agostino Di Bartolomei, morto suicida. Il titolo stesso è ispirato allo schema tattico applicato da Ezio Glerean, allenatore del Cittadella negli anni ‘90.

Il personaggio di Tony tornerà poi nel primo romanzo di Sorrentino Hanno tutti ragione (Premio Strega 2010), però con il nome di Tony Pagoda, erede di Tony Pisapia. Il romanzo ci regala un altro frammento di Tony, l’ultimo pezzo del puzzle: Niente, io sono uno di quelli che, per ingordi di etichette deficienti, viene definito un cantante da night. Però io non sono un’etichetta. Io sono un uomo. Ma che dire, col senno di poi, non era meglio essere un’etichetta?

Quest’esordio è anche l’inizio del sodalizio artistico tra Toni Servillo e Paolo Sorrentino, un’amicizia determinante per la carriera di entrambi. E pensare che Servillo ha conosciuto Sorrentino lavorando a teatro, ma all’inizio non aveva un grande interesse per questa collaborazione. Un classico momento alla Sliding Doors, chissà come sarebbe andata altrimenti.

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Luca Bigazzi e “Young Pope”: “sono vivo per miracolo” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/luca-bigazzi-e-young-pope-sono-vivo-per-miracolo/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/luca-bigazzi-e-young-pope-sono-vivo-per-miracolo/#respond Mon, 16 Jan 2017 10:47:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3975 È già un cult. Dapprima, tutti noi, abbiamo temuto il gelido papa dagli occhi blu interpretato da Jude Law, non capendo mai le sue intenzioni. Poi, lo abbiamo odiato, una volta compreso di cosa fosse capace e, infine, lo abbiamo amato, quando ci ha aperto il suo cuore. Il premio Oscar Paolo Sorrentino ancora una […]

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È già un cult. Dapprima, tutti noi, abbiamo temuto il gelido papa dagli occhi blu interpretato da Jude Law, non capendo mai le sue intenzioni. Poi, lo abbiamo odiato, una volta compreso di cosa fosse capace e, infine, lo abbiamo amato, quando ci ha aperto il suo cuore. Il premio Oscar Paolo Sorrentino ancora una volta parla di amori mancati, e lo fa attraverso un personaggio magnetico, una sorta di angelo mostruoso (o mostro angelico) incorruttibile e allo stesso tempo pieno di contraddizioni.

Distribuito da Sky Atlantic, Young Pope in Italia ha ottenuto da subito un record di ascolti, e in questi giorni sta debuttando in America. La Cineteca Italiana di Milano è stata la prima a pensare a una piccola distribuzione su grande schermo, e non è stata una brutta idea, perché in dieci minuti la sala di Spazio Oberdan era già sold out.

Photo by Gianni Fiorito © 2015 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

Anche perché a incontrare il pubblico c’era uno dei più celebri direttori della fotografia italiani vincitore di 7 David di Donatello – di cui 4 vinti sotto la regia di Sorrentino – Luca Bigazzi, che si dice entusiasta di questa iniziativa: «Il cinema e tutte le opere cinematografiche vanno viste collettivamente, non singolarmente nelle proprie case. Se noi perdiamo il senso della sala cinematografica, il cinema non ha più senso di esistere perché la comunicazione non verbale che si stabilisce fra voi e il vostro vicino restituisce il senso vero del film, impossibile da trovare nella visione singola, isolata, al computer, in casa. Ne impedisce la comprensione».

Altra cosa importante, sottolinea Bigazzi, è vedere la serie in lingue originale, perché «il doppiaggio è uno scandalo» e, oltretutto, quando c’è un napoletano doc come Silvio Orlando che si destreggia con l’inglese, non se ne può proprio fare a meno. E poi la versione originale è l’unico modo per vedere la vera recitazione di Jude Law, «il più grande attore con cui io abbia mai lavorato».

Dieci puntate da un’ora ciascuna, eppure sembra di avere a che fare con un film molto lungo, più che con una serie TV. Anche il modo in cui è stata realizzata assomiglia più a quello di un film: «È stata una fatica mostruosa» racconta ancora il direttore della fotografia «abbiamo lavorato per 24 settimane,  con dei ritmi massacranti, ogni settimana realizzavamo mezz’ora di montato. Numeri insostenibili per degli essere umani. Sono vivo per miracolo».

Per non parlare delle ricostruzioni dei luoghi papali: «Non abbiamo potuto girare in nessun luogo reale, il Vaticano e le chiese erano interdette. Quindi ci rimanevano solo chiese sconsacrate o teatri di posa, e qualche palazzo meraviglioso di Roma che abbiamo spacciato per stanze papali. La scenografa ha fatto un lavoro incredibile».

E proprio in un periodo in cui sembra che ci sia una grande sfiducia nel pubblico – e si tenta di riportarlo in sala promuovendo iniziative come Cinema2Day – Bigazzi conclude il suo incontro ponendosi una domanda e riflettendo sul fatto che forse, se dallo Spazio Oberdan sono state mandate via oltre cento persone e i posti erano già esauriti un’ora prima dell’inizio della proiezione, perché non si è pensato a una distribuzione non solo televisiva, ma anche cinematografica? Dopotutto, si sa che il papa mobilita le folle…

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Maratona Oscar #Preview 3: La musica https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/maratona-oscar-preview-3-la-musica/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/maratona-oscar-preview-3-la-musica/#respond Tue, 23 Feb 2016 14:13:53 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2749 Tante sono le scommesse sui possibili vincitori della 88esima edizione degli Academy Award e davvero notevoli i nomi candidati per ogni categoria. Nello specifico, è uno scontro tra titani quello che vede protagonisti i compositori nominati al premio Oscar per la categoria Miglior Colonna Sonora. Tra questi infatti troviamo il pluricandidato Thomas Newman per Il […]

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Tante sono le scommesse sui possibili vincitori della 88esima edizione degli Academy Award e davvero notevoli i nomi candidati per ogni categoria.

Nello specifico, è uno scontro tra titani quello che vede protagonisti i compositori nominati al premio Oscar per la categoria Miglior Colonna Sonora. Tra questi infatti troviamo il pluricandidato Thomas Newman per Il ponte delle spie, l’islandese già vincitore del Golden Globe per La toeria del tutto nel 2015 Jóhann Jóhannsson per Sicario, Carter Burwell, noto per la sua collaborazione con i fratelli Coen, per Carol, e infine spiccano due tra i più grandi compositori del cinema: John Williams per Star Wars – Il risveglio della Forza, ed Ennio Morricone per The Hateful Eight.

Quest’ultimo ha già avuto modo di collaborare con Quentin Tarantino cedendogli il brano Ancora qui composto insieme a Elisa per il film Django, ma con The Hateful Eight il regista è riuscito a concretizzare il lontano desiderio di far curare al compositore italiano la realizzazione dell’intera colonna sonora del suo western.

I pronostici danno per favorito proprio il Maestro Morricone anche in seguito alla recente vincita del Golden Globe, ma indipendentemente da chi si aggiudicherà la statuetta, la comunione tra tutti questi grandi registi e compositori in gara è già di per sé un’importante vittoria per il mondo del cinema.

sumijoAltra categoria che riguarda la musica è quella della Miglior Canzone Originale. L’assegnazione del Golden Globe quest’anno è andata a Sam Smith per Writing’s On The Wall tratto da Spectre, brano raffinato e fedele allo stile di 007, forse più intimo e drammatico rispetto al precendente Skyfall, vincitore agli Oscar 2013.

In gara anche la poliedrica Lady Gaga, ormai anche lei abituata a nominations e premiazioni (ha vinto il Golden Globe quest’anno come migliore attrice per una serie TV), è candidata con il brano Till It Happens To You da The Hunting Ground, documentario che testimonia la violenza sessuale nei college americani.

Carica di sensualità la canzone dal sapore r&b Earned It dei The Weekend da 50 Sfumature di grigio.

A seguire troviamo Manta Ray da Racing Extinction di J. Ralph e Antony con il suo timbro inimitabile, e infine Simple Song #3 dal premio Pulitzer David Lang tratto da Youth di Paolo Sorrentino.

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Verdone, manca ancora poco per il grande film https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/verdone-manca-ancora-poco-per-il-grande-film/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/verdone-manca-ancora-poco-per-il-grande-film/#respond Sat, 30 Jan 2016 14:57:40 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2589 Carlo Verdone sta cambiando. È inevitabile ravvisare sin dai primi minuti di L’abbiamo fatta grossa una maggiore attenzione alla messa in scena se confrontata con quella degli ultimi lavori del regista romano. Il film comincia, infatti, con un interessante stratagemma tecnico, sicuramente già visto, ma pur sempre efficace: ci sembra di star vivendo una scena […]

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Carlo Verdone sta cambiando. È inevitabile ravvisare sin dai primi minuti di L’abbiamo fatta grossa una maggiore attenzione alla messa in scena se confrontata con quella degli ultimi lavori del regista romano. Il film comincia, infatti, con un interessante stratagemma tecnico, sicuramente già visto, ma pur sempre efficace: ci sembra di star vivendo una scena domestica ma poi, con una carrellata all’indietro, la macchina da presa ci svela che in realtà siamo su un palcoscenico teatrale.

È l’intelligente soluzione adottata per introdurci il personaggio di Yuri Pelagatti (Albanese), attore con problemi di memoria che si rivolgerà all’investigatore Arturo Merlino (Verdone) per far seguire la moglie che lo ha appena lasciato. Le cose ovviamente non andranno come previsto, perché si innescherà una serie di equivoci che porteranno i due protagonisti a venire in possesso di una valigetta dal preziosissimo contenuto, con tutte le possibili conseguenze che questo comporta.

Il film, così, procede seguendo due binari. Il primo, più evidente, si appoggia a un meccanismo da buddy comedy, basato sul contrasto tra i due componenti di questa “strana coppia” e attraversa situazioni in parte già trovate in altri film di Verdone. Tutte le scene, ad esempio, che riguardano l’anziana zia dell’investigatore, tra le più divertenti del film, e anche un altro paio che hanno protagonista una simpatica vecchietta, ricordano una sequenza di Posti in piedi in paradiso. Va detto però che il contrasto caratteriale che dovrebbe essere alla base del funzionamento del duo comico in alcuni momenti è riuscito, in altri meno, anche a causa della forte somiglianza fisica tra Verdone e Albanese.

Verdone-Albanese-3Passiamo al secondo binario seguito dal film, quello più nascosto. La comicità di Verdone ha sempre avuto un interessante sostrato malinconico, che Sorrentino ha saputo cogliere e usare proficuamente ne La grande bellezza: non è un caso che più di una volta nelle sue ultime produzioni il nostro Carlo si riservi l’epilogo del film per aprirsi a una parte di se stesso che ci piacerebbe esplorasse di più. È come se per i tre quarti del racconto si sentisse obbligato ad adattarsi all’icona che è diventato, dando al pubblico quello che si aspetta, cioè una commedia che faccia ridere, per poi permettersi soltanto alla fine di cedere completamente alla sua malinconia. In questo film, però, la vena pensosa di cui abbiamo parlato, sottolineata in certe situazioni da una dolce partitura musicale, è così presente e ribelle che contamina anche tutto il resto del film.

Si avverte, insomma, il desiderio sempre più intenso di Verdone, dovuto anche all’avanzare dell’età, e probabilmente incoraggiato dall’incontro impegnato con Sorrentino, di realizzare finalmente un film più maturo, sempre più vicino alla commedia sofisticata.

I due binari però rischiano di stridere tra loro e l’equilibrio può rompersi da un momento all’altro.

L’abbiamo fatta grossa raggiunge il suo punto più alto quando, alla fine, Verdone si libera dall’esigenza di riproporre se stesso, e ci regala un finale da vera commedia all’italiana, all’insegna della strafottente rivincita degli ultimi sui corrotti e gli arraffoni, lasciandoci con la convinzione che se tutto il film avesse seguito quest’unica linea tragicomica ne sarebbe venuto fuori qualcosa di sorprendente.

È molto probabile che dopo quest’ultimo lungometraggio l’attore-regista romano si lascerà andare per costruire un’opera diversissima dalle precedenti, e non dovremo stupirci se nel giro di qualche anno ci troveremo di fronte alla prima commedia non pura di Carlo Verdone, condita da quel riso amaro, più amaro che mai, che ha fatto davvero la differenza nel nostro grande cinema.

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Lina Wertmuller: “Meglio non crederci troppo” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/lina-wertmuller-meglio-non-crederci-troppo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/lina-wertmuller-meglio-non-crederci-troppo/#respond Wed, 27 Jan 2016 09:40:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2574 Incontrare Lina Wertmuller non è certo una questione da poco. In primo luogo per la sua attività artistica dallo stile fortemente personale, come gli ormai celebri occhiali bianchi, e, poi, per quel carattere volitivo che, fuori e dentro il set, ha contribuito a costruire il mito di “un osso duro” da affrontare. Il fatto è […]

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Incontrare Lina Wertmuller non è certo una questione da poco. In primo luogo per la sua attività artistica dallo stile fortemente personale, come gli ormai celebri occhiali bianchi, e, poi, per quel carattere volitivo che, fuori e dentro il set, ha contribuito a costruire il mito di “un osso duro” da affrontare.

Il fatto è che Lina (87 anni vissuti tutti con passione), restia a raccontarsi e a celebrarsi, prova molto più interesse per le vicende altrui che per le proprie. Per questo motivo, dopo avermi accolto nella sua casa a pochi passi da Piazza del Popolo tra meravigliose lampade tiffany e sotto lo sguardo vigile del gatto Nerone, sembra preferire i miei racconti ai suoi ricordi. Eppure, nonostante tanta riservatezza, qualcuno è riuscito a guadagnare la sua fiducia, tanto da convincerla a consegnargli i momenti e le sensazioni più importanti di un’intera vita, professionale e non. Si tratta di Valerio Ruiz, giovane aiuto regista della Wertmuller, che ha firmato il documentario Dietro gli occhiali bianchi. Presentato all’ultimo festival di Venezia, questo docufilm rappresenta un viaggio nei luoghi che hanno caratterizzato la carriera della prima regista a ottenere una nomination agli Oscar per Pasqualino Settebellezze.

Così, dai primi passi cinematografici accanto a Fellini, che le insegnò il valore della leggerezza e del divertimento, passando poi per l’indimenticabile coppia Giannini/Melato, con la quale è stata “travolta da un’insolito destino”, Valerio ha cercato di tratteggiare il carattere e gli elementi fondamentali di un’icona dallo stile dissacrante.

Tuttavia, da parte sua Lina Wertmuller non si riconosce come maestra di cinema. Anzi, con uno sguardo tra lo scettico e il divertito, risponde: «Il segreto è sempre stato non crederci troppo».

Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, e Federico Fellini sembrano essere stati due presenze fondamentali nella sua vita, soprattutto per quanto riguarda i primi passi nel cinema. In che modo hanno contribuito alla sua formazione?

Flora è stata l’amica per eccellenza. Ci siamo conosciute sui banchi di scuola e a lei devo il mio avvicinamento al teatro e al cinema. Inoltre, insieme a Mastroianni, mi ha introdotto a Cinecittà facendomi conoscere Fellini, tanto che ho lavorato come suo aiuto regista in 8 e 1/2. Cosa dire di Federico, poi. Lui era la vita. Una meraviglia assoluta. Grazie a lui ho appreso un segreto fondamentale, ossia l’importanza di divertirmi sempre e comunque facendo cinema. Molte sono le storie legate a lui e che possono raccontare il suo modo completamente libero di lavorare, oltre che l’uomo. Una di queste riguarda l’affetto nato tra lui e una bambina su un set mentre stavamo lavorando in Piemonte, se non sbaglio. Federico stava girando Boccaccio ’70 e con lei nacque un legame fortissimo, che io e la madre guardavamo da lontano con grande stupore.

Ha mosso i suoi primi passi professionali in televisione con Gian Burrasca, poi ha frequentato il teatro leggero di Garinei e Giovannini, quello più impegnato di Giorgio De Lullo e, infine, è approdata al grande schermo. Tutte queste esperienze, questi diversi linguaggi, come hanno influenzato il suo modo di fare cinema?

Onestamente non lo so. Non ho mai fatto alcuna differenza. Per me l’intrattenimento e l’arte hanno un valore universale e non importa in che luogo si esprimono. La mia generazione ha avuto, però, un grande vantaggio, ossia quello di poter fare riferimento a dei grandi maestri, dei capifila da seguire e da cui imparare. C’erano Fellini, Monicelli, Visconti, che seguivamo con attenzione e passione. Oggi, invece, chi sono i punti di riferimento? Ce ne sono ancora? Questo, secondo me, è il grande problema delle nuove generazioni di registi. Oltre a dei produttori che non sembrano avere il coraggio di rischiare.

Lina Wertmuller
Lina Wertmuller durante la nostra intervista (ph. Francesca Fago).

Lei è riuscita in un’impresa molto difficile. Pur non girando film di cassetta, le sue storie sono entrate nell’immaginario popolare. In sintesi ha fuso un cuore narrativo intelligente e colto con una forma diretta e facilmente riconoscibile dallo spettatore. Una strada che il cinema italiano attuale sembra non aver seguito.

E ha fatto male. In questo momento nel panorama del nostro cinema mi sembra di vedere un deserto. Apprezzo il lavoro di Matteo Garrone, mentre non amo particolarmente Paolo Sorrentino. Non ho visto La grande bellezza, ma credo che Roma, in particolare, non sia una materia adatta a lui e al suo cinema.

In anni in cui la commedia all’italiana aveva grande forza, lei si è ritagliata uno spazio del tutto personale utilizzando l’arma del grottesco. In che modo questa scelta ha definito il suo cinema? È un po’ come se avesse inventato un nuovo genere, la commedia grottesca alla Wertmuller.

Non so. In verità non mi sono mai soffermata a pensare quale fosse lo stile e la forma narrativa da impiegare. Più di una volta il mio cinema è stato definito grottesco, anche se non comprendo bene gli elementi che hanno portato a questo giudizio. Semplicemente ho fatto delle scelte. Ho scelto le storie e i personaggi che mi piacevano e mi divertivano. Lo stesso vale per lo stile, se così possiamo dire. Però non ho mai applicato delle definizioni al mio lavoro.

Il suo amore per il Sud è sempre presente. Lo troviamo nei luoghi, sicuramente nei personaggi e nel linguaggio. Per quanto riguarda il dialetto, poi, come ha lavorato per renderlo un elemento credibile e fondamentale del suo cinema? 

Senza dubbio il Sud Italia è nel mio cuore. Al Nord credo di aver lavorato veramente poco. Ho girato una parte di Mimì Metallurgico, poi Tutto a posto e niente in ordine e Metalmeccanico e parrucchiera. Il bello dell’Italia è che ci sono molte culture e il loro incontro crea sempre magia. Il dialetto, poi, è fondamentale. Quando collaboravo con il Centro Sperimentale imponevo ai ragazzi di studiarne due, uno del Nord e uno del Sud. E lo fanno ancora oggi. Vedete, non è che gli italiani parlino l’italiano. Prima viene il proprio dialetto. Per questo motivo ho sempre avuto particolare attenzione per questo linguaggio e l’ho costruito per i miei personaggi con amore. Giannini, poi, è stato un interprete meraviglioso di questa lingua.

 Il suo cinema, pur avendo questo cuore così regionale, è stato molto amato dal pubblico e dalla critica americani. Com’è il suo rapporto con i critici?

A me della critica non è mai importato nulla. Ho fatto i film che volevo. Questo è stato importante. Poi, il caso ha voluto che io sia stata molto amata da John Simon, all’epoca spietato critico cinematografico del New York Magazine. Era lo spauracchio di tutti i registi e le attrici. Le cronache delle serate mondane raccontavano dei piatti e bicchieri gettati in faccia a Simon dalle star che aveva criticato. Per questo motivo il suo amore assoluto per Pasqualino Settebellezze è risultato strano perfino al suo editore, tanto da pagargli la trasferta in Italia per venire a intervistarmi. Ricordo che suonò alla mia porta un pomeriggio ma io non lo volli incontrare. Ha provato altre volte, fino a quando è diventato molto amico di mio marito, Enrico Job.

Dopo che Pasqualino Settebellezze ricevette quattro nomination agli Oscar, i produttori americani le fecero una corte spietata. In momenti come quelli, come si resiste alle lusinghe del successo?

Quel periodo è stato intenso. Ero stata nominata come miglior regista dall’Academy e i cinema a Times Square proiettavano i miei film. L’America mi ha amato e io l’ho riamata con entusiasmo. Per quanto riguarda la pressione del successo, poi, è molto facile; basta non ascoltare. Anzi, meglio sarebbe non crederci troppo.

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