Opera Seconda Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 21 Jun 2021 17:21:10 +0000 it-IT hourly 1 Favolacce: i bambini ci guardano (e ci giudicano) https://www.fabriqueducinema.it/festival/favolacce/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/favolacce/#respond Wed, 26 Feb 2020 08:12:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13606 Favolacce è il secondo film dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, una favola nera con protagonisti bambini e i loro genitori

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Una fiaba nera come la notte quella firmata da Fabio e Damiano D’Innocenzo con tanto di voce narrante che funge da cornice, colori acidi e sguardo infantile. Dopo aver raccontato l’adolescenza criminale della periferia romana ne La terra dell’abbastanza, i D’Innocenzo si spingono oltre e scandagliano il lato oscuro dei sobborghi residenziali. Quelle raccontate in Favolacce sono famiglie del sottoproletariato uguali a tante altre, disoccupati, venditori, camerieri, che fanno sacrifici per tirare avanti dando ai figli un po’ di quel che meriterebbero, ma il malessere che scorre sotto la superficie troverà il modo di manifestarsi in modo imprevedibile.

A trentun anni, i fratelli D’Innocenzo si avventurano in un territorio impervio che ha visto cadere nomi più illustri ed esperti, ma la visione lucida e coraggiosa dei gemelli romani non teme ostacoli nell’accostarsi all’infanzia con sguardo a tratti partecipe e a tratti distaccato. Il talento di Fabio e Damiano D’Innocenzo si manifesta fin dal casting, perfetto, dei piccoli protagonisti che incarnano bambini solo in apparenza normali, bambini isolati, timidi o smarriti, curiosi di sperimentare e di conoscere ciò che li aspetta nella crescita.

Per gran parte del tempo Favolacce sembra raccontare una quotidianità fatta di piccole cose, incontri, confronti coi genitori, tentativi di socializzazione, prime cotte. La crisi economica rende più duro il quotidiano, ma le famiglie si dimostrano presenti, attente. Elio Germano, Gabriel Montesi e gli altri adulti non nascondono i loro lati grotteschi, la loro loro volgarità intrinseca, che cozza con la purezza dello sguardo infantile e i D’Innocenzo traslano da un punto di vista all’altro in un equilibro che arriverà a incrinarsi nel climax finale.

I D’Innocenzo si distanziano dalla matrice neorealista che caratterizzava la loro opera prima per esplorare quella regione oscura dove reale e surreale si incontrano, ed è da questo scarto che nasce Favolacce. La visione del film risulta ancor più angosciante proprio in virtù del fatto che la storia narrata nel film utilizza strumenti desueti per il cinema italiano. Lo stile visivo dei D’Innocenzo si fa più raffinato e stratificato, con primissimi piani insistiti sui piccoli protagonisti a cui corrisponde una rarefazione della parola. I piccoli osservano muti il degrado degli adulti che invece riversano su di loro un mare di parole (parolacce spesso), in buona fede, ma si dimostrano incapaci di comprenderli fino in fondo. La presenza dell’elemento naturalistico, tipico delle aeree suburbane, unito alla suggestiva fotografia di Paolo Carnera e a un montaggio sapiente creano un’atmosfera straniante e allucinata amplificata dall’uso del silenzio, tanto più assordante man mano che gli adulti aprono gli occhi sulla vera natura dei piccoli fino a toccare con mano l’orrore che si nasconde dietro i loro sguardi dopo che la luce si è spenta.

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Festival di Cannes 2017: “L’intrusa” https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-2017-lintrusa/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-2017-lintrusa/#respond Wed, 24 May 2017 13:36:04 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8588 Applausi e commozione a Cannes per L’intrusa, il secondo film di finzione di Leonardo Di Costanzo dopo il memorabile L’intervallo (Venezia Orizzonti, 2012). L’intrusa è un titolo ambiguo. Di intrusa ce ne potrebbe essere più d’una. Ma si potrebbe anche parlare di intrusi, personaggi-funzione appena accennati ma che sono il motore della storia, e intrusi […]

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Applausi e commozione a Cannes per L’intrusa, il secondo film di finzione di Leonardo Di Costanzo dopo il memorabile L’intervallo (Venezia Orizzonti, 2012).

L’intrusa è un titolo ambiguo. Di intrusa ce ne potrebbe essere più d’una. Ma si potrebbe anche parlare di intrusi, personaggi-funzione appena accennati ma che sono il motore della storia, e intrusi di un altro tipo ancora, quelli in divisa.

Raffaella Giordano nel film intrusaProtagonista è la torinese Giovanna (interpretata da Raffaella Giordano, coreografa, ha danzato anche con Pina Bausch nella leggendaria compagnia di Wupperthal), operatrice sociale che lavora in un centro ricreativo per i bambini del difficile quartiere di Ponticelli: «non un film sulla camorra» precisa Di Costanzo «ma un film con la camorra all’interno», proprio come fu L’intervallo, e anche in questo caso c’è un locus che dalla camorra protegge, isola, redime, o forse non fa nulla di tutto questo, perché – altra componente comune sia a Intrusa che a Intervallo – in nessuna delle due storie si racconta uno status destinato a perdurare, una condizione di stabilità, uno stanziamento, una felicità raggiunta, un esito accomodante.

Perché anche in questo sta la grandezza di Di Costanzo e dei suoi film: ha il tocco lieve di chi mette il racconto davanti a ogni cosa, ha uno sguardo d’autore autentico ma che non sta mai al di sopra dei suoi personaggi, la sua macchina a mano sta invece in mezzo a loro, alla loro altezza (anche e soprattutto quando si tratta di bambini), ne condivide i destini, ne asseconda i gesti, eppure non è mai conciliante, non si risparmia rispetto alle pieghe talvolta dolorose e impreviste che possono prendere gli eventi.

E d’altra parte la lezione del documentario sta proprio in questo tipo di approccio, prim’ancora che nello stile, affidato a una cura che non sfugge all’occhio attento (la fotografia fu di Bigazzi, nel film precedente, questa volta è affidata alla veterana francese Hélène Louvart, già dop per i lungometraggi di Alice Rohrwacher). In questo particolare cortile dove ambienta L’intrusa, Di Costanzo fa muovere un caleidoscopio di personaggi che a un certo punto quasi sembrano una compagnia circense, e tale, tutto sommato, è la loro sorte nel pittoresco finale.

Set del film Intrusa di Leonardo di Costanzo.
Foto: Gianni Fiorito

Nella “Masseria” (questo il nome del centro di recupero) arriva Maria, sposata a un sanguinario camorrista che la polizia locale viene prontamente ad arrestare con una retata che sconvolge la serenità del luogo. La figlia Rita, asociale e scorbutica (anche lei un po’ selvaggia, anche lei dedita allo sputo, come un’altra bambina italiana che abbiamo conosciuto qui a Cannes…), viene incoraggiata da Giovanna a far parte della compagnia: i primi passi sono anche sorprendenti, ma poi la “diversità” sua e della madre prende il sopravvento.

Giovanna, filantropa illuminata, vuole che i suoi colleghi siano superiori a certe tendenze discriminatorie che si mettono in moto nei confronti della famiglia del malamente, che sarebbe ovviamente più sano per tutti cercare l’integrazione piuttosto che l’allontanamento (un concetto che si può estendere a tanti ambiti…). Ma come intrusa è Maria, è intrusa allo stesso modo anche Giovanna in un mondo che ha delle leggi, dei comportamenti stabiliti, i dettami del quieto vivere napoletano.

Giovanna e Maria sono due donne di principio, coraggiose, ciascuna a modo proprio. Prendono decisioni che in un modo o nell’altro possono ferire qualcuno. E pazienza se si tratta dello spettatore.

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“Acqua di marzo” il nuovo film di Ciro De Caro https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/acqua-di-marzo-il-nuovo-film-di-ciro-de-caro/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/acqua-di-marzo-il-nuovo-film-di-ciro-de-caro/#respond Wed, 22 Feb 2017 09:44:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=4244 Tre anni fa usciva Spaghetti Story, esempio di film realizzato con un microbudget, che ha inaspettatamente avuto un grande successo.  Ora Ciro De Caro si confronta con le speranze e i timori di ogni regista al suo secondo lungometraggio. Sono sempre stato della convinzione che ci sono storie che possono essere raccontate con budget bassissimi, […]

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Tre anni fa usciva Spaghetti Story, esempio di film realizzato con un microbudget, che ha inaspettatamente avuto un grande successo.  Ora Ciro De Caro si confronta con le speranze e i timori di ogni regista al suo secondo lungometraggio.

Sono sempre stato della convinzione che ci sono storie che possono essere raccontate con budget bassissimi, raggiungendo standard qualitativi che hanno poco o nulla da invidiare a produzioni ben più grandi. Sei d’accordo? Quali sono, però, i rischi che si corrono per chi sceglie questa opzione?
Sì, ci credo, perché l’ho fatto e sono sempre più convinto che sia, a volte, l’unica strada per giovani autori che non riescono a farsi produrre il primo film. È un tipo di produzione un po’ folle, ma anche se si può pensare che sia un’operazione molto rischiosa, in realtà non lo è. Il rischio è quello di aver buttato i soldi che si sono investiti, che per chi come me ha messo tutto quello che aveva per fare un film è tanto, ma i punti a favore sono di più. Intanto non si ha niente da perdere, se si fa un brutto film probabilmente non lo vedrà nessuno, le aspettative sono pari a zero, e si gode di totale libertà. L’aspetto della libertà è il più importante, perché spesso si vedono opere prime prodotte in maniera spregiudicata che usano linguaggi nuovi, rompono le regole, tutte cose difficili da vedere nella maggior parte dei film mainstream prodotti in Italia. Frequentando molti festival ed essendo un cinefilo, noto che il cinema nel mondo (e anche in Italia, anche se a livello più underground) osa parecchio. Mi viene da sorridere quando sento dire che è nelle serie americane che si vede la vera innovazione: questa percezione credo la abbia chi va a vedere solo i film più popolari e non ha uno sguardo più vasto sulla cinematografia mondiale. Tuttavia non credo sia così scontato che dopo aver fatto un primo film indipendente (anche se di successo) si arrivi a fare un salto definitivo nella propria carriera. Questo perché il mercato e il cinema stanno cambiando, perché si produce tantissima roba, perché c’è internet, Netflix, facebook e così via. Prima, quando per vedere qualcosa si poteva andare solo al cinema, era più semplice e c’era un dibattito culturale più vivo, adesso vogliono essere tutti protagonisti e non si sa chi rimane a fare lo spettatore.

Acqua di marzo è un’opera stilisticamente molto vicina a Spaghetti Story, pur essendo costata di più. Da cosa viene la decisione di mantenere lo stesso approccio essenziale, minimalista, pur avendo a disposizione risorse maggiori?
Non sono uno che razionalizza molto le scelte, agisco sempre di pancia e poi capisco però che una motivazione c’era. In generale mi piace la crudezza, il realismo, credo che il cinema debba graffiare e disturbare un po’ anche nel linguaggio, non solo nei contenuti, altrimenti rischia di diventare troppo simile alla televisione. Non ne faccio dunque una questione di budget, ma più che altro una scelta di rigore stilistico che in questo momento mi rappresenta. Tuttavia, anche se Acqua di marzo è costato di più di Spaghetti Story, rimane sempre un low budget, e per il momento, anche il prossimo vorrei che avesse un budget “limitato”. Questo mi consente di mantenere un certo controllo sulle scelte anche se, quando c’è un produttore, a dei piccoli compromessi bisogna sempre scendere, purtroppo o per fortuna non lo so.

Il tanto temuto passaggio da un’opera prima a un’opera seconda: cosè cambiato per te in termini produttivi e distributivi?
Dopo un primo film che ha avuto moltissimi riscontri positivi, che faceva simpatia ed era coccolato, la paura di deludere mi ha sempre accompagnato. Non so se anch’io ho commesso i classici errori che si commettono nelle Opere seconde, ma una cosa l’ho capita e purtroppo l’ho capita dopo e spero non si veda in Acqua di marzo. Ho capito che i secondi film si sbagliano per presunzione. Dopo un lavoro per il quale hai ricevuto solo complimenti, puoi commettere l’errore di crederti onnipotente e di poter fare come vuoi. Non è così, ma ora capisco che è difficile rendersene conto in tempo. Per quanto riguarda la distribuzione, questa volta c’è già una distribuzione e lo sapevo già prima di iniziare a girare. Con Spaghetti Story è stato un salto nel vuoto.

È un’opera apparentemente semplice, in realtà dalla costruzione e dai temi complessi…

È un film in cui metto in scena la facilità con cui ognuno di noi si racconta bugie e ipocrisie facendo finta di essere felice. Si parla d’amore, dei rapporti di coppia e di quanto sia sempre più difficile gestirli; diventiamo sempre più incapaci a stare in coppia, e questo mi terrorizza e mi affascina, ne sono quasi ossessionato. Acqua di marzo parla dell’incapacità di saper lasciare andare le persone e le cose che amiamo. Siano esse una compagna o un compagno, una nonna morente, un vecchio cimelio o qualcosa di noi stessi.

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