Opera Prima Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:09:24 +0000 it-IT hourly 1 Venezia 81: “Anywhere Anytime” e i ladri di biciclette oggi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/venezia-81-anywhere-anytime-e-i-ladri-di-biciclette-oggi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/venezia-81-anywhere-anytime-e-i-ladri-di-biciclette-oggi/#respond Thu, 05 Sep 2024 12:37:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19315 Issa è un senegalese sans papier. Quando se ne accorge l’uomo che gli dà lavoro come scaricatore al mercato, lo licenzia: troppo alto il rischio dei controlli. Da qui una bici acquistata con fatica, il lavoro di rider e il furto che stravolgerà ulteriormente la vita del ragazzo in una Torino che a modo suo […]

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Issa è un senegalese sans papier. Quando se ne accorge l’uomo che gli dà lavoro come scaricatore al mercato, lo licenzia: troppo alto il rischio dei controlli. Da qui una bici acquistata con fatica, il lavoro di rider e il furto che stravolgerà ulteriormente la vita del ragazzo in una Torino che a modo suo cerca di fare qualcosa per gli invisibili come lui, ma non è mai abbastanza. Anywhere Anytime, opera prima di Milad Tangshir, omaggia il passato di Ladri di biciclette con il presente della consegna a domicilio e prende in prestito da quei grandi sceneggiatori del Novecento (Vittorio De Sica, Cesare Zavattini, Suso Cecchi D’Amico) il congegno narrativo della bici rubata.

Il suo film pedala sull’asfalto degli invisibili, parla di lotta per la sopravvivenza e integrazione dei nuovi vinti, quindi di sfortuna e sfumature che possono far crollare un’esistenza come un castello di carte. Con l’attenzione a un realismo urbano germogliato esteticamente sul solco moderno dei fratelli Dardenne, pesca dalla strada le sue facce e i suoi cromosomi narrativi, in senso pieno. Il regista è un iraniano con un salto nel nostro paese simile a quello di Ferzan Ozpetek. Fino all’arrivo in Italia, nel 2011, aveva inciso tre album con una rock band in Iran, poi qui da noi gli studi di cinema, i primi cortometraggi premiati e la collaborazione con Daniele Gaglianone, che ha scritto la sceneggiatura insieme a lui e a Giaime Alonge. Il loro script è asciutto, scevro di pietismi e contempla l’importanza della relazioni tra le persone. Che sia amicizia, flirt, lavoro, volontariato, incontri fortuiti con brave persone o incontri con brutti ceffi, il trio di autori ci presenta un affresco molto realistico della Torino di oggi attraverso lo sguardo di un ragazzo straniero.

Tangshir ha preso dalla strada gran parte del cast. Dei non-attori, un po’ come Garrone per Io capitano. Ibrahima Sambou è il protagonista, il ragazzo che cerca solo di cavarsela. La sua limpidezza nella nostra Italia così contraddittoria ha l’asprezza di una realtà che Sambou per primo ha visto con i suoi occhi ben prima di qualsiasi set.

A prescindere dal classico percorso dell’eroe costruito per l’intrattenimento narrativo, il film apre uno squarcio su una realtà difficile, pur senza mettere lo spettatore troppo  disagio, facendogli assaggiare senza rischio quelle situazioni a tenaglia da una poltrona vellutata rinfrescata da aria condizionata. E anche senza caricare sensi di colpa sul pubblico, questo cinema mostra il mondo di oggi e le sue nuove storture subite da speranza e buona fede operosa. Il filo rosso di queste tematiche parte da lontano, cinematograficamente da De Sica passando per le crune di tanti autori e tante epoche. Dai Petri ai Loach, ai più recenti Vicari, Riondino e Garrone. Fino alla bella sorpresa Tangshir. Proprio a questo punto, nell’incontro tra realtà e narrazione, il cinema diventa strumento necessario di coscienza civile. Anywhere Anytime si avvale oltretutto di una colonna sonora fatta di rumbe jazz che ci immergono in ritmi sincopati e imprevedibili come la vita in strada. È stato presentato a Venezia per la Settimana della Critica, l’unico italiano in concorso, e uscirà al cinema l’11 settembre.

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Animali randagi, insolito road movie abruzzese con Ferrara e Lattanzi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/animali-randagi-insolito-road-movie-abruzzese-con-ferrara-e-lattanzi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/animali-randagi-insolito-road-movie-abruzzese-con-ferrara-e-lattanzi/#respond Wed, 26 Jun 2024 12:33:37 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19166 L’esordio al lungometraggio di finzione è arrivato per Maria Tilli con il road movie non convenzionale Animali randagi, in uscita nelle sale domani. Interpretano due giovani ambulanzieri di provincia Giacomo Ferrara e Andrea Lattanzi, che vivacchiano tra noia e blande avventure. Fino a una trasferta per trasportare verso la Serbia un malato incurabile insieme a […]

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L’esordio al lungometraggio di finzione è arrivato per Maria Tilli con il road movie non convenzionale Animali randagi, in uscita nelle sale domani. Interpretano due giovani ambulanzieri di provincia Giacomo Ferrara e Andrea Lattanzi, che vivacchiano tra noia e blande avventure. Fino a una trasferta per trasportare verso la Serbia un malato incurabile insieme a sua figlia, Ivan Franek e Agnese Claisse. Scandagliare la vita interiore di quattro personaggi dalle vite randagie è il punto centrale per questa regista abruzzese che ha iniziato a farsi notare tra il documentario Sembravano applausi, su Marcello Fonte e Matteo Garrone, e Illuminata, docufiction su Laura Biagiotti.

Con il cast di Animali randagi vai dall’Abruzzo alla Serbia. Giacomo Ferrara riprende il suo dialetto di origine, fai parlare così anche Andrea Lattanzi: i loro personaggi sono giovani che galleggiano in provincia.

È stata una bella sorpresa lavorare con Giacomo, non sapevo fosse così mio vicino di casa. Entrambi viviamo a Roma da tanto tempo, ma torniamo spesso in Abruzzo e il film è stato anche un viaggio insieme per riscoprire le nostre origini. Ha capito appieno il suo personaggio, Toni, un giovane “che galleggia”, come dici tu. Il nostro era uno sguardo solidale, mai giudicante. Anche Andrea, che è romano, ha esperienza con la provincia perché ci ha vissuto i primi anni della sua vita. Poi come attore si porta naturalmente dietro una sorta di disperazione mista a un carattere un po’ più instabile, e il mix artistico con Ferrara si è rivelato vincente.

Invece con Ivan Franek e Agnese Claisse hai creato una relazione padre/figlia complessa da più punti di vista…

Far conoscere Agnese e Ivan è stata una fortunata casualità perché mi hanno confessato che venivano da esperienze simili ai loro personaggi. Lei ha avuto un padre vicino al personaggio di Ivan, e lui un giorno mi ha confidato «io con una delle mie figlie ho un rapporto così». Come ha detto Ivan la sera della premiazione all’Adriatic Film Festival, quando si sono conosciuti in una farmacia facendo un tampone non sapevano di essere reciprocamente gli attori del mio film, ma Ivan pensò subito: “Questa secondo me sarà mia figlia nel film”. Avevano una forte affinità che li ha resi affiatatissimi, mettendo tanto delle loro esperienze reali nel film.

Animali randagi
Agnese Claisse in “Animali randagi”.

Il tema della morte assistita viene solo sfiorato dalla sceneggiatura che avete scritto in tre.

Si, per due motivi. Uno è che non volevo fare un film sociale, ma parlare di una singola storia perché le battaglie politiche possono essere poco efficaci se non si parte da una motivazione personale, esistenziale, e da cui nasce, poi, l’esigenza di avere una legge. Il secondo motivo per cui non sono andata proprio “dritta” sul tema è perché molti film sull’eutanasia parlano di persone con una vita impossibile agli occhi dello spettatore: bloccate sul letto senza nessuna possibilità di salvezza e senza più indipendenza. Io invece volevo un personaggio che prendesse la sua decisione con piena autonomia, in modo da risultare più forte e impattante. Ho voluto raccontare la morte assistita dal punto di vista di un uomo che sa che sta morendo. La paura della morte già appartiene normalmente a tutti noi, figuriamoci quando ti dicono che morirai fra tre mesi. Non possiamo negare il diritto a scegliere una morte non solo più dignitosa, ma più dolce. Non si tratta solo di dignità, ma di umanità.

La tua attenzione a livello drammaturgico è molto concentrata sulle quattro anime in ambulanza…

Infatti questa è soprattutto una storia di relazioni. È qualcosa di cui amavo parlare già nei documentari. In Sembravano applausi c’era la relazione tra Marcello e Matteo Garrone, mentre ne La gente resta si parlava del rapporto tra tre fratelli. Il 98% della nostra vita è fatto di relazioni, incontrarsi, lasciarsi. Qui interagiscono quattro personaggi molto diversi. Il personaggio di Lattanzi è un po’ incosciente all’inizio, Giacomo invece è più puritano, si sente ingannato, si chiede se stiano portando un uomo a morire. Poi c’è la figlia che si chiede cosa fare e dove stare: la decisione cruciale sarà la sua.

Nel tuo cinema a volte ci sono piccole allegorie, contrasti tra quotidiano e momenti pulp come il dito mozzato in Animali randagi mentre gli ambulanzieri bevono il caffè. O nel tuo corto Tutte le cose sono piene di lei, dove la faraona servita a tavola viene prima catturata e uccisa. Tutto quasi senza filtro, ironicamente reale.

Sicuramente ha molto a che fare con la mia infanzia. Sono cresciuta in aperta campagna e il rapporto con la morte era naturale, molto diverso da quello che oggi vedo negli altri da adulta. La prima volta che sono andata a un funerale mia nonna mi ha presa in braccio perché da sola non arrivavo alla bara per salutare il morto. Non c’era niente di tetro, solo una persona che era viva e poi a un certo punto era morta. Fa parte della cultura contadina, ancora fortissima nella provincia. Per questo non ho voluto raccontare una provincia industriale, ma la provincia di campagna, che ha tutto un altro punto di vista sull’esistenza.

Qual è il tuo cinema preferito e quello che vorresti fare?

Il primo cinema a cui penso è quello di Cassavetes, Una moglie è uno dei miei film preferiti: per me un film potrebbe anche non parlare di niente, facendomi vedere solo come i personaggi interagiscono tra loro. Quand’ero ragazzina mi piacevano tanto i film di Malick perché il rapporto dei suoi personaggi con la natura mi ricordava qualcosa del mio mondo. Ci sono molto affezionata anche se non vorrei fare quel tipo di cinema. È difficile da dire “mi voglio ispirare a”, e soprattutto pericoloso perché poi è un attimo dal copiare. Amo Andrea Arnold, tanto cinema crudo, di stomaco. E non amo il cinema intellettuale.

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Troppo azzurro, il nostro Woody Allen millenial https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/troppo-azzurro-la-dolce-tossicita-di-un-woody-allen-millenial/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/troppo-azzurro-la-dolce-tossicita-di-un-woody-allen-millenial/#respond Fri, 10 May 2024 12:48:31 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19136 Da tutto il 2023 a oggi sono uscite alcune opere prime che messe insieme iniziano a comporre un significativo mosaico di sogni, paure, speranze e delusioni dei giovani dagli under 20 fino a quelli più in prossimità dei 30, gli Z e i millenials. Se con Una sterminata domenica di Alain Parroni «credere in qualcosa […]

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Da tutto il 2023 a oggi sono uscite alcune opere prime che messe insieme iniziano a comporre un significativo mosaico di sogni, paure, speranze e delusioni dei giovani dagli under 20 fino a quelli più in prossimità dei 30, gli Z e i millenials. Se con Una sterminata domenica di Alain Parroni «credere in qualcosa è impegnativo» per un trio di ventenni intorno a graffiti e a una gravidanza, con Non credo in niente di Alessandro Marzullo il manifesto sulla disillusione potrebbe ritenersi compiuto fin dal titolo. Ma se con la tossica relazione di non-amore del suo Patagonia Simone Bozzelli ci ha infilati in un dramma dirompente quanto rassegnato nel suo finale, Pilar Fogliati e le sue quattro ragazze Romantiche ci hanno portati in una dimensione umoristica più leggera e spensierata dove le eroine hanno un atteggiamento tutto sommato costruttivo. Si potrebbero citare pure i road movie Noi anni luce di Tiziano Russo e Io e il secco di Gianluca Santoni, o i visionari Space Monkeys di Aldo Iuliano e Amanda di Carolina Cavalli, che però sono del 2022. La tessera più recente di questo mosaico del più nuovo cinema italiano è Troppo azzurro di Filippo Barbagallo.

Il venticinquenne Dario vive ancora accudito dai suoi genitori, circondato dagli amici ex-liceali di sempre e dietro al sogno di una ragazza “impossibile”. In un’estate romana di casa vuota e genitori in vacanza ne conoscerà un’altra di ragazza, e da lì si accavalleranno amori e occasioni. La confezione colorata, pop e stilisticamente ineccepibile rende questo primo lavoro di Barbagallo piacevole come una bibita fresca con retrogusto un po’ amaro. Storia umoristica di un ragazzo romano del centro, delle sue insicurezze esistenziali e delle sue molteplici scuse per tirarsi indietro, allungare la coperta del proprio quartiere bene per scacciare quell’ansietta, per riuscire a respirare in una sempiterna comfort zone, anche al costo di soffocare chi da fuori l’alimenta e chi lo vorrebbe accogliere nel proprio mondo.

Barbagallo nasce come sceneggiatore fresco di Centro Sperimentale di Cinematografia, un paio di film come assistente alla regia, Tito e gli alieni di Paola Randi e Ride di Valerio Mastandrea. Seppur figlio d’arte, il padre è il produttore Angelo Barbagallo, estraneo però a questo progetto, il giovane regista, e per la prima volta anche attore, mette su un piccolo pamphlet di nevrosi metropolitane giovanili.

Il suo Dario, con la sua dolce tossicità sembra a volte un piccolo Woody Allen millenial, la sua New York è Roma, e il suo Gershwin Pop X, che ha composto le musiche. Un’elettronica pop con suoni saltellanti da videogame alternati a momenti più contemplativi. Visivamente il regista forse smarmella un po’ rendendosi patinato, magari per ammiccare al pubblico giovane, ma in realtà quella solarità è proprio il lievito madre del suo sguardo. Poi ti splitta sullo schermo varie istantanee di corpi avvinghiati e discorsi teneri in un letto dopo un amplesso, o stringe il formato come Dolan in Mommy, adattando però il nostro schermo alla forma verticale di uno smartphone per la soggettiva di una chat. E non manca di alternare scenari di periferia alla contemplazione di ruderi o isole tirreniche. Tutto molto gratificante al nostro sguardo, certo, ma sotto sotto il disagio di una generazione dove i maschietti passano spesso per tontoloni e le ragazze ambiscono a svegliarli è un fil rouge.

Se non il papà, Barbagallo ha avuto un braccio destro d’eccezione, Gianni Di Gregorio, come supervisore artistico che lo ha plasmato in attore. Insomma, un po’ come Sergio Leone per il novello regista Carlo Verdone, o come Giovanni Veronesi per l’esordio di Pilar Fogliati dietro la macchina da presa. Sceglie un cast autoironico e funzionale alla sua scrittura, Barbagallo. Il padre appiccicoso lo interpreta proprio Mastandrea, le due contendenti di Dario hanno i visi e gli stupori di Martina Gatti e Alice Benvenuti, mentre l’inseparabile amico grillo parlante è Brando Pacitto. Questa scacchiera per «raccontare le sensazioni speciali che durano un attimo», ha dichiarato il regista. Ma se da una parte un’adolescenza prolungata si fa comodo rifugio dall’ansia verso «futuri che non si sono mai avverati», dall’altro ogni occasione si fa metafora del trampolino, quel buttarsi nella vita che prima o poi tutti dovranno affrontare. Come quelli citati all’inizio è un nuovo autore Barbagallo, ha da dire cose piuttosto interessanti in forma e sostanza, e per questo andrebbe tenuto d’occhio da chi si chiede dove stia andando il nuovo cinema italiano.

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Gloria! Quando una cantautrice prende la macchina da presa https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/gloria-quando-una-cantautrice-prende-la-macchina-da-presa/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/gloria-quando-una-cantautrice-prende-la-macchina-da-presa/#respond Mon, 15 Apr 2024 16:51:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19048 Il titolo sembra già di per sé una scommessa. Da una parte inteso come preghiera rivolta al cielo, come i canti che da secoli animano le messe cristiane. Ma anche una sorta di richiamo coercitivo a un’ipotetica ragazza che disobbedisce. Gloria! è l’opera prima di Margherita Vicario, già in concorso alla Berlinale. Già, con tanto […]

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Il titolo sembra già di per sé una scommessa. Da una parte inteso come preghiera rivolta al cielo, come i canti che da secoli animano le messe cristiane. Ma anche una sorta di richiamo coercitivo a un’ipotetica ragazza che disobbedisce. Gloria! è l’opera prima di Margherita Vicario, già in concorso alla Berlinale. Già, con tanto di punto esclamativo. Partita come attrice diplomata all’Accademia d’Arte Drammatica, una filmografia d’attrice di 8 lunghi, 4 corti e 12 partecipazioni in serie tv, nonché cantautrice di indie-pop con Universal, un album, due EP e diversi tour all’attivo, più 190 mila followers su Instagram, la Vicario punta alto per essere un’esordiente. Scrive e dirige una storia corale dove s’incrociano diversi piani narrativi, molte minuziose ricostruzioni sceniche e costumistiche del 1800 veneziano, ma ci parla soprattutto di musica e giovani artiste schiudendoci le porte su alcuni aspetti di un’epoca mai considerati dal mainstream.

Il connubio tra ragazze nobili e orfane, strano ma storicamente vero, aveva la possibilità di studiare musica negli Ospedali, ovvero strutture che le ospitavano finché non avessero preso marito, ma al tempo stesso ne soffocava ogni slancio creativo in un’atmosfera dove le donne erano semplicemente al servizio degli uomini. La regista parte dall’Ospedale della Pietà al tempo di Pio VII, il Papa che per alcuni mesi soggiornò in Veneto visitando alcune congregazioni, e ci mescola la vicenda fittizia di Teresa, cenerentola muta ma con un talento speciale e segreto: la composizione musicale. Insieme a un gruppo di ragazze violiniste si riunirà intorno a un pianoforte, un po’ come una Setta dei Poeti Estinti in stile Attimo fuggente, durante notti insonni e piene d’invenzioni musicali. Nasce da qui una magia di note che pervade di vitalità tutto il pastiche. Citazioni pittoriche e atmosfere che ricordano magicamente Music, il musical di Sia, e Into The Woods, quello Disney di Rob Marshall offrono un’impronta estetica più rivoluzionaria delle scarpe da ginnastica in Marie Antoniette della Coppola.

La Vicario orchestra febbrili sfide al piano che ricordano quella della Leggenda del pianista sull’oceano, con audace leggerezza plana dalla musica barocca al pop, passando per ritmi jazz e gospel. Se a metà novecento il rock’n’roll di Elvis faceva veniva bollato come “musica del diavolo”, immaginate cosa avrebbe mai potuto provare persone ottocentesche ad ascoltare jazz e pop dei giorni nostri. Praticamente più che un film in costume diventa una felice ucronia, dove cioè l’autrice stravolge il passato portando sonorità impensabili nel primissimo ottocento.

Si avvale di un cast assortito, dalle protagoniste Galatéa Bellugi e Carlotta Gamba, ai fanatici villain Paolo Rossi, nel ruolo del dispotico maestro di musica, e Natalino Balasso, retrogrado governatore, fino agli outsider Elio, che interpreta un affettuoso liutaio, e Vincenzo Crea, giovane dalla vita difficile per le proprie scelte sessuali.

Sottotemi sono tra gli altri la maternità negata, la forza della solidarietà femminile e il potere ecclesiale maschiocentrico. Questo racconto rivoluzionario e complesso per un’opera prima porta alcune piccole farraginosità per i più attenti, ma la Vicario dimostra di saper gestire il set come fosse quasi un musical da palcoscenico, e il cuore che ne traspare con chiarezza ha le carte per conquistare emotivamente alla visione. Infatti questa storia appassionante e originalissima, in forma e sostanza, al suo 5° giorno di sala si è piazzata quinta al box office. In più, dato interessante per addetti ai lavori e spettatori attenti a temi ambientali, questa di Tempesta è una produzione avvenuta in EcoMuvi, cioè il disciplinare europeo di sostenibilità ambientale certificato per una produzione cinematografica a basso impatto.

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Clorofilla: la ragazza con i capelli verdi entra nel mito https://www.fabriqueducinema.it/festival/clorofilla-la-ragazza-con-i-capelli-verdi-entra-nel-mito/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/clorofilla-la-ragazza-con-i-capelli-verdi-entra-nel-mito/#respond Thu, 16 Nov 2023 15:22:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18801 Maia ha capelli verdi erbacei, è legata in maniera profonda alla natura e al mondo delle piante. Teo è un giovane e solitario coltivatore di arance. E la loro storia non assomiglia a nessun’altra vista sullo schermo. Ivana Gloria, regista dell’insolito Clorofilla, è nata Domodossola, si è diplomata allo IED di Milano e  ha vissuto […]

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Maia ha capelli verdi erbacei, è legata in maniera profonda alla natura e al mondo delle piante. Teo è un giovane e solitario coltivatore di arance. E la loro storia non assomiglia a nessun’altra vista sullo schermo. Ivana Gloria, regista dell’insolito Clorofilla, è nata Domodossola, si è diplomata allo IED di Milano e  ha vissuto a New York, Londra e Portogallo. L’abbiamo incontrata in occasione della Festa del Cinema di Roma, più precisamente in quella fucina di novità che è Alice nella Città, in cui il film è stato presentato, e ci ha parlato del verde dominante nella sua opera prima, di trasformazioni e aspirazioni.

Con Clorofilla hai messo in scena la favola di due anime solitarie legate entrambe indissolubilmente alla natura. Cosa rappresentano per te Maia e Teo?

Maia è una ragazza che rinnega la propria essenza, ma grazie a Teo riesce a scoprire qualcosa che non ha mai voluto vedere dentro di sé. C’è una scena, costruita in montaggio, dove tramite il contatto fisico che ha con Teo Maia riesce a sentire la natura, e quindi anche la sua natura. Mi è piaciuto raccontare la dinamica del riconoscere nell’altro qualcosa che in te nascondi.

Il tuo film intreccia le Metamorfosi di Ovidio e il mito di Dafne sviluppandoli poi in modo molto originale.

Quello era più un punto di partenza dello sceneggiatore, Marco Borromei. Per me la storia parlava di una persona che non vuole accettare la sua natura e la propria sessualità. Infatti la protagonista a un certo punto avrà un orgasmo “con” il bosco, qualcosa che l’attira e la spaventa allo stesso tempo. Ho cercato di fare un film molto sensoriale e visivo, così abbiamo lavorato tanto sul suono per dare tridimensionalità alle emozioni e alle paure di Maia.

Con i tuoi protagonisti Sarah Short e Michele Ragno hai creato un’evidente affinità sullo schermo. Come l’avete raggiunta?

È stato un avvicinamento graduale ma necessariamente veloce: avevamo pochissimo tempo per girare. Michele Ragno è stato scelto due settimane prima d’iniziare le riprese, Sarah è stata confermata un mese prima, ma il momento in cui ho sentito davvero la chimica fra di loro è stato quando ho messo la camera sui primissimi piani: le scene più intime. Il set e la troupe erano sempre in movimento per organizzare le scene successive, ma quando arrivavo a stringere sui volti di Sarah e Michele tutti si calmavano in una specie di catarsi.

Non c’è solo tanto verde il Clorofilla (costumi, scene, pergolati e vegetazione libera), ma traspare un messaggio di amore, o forse più un atteggiamento verso l’ambiente, molto pacifico e positivo.

Avevo la natura come leit-motiv perciò non potevo che cercare di catturarla in ogni inquadratura. Ce n’è solo una di Teo in salotto che sfoglia dei disegni mentre Maia gli si avvicina: è l’unica scena che non ha un po’ di verde. Volevamo aggiungerlo in postproduzione ma non c’era più budget, una rabbia…

Michele lo conoscevo già come attore e ti ha dato tantissime sfumature e fragilità. Sarah la vedevo per la prima volta invece e l’ho trovata naturale, ruvida a suo modo, e funziona molto bene.

Sì, di lei ho visto un self-tape a settembre dell’anno scorso. Era solo il primo step ed era già l’attrice che mi convinceva di più, avevo già deciso che Maia era lei. Michele invece è un attore molto solido. È arrivato molto preparato e ha aiutato anche Sarah. Prima di partire per il set abbiamo provato in tutti i parchi di Roma analizzando ogni stato d’animo e spesso ci ritrovavamo a condividere nostre esperienze di vita più intime partendo dai personaggi. Michele aveva anche disegnato uno schema in cinque fasi sul processo d’accettazione della morte associandolo al percorso dei personaggi nella sceneggiatura. Però abbiamo dato anche tanto spazio all’improvvisazione. Pensa che nelle prove, per fornire le inquadrature al DOP, ho praticamente pre-girato il film col mio iPhone.

Posso dirtelo? A me fai pensare anche a una risposta pacata a Titane e, solo per la parte onirica, a Un lupo mannaro americano a Londra, ma per vegani. Ma qual è il cinema al quale aspiri?

Agli operatori in realtà ho fatto una testa così perché volevo girare molti piani sequenza, avendo in mente Victoria, un film di un solo piano sequenza del 2015 girato a Berlino in una notte. Volevo uno sguardo fluido. Per Titane sì, in effetti! Sai, io sono una fan di Junior, il primo cortometraggio di Julia Ducournau. Invece Il lupo mannaro… sai che non l’ho mai visto? Lo cercherò. Invece sul cinema a cui aspiro mi è stato detto che Clorofilla sembra un film straniero. Ecco, aspiro a fare film internazionali.

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Desiré, la forza di diventare grandi https://www.fabriqueducinema.it/festival/desire-la-forza-di-diventare-grandi/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/desire-la-forza-di-diventare-grandi/#respond Mon, 30 Oct 2023 08:27:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18785 Napoli. Una ragazza al posto sbagliato nel momento sbagliato viene arrestata con addosso la droga di un corriere, il suo ragazzo. Ci spostiamo sull’isola di Nisida, un posto quasi irreale nel Golfo di Napoli dove si trova davvero un istituto penale minorile. Desiré di Mario Vezza ha un incipit da Mare fuori e una delicatezza […]

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Napoli. Una ragazza al posto sbagliato nel momento sbagliato viene arrestata con addosso la droga di un corriere, il suo ragazzo. Ci spostiamo sull’isola di Nisida, un posto quasi irreale nel Golfo di Napoli dove si trova davvero un istituto penale minorile. Desiré di Mario Vezza ha un incipit da Mare fuori e una delicatezza introspettiva che ricorda il Fiore di Claudio Giovannesi. La protagonista è una sedicenne di origini nigeriane. Uno scricciolo d’energia stretta che con le sue due lingue madri porta due mondi dentro di sé: napoletano e francese. Testa alta e muso duro a proteggerne tenerezza e fragilità tipiche di quell’età, l’interpretazione di Nassiratou Zanre ci rende molto vividamente la forza di un’adolescente che vuole crescere a tutti i costi. Anche dal carcere, anche con una madre problematica che di tanto in tanto verrà a trovarla. Anche se il mondo intorno sembra implodere in quell’isolotto a ferro di cavallo con un mare cristallino dove fare il bagno, seppur sorvegliate dalle secondine, è un lusso per pochi.

Forse una via per fuggire da quelle mura è il teatro. Negli ultimi anni lo abbiamo visto con Grazie ragazzi di Riccardo Milani e ancor prima con il Cesare deve morire dei Taviani. Un insegnante di teatro, barba candida e passione artistica di Enrico Lo Verso, segue il gruppo di giovani detenute dove con fatica inizia ad ambientarsi anche Desiré. Lavorare su sé stesse per mettere in scena l’Amleto sarà il trampolino non solo per la protagonista, ma anche per tutte le altre ragazze. Un nuovo modo per apprezzare la loro vita di giovani donne. Emotività e percorsi interiori non emergono da sequenze di prove estenuanti (praticamente assenti) quanto più dai confronti con il loro maestro a fine prove. Una stilizzazione ottimamente congegnata alla base di una regia lineare che ne evidenzia i pregi senza mai strafare.

Il teatro come chiave capace di dischiudere la vita lo intende anche una secondina in una battuta con le ragazze dove ammetterà a mezza bocca di vivere già facendo teatro tutti i giorni. Un piccolo segno sulla condizione del personale penitenziario, costretto a vivere schermato dalle proprie emozioni ed empatie durante ogni turno di lavoro. La scrittura di Vezza, insieme a Fabrizio Nardi e con lo zampino di Maurizio Braucci, che ha appena accompagnato anche la sceneggiatura di Palazzina Laf, respira di mille sfumature perfettamente posate su ognuna delle ragazze che tra le mura carcerarie aspira alla vita a modo suo. Carica sessuale, rabbia, paura, resilienza, instabilità e amicizia, tutte represse tra le loro parole non dette fanno percorsi poco convenzionali attraverso queste penne, riservandoci nei giusti momenti dei buoni twist. Anche grazie alle giovani attrici del cast.

Alla Festa del Cinema di Roma n° 18, anzi meglio, ad Alice nella Città, la sezione separata che sembra un festival a sé, Desiré si è aggiudicato il Premio Raffaella Fiorella per il miglior film italiano del Panorama Italia, a sua volta sezione di Alice. Un po’ come questo gioco di sezioni a matrioska, in questo film conta il nocciolo, il coming of age diremmo con facilità o faciloneria. Invece il nocciolo qui sta semplicente nell’imparare a nuotare tra i flutti non sempre accoglienti della vita.

 

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Michele Riondino: “Palazzina Laf e la mia Taranto degli anni ’90” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/michele-riondino-palazzina-laf-e-la-mia-taranto-degli-anni-90/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/michele-riondino-palazzina-laf-e-la-mia-taranto-degli-anni-90/#respond Wed, 25 Oct 2023 13:18:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18770  Esordisce dietro la macchina da presa dopo 20 anni di carriera d’attore Michele Riondino. Con Palazzina Laf emerge tutto il suo impegno civile per il territorio della sua Taranto raccontandoci una storia poco nota su un vero caso di mobbing ante-litteram anni ’90, dove lavoratori specializzati dell’Ilva venivano confinati in un reparto fantasma, un limbo […]

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 Esordisce dietro la macchina da presa dopo 20 anni di carriera d’attore Michele Riondino. Con Palazzina Laf emerge tutto il suo impegno civile per il territorio della sua Taranto raccontandoci una storia poco nota su un vero caso di mobbing ante-litteram anni ’90, dove lavoratori specializzati dell’Ilva venivano confinati in un reparto fantasma, un limbo tra demansionamento e licenziamento, e su un operaio “promosso” con la mansione di spiare lì i suoi colleghi. In sala dal 30 novembre il film è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, dove il regista ha condiviso con noi alcuni retroscena sul film.

Quest’anno hai compiuto vent’anni di carriera. Quella della regia era una tua vecchia idea o l’hai messa a fuoco col tempo?

Non avevo mai realmente pensato d’imboccare questa strada. Però è anche vero che in questi vent’anni sono poche le volte che mi sono ritrovato sul set e a viverlo soltanto da attore. Grammatica, fotografia e geometrie cinematografiche le ho sempre trovate stimolanti. Come mettermi al fianco dei professionisti che ho incontrato: operatori, macchinisti, DOP e tutti i tecnici che il cinema lo fanno con le proprie mani.

Sia per la vitalità del tema che per lo stile, Palazzina Laf mi fa pensare a Ken Loach e a Lina Wertmuller. A quali cineasti ti sei ispirato?

La mia passione è per il cinema degli anni ’70, quello più attivista. Sono legato ai film di Pietro Germi, Elio Petri, Mario Monicelli, Lina Wertmuller e tutto quel cinema che ci ha raccontato le storie di uomini e di lavoratori, me lo porto dietro anche da attore. In generale i miei titoli-guida sono La classe operaia, Todo modo, A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ma per questo film in specifico i miei riferimenti sono stati tre: I compagni di Mario Monicelli, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Fantozzi di Luciano Salce.

A proposito di compagni, Elio Germano, Vanessa Scalera e Paolo Pierobon sono stati i tuoi compagni di viaggio. Come vi siete scelti?

La mia esigenza era quella di creare una compagnia d’attori teatrali: ho girato in cinque settimane, ma ne serviva almeno una di prove per lavorare con gli attori nel luogo della palazzina. Volevo avere la possibilità di creare un’unione di gruppo, sia perché era la mia prima esperienza da regista sia perché il teatro è il mio habitat naturale. Con Elio il primo approccio è stato quello verso un amico, un collega, un compagno che condivide con me idee e opinioni. Gli ho fatto semplicemente leggere la sceneggiatura, come a Daniele Vicari. Volevo sapere cosa ne pensassero. Con Elio non abbiamo mai parlato del suo personaggio, ma mi ha dato subito la sua disponibilità perché voleva far parte del film, la definizione del ruolo è venuta dopo. Per quanto riguarda invece Vanessa Scalera, il suo ruolo è stato scritto pensando proprio a lei: non era scontato partecipasse ma ha accettato subito, un vero regalo. Lo stesso con Paolo Pierobon. Alla nostra prima telefonata mi fa: “Ecco, mi vuoi far fare la parte del cattivo del nord, eh?”. E in effetti era così.

Le musiche del tuo film sono firmate da Theo Teardo e da Diodato con un pezzo originale. Hai dato loro particolari indicazioni sulle atmosfere sonore di cui avevi bisogno?

Theo si è occupato della colonna sonora, ma i due brani editi inseriti sono di Bloodhound Gang e Andrea Laszlo. Invece La mia terra di Diodato è una canzone originale. Di questo corredo musicale fanno parte anche tre marce funebri bandistiche che rappresentano la tradizione tarantina nelle processioni della Settimana Santa. La reference che avevo dato a Theo è Fantozzi: mi servivano musiche che potessero esasperare i paradossi ed evidenziare il grottesco della vicenda.

«Ma voi vi chiedete mai perché vicino alla più grande acciaieria d’Europa non ci sta manco una fabbrica di forchette? Mi sa che la ricchezza va tutta da un’altra parte. A noi ci resta solo la monnezza». La frase di uno dei personaggi sintetizza lo sfruttamento economico, l’impoverimento di un territorio e l’inquinamento selvaggio.

È la più importante del film, secondo me, e riassume esattamente il mio pensiero sulla questione tarantina. Il film racconta fatti successi tra l’97 e il ’98 ma ci sono diversi indizi che portano gli spettatori ai giorni nostri perché la Palazzina Laf è solo uno dei problemi relativi a Taranto. Il mio pensiero è quello di chi oggi combatte per far emergere la verità territoriale, la nostra verità che oggi non è ancora rappresentata e raccontata come si deve.

Da attore hai lavorato con registi come Martone, Vicari, Bellocchio, Risi, e Capitani. Poi dirigi Palazzina Laf. E fuori dai set sei impegnato con il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Quanto è importante produrre cinema civile oggi?

Faccio parte dell’attivismo tarantino, organizzo il Primo Maggio e partecipo alle manifestazioni perché sono un cittadino che vota ed esprime il proprio parere. Ci ho messo sette anni a fare un film su Taranto per raccontare al meglio una storia che potesse rappresentare un punto di vista oggettivo, politico, ideologico se vogliamo, ma fondamentale per capire la questione tarantina per la quale mi sto spendendo da tanto tempo. Diciamo che sono un diesel che ha bisogno di tempo per avviarsi.

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Una sterminata domenica, l’esordio di Alain Parroni a Venezia 80 https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/una-sterminata-domenica-lesordio-di-alain-parroni-a-venezia-80/ Tue, 25 Jul 2023 10:49:11 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18613 Chi scrive lo considera uno dei suoi più cari amici, ma questo non conta più: ormai sono subentrati anche i pezzi grossi a credere in lui (piccola rivincita: noi lo scriviamo su queste pagine dal lontano 2017). Oggi, invece, a produrre il suo esordio Una sterminata domenica sono Giorgio Gucci (Alcor), Domenico Procacci (Fandango) e […]

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Chi scrive lo considera uno dei suoi più cari amici, ma questo non conta più: ormai sono subentrati anche i pezzi grossi a credere in lui (piccola rivincita: noi lo scriviamo su queste pagine dal lontano 2017). Oggi, invece, a produrre il suo esordio Una sterminata domenica sono Giorgio Gucci (Alcor), Domenico Procacci (Fandango) e Wim Wenders (Road Movies), e il film sarà in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 80.

La difficoltà della chiacchierata non sta tanto nell’evitare spoiler e linciaggio, ma nell’offrire un assaggio dell’atipicità del personaggio e della sua opera prima. Questo film esiste, senza esistere davvero, da almeno sei anni. Nel frattempo Parroni ha vissuto in un bunker, si è infilato in situazioni al limite della follia, ha combattuto contro chi avrebbe potuto produrlo. Alla fine ha vinto lui. È riuscito a fare esattamente il film che voleva fare: un film assurdo. E per un esordiente è quasi impossibile. Chi scrive ha goduto e subìto in prima persona i risvolti di questa estenuante gestazione, per questo, quando Parroni dice: «Non mi sembra che questo film mi abbia completamente risucchiato», io alzo un sopracciglio. E poi scoppiamo a ridere.

Nel 2017 la nostra intervista su Fabrique si chiudeva con te che già parlavi di questo film. Dicevi che sarebbe stato «un lavoro collettivo, quel circo che tanto mi diverte». Lo è stato?

Caspita! Un lavoro di cinque anni dev’essere per forza collettivo, sennò diventi pazzo. Eppure tante persone avrebbero potuto dirmi: «Adesso però sticazzi, è il tuo lavoro, non il nostro». Questo circo invece ci ha permesso di fare tantissime cose improvvisate, che forse sono le più belle del film. Penso alla mia famiglia numerosa, che mi ha aiutato con i provini in un periodo in cui ad Ardea stava succedendo di tutto: facevo i casting mentre giravano Super Sex, sembrava la città del cinema. Ho vissuto questi anni come una jam session, ma in realtà è andata abbastanza come avevo programmato.

Ecco, Ardea: tutto inizia e torna lì, per te.

Il film è ambientato nel luogo in cui sono cresciuto e da cui, come tutti durante gli studi, mi sono allontanato. Lo dico senza voler fare la classica vignetta di Alain che prende il treno e va in città, però è così. In terza media marinavo la scuola per andare a Piazza del Popolo e il film questa dimensione ce l’ha. Già questo è stato doloroso: girare un film a Napoli sarebbe stata una vacanza, invece tornare a casa e provare ad essere sincero è un’altra cosa. Ho vissuto con i ragazzi del film situazioni e serate distruttive che ogni adolescente di provincia conosce. Ho scoperto un sacco di cose sui miei genitori che non sapevo, ho trascorso molto tempo al bar dove mio padre usciva da ragazzino, i suoi amici dell’epoca mi hanno raccontato storie che probabilmente lui non mi avrebbe mai detto. Non fanno parte del film, ma mi hanno permesso di crescere per girare questo film.

Tre personaggi principali: Alex, Brenda e Kevin. Hai scelto degli sconosciuti.

Sono giovanissimi, non hanno grandi esperienze alle spalle. Ho fatto moltissime interviste nel corso degli anni a ragazzi reali, perché mi serviva partire da lì per scrivere la sceneggiatura. Quelle testimonianze le ho poi infilate a forza dentro gli attori che ho scelto, cioè la realtà della campagna romana impiantata in un attore di Torino e uno del Lago di Garda. Quello che ho sempre immaginato era prima di tutto visivo, quindi non mi interessava se Zac non fosse cresciuto ad Ardea: dopo una settimana gli si è attaccata addosso.

una sterminata domenica
Alain Parroni sul set di “Una sterminata domenica” (ph: Roberto Pioli).

Molto prima dei casting, e molto prima che qualcuno volesse produrti, hai iniziato a fare delle interviste per trovare gli attori giusti. Racconta.

Dopo aver letto la sceneggiatura, un produttore mi aveva detto: «Non esistono adolescenti così. Dove sono i genitori? Perché non gliene frega un cazzo della scuola?». Io gli avevo risposto: «Perché, i genitori di Sailor Moon dove erano mentre combatteva?». Ma dovevo anche dimostrarglielo, così il giorno dopo sono tornato a provocarlo con le prime dieci interviste: «Sicuro che non esistono questi adolescenti?». Ho iniziato a cercare ragazzi giovanissimi, i miei cugini, i loro amici e gli amici degli amici. Li intervistavo e a distanza di due anni tornavo a parlare con tutti.

Una sterminata domenica: che storia è questa?

Come me la racconto io: è un triangolo amoroso estivo, che parte equilatero e in autunno diventa scaleno. Come la racconterei ai distributori: è un film di formazione su tre adolescenti, tra i 16 e i 20 anni, che cercano di affermarsi nel mondo attraverso l’unico strumento che hanno: attirare l’attenzione in qualsiasi modo. Che poi è anche quello che dovresti fare quando giri il tuo primo film. Nella nostra intervista del 2017 dicevamo che avrebbe dovuto essere un proiettile. Piombo puro. Credo lo sia, soprattutto a livello visivo. Questo è quello che ho dentro: adesso lo vedete?

Se questo film avesse un genere?

Se proprio dovessi scegliere, mi farebbe sorridere se venisse etichettato come un coming of age o come un teen drama. È un genere con cui sono cresciuto. E poi realizzare questo film è stato anche il mio, di coming of age.

Qual è il pubblico per un film come il tuo?

In fase di casting mi hai detto che, secondo te, le scelte che stavo facendo non avrebbero reso il film accessibile a tutti.

Ti ho detto che il rischio era quello di impacchettarlo come un film pop, ma che poi l’avrebbero preso come un presuntuoso film d’autore.

Però anche le scelte d’autore oggi sanno essere stordenti. Io credo che alle basi del film ci sia un teen drama a tutti gli effetti, che ne possa godere qualsiasi ragazzino, e nella prima parte del film ci crederanno. Poi forse rischieranno di sentirsi bombardati.

Tu non volevi solo fare la tua opera prima, volevi anche dimostrare che si può girare un film in modo diverso rispetto a quello che ti viene imposto.

Io non capisco come gli altri non lo capiscano. Quando non trovavo i produttori sono arrivato a riprogettare tutto come un film fotografico, l’avrei fatto da solo, così. Come puoi farti mettere sotto dalla visione di un produttore? Se credi in un’idea, come fai a non girarla come vuoi tu? Io non penso che ci sia tutta questa competizione come ci vogliono far pensare quando siamo giovani. Sembra che tutti vogliano fare un film, ma non è davvero così.

Dopotutto, adesso sei prodotto da Wim Wenders. Se lo chiederanno tutti: come l’hai agganciato?

Avevo un film pronto ma non lo stavo girando e quindi stavo impazzendo. Sognavo il Giappone da una vita: ci vado. Come itinerario uso Tokyo-Ga di Wim Wenders, un film bellissimo che racconta Ozu. Vado nello stesso bar del film e conosco la signora che ha incontrato Wenders quarant’anni prima e via così, finché non arrivo alla tomba di Ozu. Gli porto il whisky come ha fatto Wenders e poi gli dico: «Ozu, porco Giuda, io non riesco a fare un film». Dopo due settimane Giorgio Gucci mi chiama: «Sono andato al MIA, c’è Wenders che cerca opere prime da realizzare. Ci ha detto di inviargli il tuo materiale». Poco dopo mi sono ritrovato con la fotocopia del passaporto di Wenders per partecipare al bando del Ministero. Oggi stiamo chiudendo il film sempre con il Giappone di mezzo: è surreale che mi abbia detto di sì il compositore di Evangelion, l’anime che guardavo da ragazzino ad Ardea. Alla fine di tutto dovrò tornare lì, ringraziare Ozu e portargli un’altra bottiglia di whisky.

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Patagonia, l’opera prima di Simone Bozzelli in concorso a Locarno https://www.fabriqueducinema.it/festival/patagonia-lopera-prima-di-simone-bozzelli-in-concorso-a-locarno/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/patagonia-lopera-prima-di-simone-bozzelli-in-concorso-a-locarno/#respond Tue, 11 Jul 2023 10:50:36 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18564 L’universalità di ogni relazione e i conseguenti rapporti di potere. Indaga su questo il cinema di Simone Bozzelli, regista under 30 già vincitore della SIC a Venezia con il corto J’ador nel 2020, mentre con Giochi ha vinto nella sezione Italia Corti al Torino Film Festival nel 2021. L’exploit è arrivato con il videoclip dei […]

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L’universalità di ogni relazione e i conseguenti rapporti di potere. Indaga su questo il cinema di Simone Bozzelli, regista under 30 già vincitore della SIC a Venezia con il corto J’ador nel 2020, mentre con Giochi ha vinto nella sezione Italia Corti al Torino Film Festival nel 2021. L’exploit è arrivato con il videoclip dei Måneskin, I wanna be your slave, ma adesso tutti attendono la sua opera prima, Patagonia, che sarà presentata in anteprima assoluta in concorso al Festival di Locarno (2-12 agosto).

Hai lavorato e studiato da regista di cinema. Girando il videoclip dei Måneskin, come hai nuotato in acque così diverse?

Quello che ho cercato di ereditare dal corto è il processo di ricerca del concept. Grandissima ricerca visiva e teorica su determinati temi che spesso vado a toccare nei film. Per il videoclip mi sono lasciato ispirare dalla fotografia di Robert Mapplethorpe, riuscendo a fare tutte quelle cose difficili da realizzare con il cinema. Come grandangoloni spinti, fish-eye, rotazione a 360° della telecamera, l’uso di certe luci rosse.

E adesso con il tuo primo lungometraggio, Patagonia, che cosa ci aspetta?

Innanzitutto parto da una storia estremamente personale. Da luoghi e persone che conosco e ho conosciuto. Patagonia parla di Yuri, un ragazzo molto ingenuo che a una festa di compleanno per bambini incontra un animatore che vive per stare sempre su di giri. Ha fatto delle feste il suo mestiere, è ambiguo, sfuggente, con dei picchi di love bombing che lo fanno oscillare tra calore e freddi improvvisi. I due iniziano a viaggiare su un camper, di festa in festa, instaurando un rapporto di dominio e sottomissione psicologica, per poi spostarsi in un altro tipo di ritrovo: un rave.

Quindi lo vedi più come un coming of age o un dramma sentimentale?

Anch’io all’inizio pensavo fosse un coming of age, ma il mio distributore mi ha stuzzicato: «No, è uno young adult». Al ché mi son detto che un po’ tutti i film sono coming of age perché in ogni storia c’è un racconto di formazione, un percorso dell’eroe che alla fine cambierà inevitabilmente i personaggi. Hai ragione, feste, viaggio e rave ti riportano al coming of age, ma a me interessava seguire il protagonista nella fascinazione per una persona arrivando a far cose che non immaginava possibili. Tutti i miei film rispondono alla domanda: cosa sono disposto a fare per la persona che amo? E qui esploro la possibilità di fare cose non per sé stessi ma per compiacere l’altro. E fin dove si è disposti ad arrivare per questo.

PatagoniaQuindi hai ritagliato la tua storia pensando anche a una certa universalità?

Tutte le relazioni, sentimentali, lavorative, familiari, master & slave, sono potenzialmente universali perché sempre piene di sacrifici, piccole molestie morali e ribaltamenti nei ruoli. È questo corollario di piacere/sofferenza che mi piace raccontare. Ma a livello di commozione e spietatezza la mia reference è stata La strada di Fellini, con l’ingenua Gelsomina portata in viaggio dal violento girovago Zampanò.

E lo hai anche girato in Abruzzo con attori abruzzesi.

Si, per me l’Abruzzo è stato importante come spirito natale: una parte del film è stata girata a Silvi Marina e Montesilvano, dove abbiamo ottenuto un’ottima collaborazione dai comuni per i permessi. Lì abbiamo trovato le location per le feste dei bambini. Invece a Roma, in una cava della Magliana, abbiamo allestito il set per il rave. E sull’Abruzzo, il mio casting director Davide Zurolo mi ha proposto alcuni volti d’attori del territorio che potevano interessarmi. Uno era Andrea Fuorto. Inizialmente mi ero impuntato sul prendere il protagonista dalla strada, ma dopo aver visto Andrea tra self-tape e provino ho detto ok, è lui. Però l’altro protagonista, Augusto Mario Russi, lo abbiamo incontrato a un rave. È il suo esordio.

L’estetica nei tuoi cortometraggi ricorda Xavier Dolan per lo guardo intimo che poni sui tuoi personaggi, con una macchina da presa che sta sempre col fiato sul collo.

Io sono ossessionato dai corpi. Quando vado in giro è sempre il mio oggetto d’interesse. Per il mio corto, Giochi, portavo sempre con me i biglietti da visita e se vedevo, anche in metro, qualcuno con un corpo interessante lo avvicinavo per farmi inviare foto per il mio film. Quanto alla vicinanza della macchina da presa era dovuta, soprattutto nei primi corti, alla mancanza di scenografia per una questione economica. Non mi potevo permettere uno scenografo, ma sul casting mi ritrovavo ampia scelta per capacità ed energia. Penso che i limiti che un regista ha all’inizio, poi diventeranno stile. Sì, i limiti fanno lo stile.

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Le proprietà dei metalli: quando i bambini avevano i superpoteri https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/le-proprieta-dei-metalli-quando-i-bambini-avevano-i-superpoteri/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/le-proprieta-dei-metalli-quando-i-bambini-avevano-i-superpoteri/#respond Tue, 21 Feb 2023 13:32:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18198 Curiosamente i due film che rappresentano l’Italia alla 73a Berlinale hanno al loro centro il sovrannaturale e il mistero, intesi in modo molto personale. Se in Disco Boy di Giacomo Abbruzzese c’è uno scambio fra anime che sovverte le regole del mondo fisico, Le proprietà dei metalli, primo lungometraggio di Antonio Bigini (passato nella sezione […]

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Curiosamente i due film che rappresentano l’Italia alla 73a Berlinale hanno al loro centro il sovrannaturale e il mistero, intesi in modo molto personale. Se in Disco Boy di Giacomo Abbruzzese c’è uno scambio fra anime che sovverte le regole del mondo fisico, Le proprietà dei metalli, primo lungometraggio di Antonio Bigini (passato nella sezione Berlinale GenerationK plus e prodotto da Kiné con Rai Cinema), racconta di un bambino che ha il dono di piegare oggetti di metallo.

Siamo negli anni Settanta: in un paesino montuoso dell’Italia centrale un giorno arriva David, professore universitario di origine americana, per indagare scientificamente le capacità fenomenali del piccolo Pietro che piega, non si sa come, utensili di metallo durissimo. Il bambino, orfano di madre, vive con il padre, un contadino duro e affogato dai debiti, il fratello minore e la nonna. La possibilità di vincere il ricco premio messo in palio “dagli americani” per chi riesce a dimostrare la fondatezza di un fenomeno paranormale innesca in Pietro e nella famiglia una tensione che si risolverà in un non facile ritorno alla vita rurale.

La storia di Le proprietà dei metalli è ispirata ai minigeller, i bambini di cui all’epoca si diceva fossero in grado di piegare i metalli più resistenti, su imitazione del “mago” tedesco Uri Geller e delle sue esibizioni televisive. Alcuni di loro furono in effetti oggetto di studi scientifici da parte di ricercatori, ma alla fine nessuno fu capace di riprodurre il fenomeno in condizioni sperimentali.

Ma tutto questo nel film di Bigini rimane sullo sfondo: non c’è alcun intento di riprodurre un episodio storico dettagliato né di portare sullo schermo degli anni Settanta oleografici. Il cuore del film è tutto nelle parole del professore, che nonostante l’iniziale obiettivo scientifico, riesce a entrare emotivamente in contatto con Pietro, a capire le sue ansie, avvertire la mancanza di affetto di cui soffre da parte dell’unico genitore rimastogli. E se all’inizio sprona il bambino spiegandogli che il dono che possiede è in grado di «cambiare il mondo», facendo capire a tutti che c’è qualcosa oltre le leggi fisiche note, alla fine, disilluso, conclude che quel mondo ignoto, se esiste, vuole restare tale e sottrarsi a qualsiasi verifica.

Il mondo raccontato ne Le proprietà dei metalli è quello remoto di un’Italia contadina, percorso da un “paganesimo rurale”, come lo definisce lo stesso Bigini, in cui l’elemento del mistero e della magia aveva ancora un posto nella vita di uomini abituati a vivere a contatto con la terra e gli animali. Elemento che oggi abbiamo perduto e di cui invece abbiamo un necessità profonda, che il cinema di genere, pare dire il regista, non basta a riempire.

Un mondo povero, fatto di oggetti semplici e di uso quotidiano – Pietro piega chiavi, cucchiai e coltelli – così come essenziale è lo stile del film stesso, per venire incontro, questa la coraggiosa scommessa di Bigini, al bisogno di pulizia e linearità che oggi c’è nel pubblico, saturo di prodotti calligrafici e virtuosistici.

 

 

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