Netflix Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:09:55 +0000 it-IT hourly 1 Supersex: anche il porno è stato bambino https://www.fabriqueducinema.it/serie/supersex-anche-il-porno-e-stato-bambino/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/supersex-anche-il-porno-e-stato-bambino/#respond Thu, 07 Mar 2024 13:20:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18990 Era una delle serie italiane Netflix più attese dell’anno Supersex, disponibile online dal 6 marzo. Sette episodi ispirati alla vita di Rocco Siffredi, icona del porno interpretata da Alessandro Borghi. L’attore romano ne carpisce l’anima rimodulando sul suo volto lo sguardo intenso e la risata larga un po’ obliqua del pornostar, lati noti di Siffredi. […]

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Era una delle serie italiane Netflix più attese dell’anno Supersex, disponibile online dal 6 marzo. Sette episodi ispirati alla vita di Rocco Siffredi, icona del porno interpretata da Alessandro Borghi. L’attore romano ne carpisce l’anima rimodulando sul suo volto lo sguardo intenso e la risata larga un po’ obliqua del pornostar, lati noti di Siffredi. Ma la novità sono le inquietudini e le fragilità di un uomo che è stato prima di tutto bambino e ragazzo, sempre attratto dalle donne fin quasi all’ossessione, ma perseguitato dai suoi demoni del passato.

Si parte da una sua crisi del 2004 per dei flashback che ci mostrano l’infanzia e poi l’adolescenza di un ragazzo abruzzese cresciuto in una casa popolare di Ortona assieme a una famiglia numerosa, ma destinato a diventare un divo. Prima tappa del suo cammino Parigi, ospitato dal fratello maggiore dal volto rude di Adriano Giannini. «L’amore è difficile, Rocco. Tu hai quegli occhi buoni e parli dell’amore, ma manco sai cos’è». Gli dirà la moglie del fratello impersonata da Jasmine Trinca. Con loro si costruisce il principale nucleo di relazioni e contrasti. Il giovanissimo Rocco guarda come esempio il fratellone e custodisce fin da bambino il suo giornalino erotico Supersex come il Don Abbondio di Manzoni teneva al suo breviario. Tutt’intorno si svilupperanno il legame con il cugino manager e lucignolo con il volto di Enrico Borrello, la professionalità del pornoattore con il suo primo mentore, il pornostar francese Gabriel Pontello, con il produttore italiano Riccardo Schicchi e con l’icona nonché amica dispensatrice di piccole saggezze erotiche Moana Pozzi, interpretata con molta verità nel suo fascino un po’ flemmatico da Gaia Messerklinger. La relazione più combattuta e tenera è invece con la madre impersonata da Tania Garribba, mentre una vera sorpresa toccante sarà l’amicizia importante con l’attore Franco Caracciolo, caratterista di tante commedie sexy degli anni ottanta, che ha il volto dell’ottimo Mario Pirrello.

Tra le elucubrazioni di un eroe oscuro, il delirio del sesso attraverso i labirinti del desiderio e gli affetti che hanno circondato il protagonista durante il suo cammino, la sceneggiatura di Francesca Manieri tesse insieme un reticolo complesso di contrasti emotivi, introspezioni, conflitti interni e tra i personaggi che va ben oltre la pornografia. La Manieri ha scritto film, tra gli altri, per Laura Bispuri, Valentina Pedicini ed Emanuele Crialese. Il suo tocco gentile si sente in moltissimi passaggi, assumendosi come lei stessa ha dichiarato «il rischio e il privilegio di raccontare il maschile partendo da un maschio che del maschile occidentale è diventato senza dubbio emblema». Ed è questa forse la vera arma vincente di Supersex. Poi c’è ovviamente l’epopea del porno. Lo chiama potere, superpotere, il Rocco diretto da Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni. «Il cazzo è un pensiero. Non ero pronto per il soft ma non ero nemmeno pronto per l’hard». O anche, all’apice del successo: «Era così forte quello che vendevamo, che la Chiesa, lo Stato, le guardie, erano tutti contro di noi». Dirà la voce off di Rocco/Borghi.

SupersexNon mancano scene forti, ma questa serie rimane ben allineata tra i prodotti Netflix. In Italia è molto difficile parlare di sesso, ma su una piattaforma ramificata in 190 paesi la questione cambia. E Groenlandia espandendosi in varie direzioni dell’audiovisivo ha aggiunto alle sue produzioni un tassello piuttosto sostanzioso. Non propone in realtà molte idee di macchina da presa Supersex, ma compensa con l’ottima direzione e ricerca attoriale. Presenta una patinatura un po’ sognante sull’infanzia e la giovinezza, dove il ruolo di Rocco è coperto da un energico Saul Nanni, mentre la fotografia sul Rocco in crisi degli anni 2000 assume più profondità visiva. Inoltre racconta a modo suo un po’ di Abruzzo attraverso il dialetto tutto sommato ben proposto, pur con il paese natale del protagonista, Ortona, che viene inquadrato soltanto nelle panoramiche aeree, venendo ricostruito sui set del Trullo e di Ostia, quartieri di Roma.

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Pepsy Romanoff. Sopravvissuto al Supervissuto https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/pepsy-romanoff-sopravvissuto-al-supervissuto/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/pepsy-romanoff-sopravvissuto-al-supervissuto/#respond Fri, 27 Oct 2023 12:08:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18778 «Non puoi racchiudere la storia di Vasco in 5 episodi da 50 minuti». A parlare è colui che invece l’ha fatto: Pepsy Romanoff. Lo raggiungiamo dopo i fuochi d’artificio, dopo l’uscita della serie, le recensioni, gli applausi, le critiche. Così ci racconta dei tre anni di lavoro dietro questo progetto, a partire da quando ha […]

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«Non puoi racchiudere la storia di Vasco in 5 episodi da 50 minuti». A parlare è colui che invece l’ha fatto: Pepsy Romanoff. Lo raggiungiamo dopo i fuochi d’artificio, dopo l’uscita della serie, le recensioni, gli applausi, le critiche. Così ci racconta dei tre anni di lavoro dietro questo progetto, a partire da quando ha messo in pausa la sua vita per trasferirsi a Bologna accanto a lui, «perché Vasco è il sole», dice. E il sole è assoluto, «ma è un attimo che ti bruci».

Peppe Romano è tante cose insieme (regista, art director, produttore), ma è soprattutto “il regista di Vasco”: un titolo esclusivo che nessuno, prima di lui, aveva conquistato fino in fondo nell’entourage del rocker. Una storia, la loro, che inizia con i primi videoclip fino ai visual e alla direzione artistica dei suoi live show, compresa la macchina dei record che Modena Park fu nel 2017. Va da sé che a questo punto nessuno avrebbe potuto raccontare Il Supervissuto se non lui. Il risultato è un’opera audiovisiva definitiva su Vasco Rossi, un documentario che è pure un’autobiografia, tra found footage, testimonianze e interviste inedite, e ripercorre le tappe di una vita surreale e chiacchieratissima calandosi nella storia del nostro Paese: le prime radio libere, Sanremo, la Rai, i club, il cantautorato degli anni Settanta-Ottanta e il rock italiano. Senza soddisfare il gossip e risolvere rebus, ma senza voler ignorare ad ogni costo i punti critici. «Alla fine, se ci pensi, io non sono solo un sopravvissuto: io sono un super-vissuto» dice Vasco nei primi minuti della serie. Ma come si sopravvive a un Supervissuto?

Partiamo dalla fine. Critiche, domande scomode, applausi: come è andata?

Pensa che sono arrivati a chiedermi se ho tradito mia moglie con Vasco Rossi [ride]. Ho risposto di sì, perché ho passato tantissimo tempo con lui e ci siamo raccontati davvero il sesso, la droga e il rock’n’roll. Ho letto molte recensioni, alcune sostengono che non abbiamo detto niente di inedito. Secondo me non è vero.

Ecco, secondo te cosa è stato detto di inedito?

Innanzi tutto ci sono tre personaggi inediti alla storia di Vasco Rossi per il pubblico: la moglie Laura Schmidt, il figlio Luca Rossi, e il manager nonché migliore amico storico Floriano Fini. Non avevano mai parlato così apertamente della sua vita, tutti insieme. È ovvio che non abbiamo scoperto l’acqua calda, ma si arriva a Vasco che racconta: «Io a un certo punto avevo venti, trenta grammi di cocaina in casa». Non è la prima cosa che riveli in un’intervista, no?

Vero. Per certi versi, però, anche questa è “la versione di Vasco”.

Questa è una sana verità. Ma quale autobiografia si comporterebbe diversamente? Anche nei testamenti finali, certe cose te le porti dall’altra parte del mondo. Io credo sia giusto che delle cose scottanti se le tenga Vasco, come fa ognuno di noi con i suoi segreti. È ovvio che lui mi ha raccontato delle cose scomode, e molte sono state valutate dai legali e tagliate fuori dalla serie. La verità? Forse sono più contento che qualcosa sia rimasta solo tra me e lui.

 

Sapere più di quanto è stato reso pubblico, decidere cosa tenere e cosa tagliare: tu quale criterio hai seguito?

Io non sono mai partito dal presupposto di fare un documentario d’inchiesta sulla vita di questo artista. Volevo mettere sul tavolo tutte le carte di questo grande puzzle.

E com’è possibile che nessuno avesse già realizzato un progetto del genere sulla più grande rockstar italiana?
Mancava un fattore fondamentale: il punto non era trovare la persona giusta, ma che Vasco arrivasse in un momento e in un tempo preciso della sua vita. Per lui gli anni del Covid sono stati un point break su cui costruire questo racconto, come la ginestra di Leopardi. Piantare un fiore sul Vesuvio.

L’idea di fare una docu-serie è nata in tempo di pandemia. Chi dei due l’ha proposta all’altro?

Né me lo ha chiesto né gliel’ho proposto. Durante la pandemia lui mi fa capire: «Mi sto annoiando, che ci vogliamo inventare?». Così lo raggiungo una settimana a Bologna per buttare giù qualche idea, per intrattenerci non potendo fare i concerti. Poi mi compro una delle tante biografie su di lui, e capisco che alcuni fatti non tornano. Così inizio a chiedergli: «Ma questa cosa come è andata? È vero quello che c’è scritto qua?». Ci siamo appassionati parlandone, abbiamo iniziato a registrare tutto col telefono, senza telecamere.

Sì, ma quand’è che vi siete detti davvero «stiamo realizzando questa cosa»?
Non ce lo siamo detti. Nell’aria c’era l’idea di Guglielmo Ariè [insieme ad Igor Artibani, tra gli autori di Supervissuto] di fare un documentario importante sulla sua vita. Sono passate due settimane, io e Vasco ci vedevamo ogni giorno dalle quattro alle sei per chiacchierare e registrare. Sono ripartito dal suo anno zero: «Come sei cresciuto? Cosa facevi? Che tipo eri?». E poi queste due settimane so’ diventate nove mesi. Ogni giorno mi dava appuntamento al giorno dopo, e alla fine ho telefonato a Milano: «Raga’, qui il fatto sta diventando serio, mi affitto una casa a Bologna». Sono andato lì il 3 novembre e sono tornato a casa il 10 giugno dell’anno dopo. Considerando tutta la gestazione del progetto, tra shooting, scrittura e registrazione, c’ho lavorato tre anni.

Settant’anni di vita e quasi cinquanta di carriera. Come hai fatto a calibrare i vari blocchi e scegliere a cosa dare più rilevanza?
Questa roba qua è stata molto difficile. Inizialmente avevo dato più spazio ai capisaldi che io ritenevo più importanti, con un imprinting più autoriale ed eccentrico. Ma è chiaro che chi paga vuole che racconti una storia anche come piace a loro. Ed è giusto, perché ci hanno lasciato una libertà totale su un progetto economicamente enorme. Solo Netflix poteva salire su questo carro, e te lo dico senza sviolinare. Però non puoi parlare per tre minuti di C’è chi dice no o Gli spari sopra e magari sacrificare di Gli angeli e Sally. Abbiamo dovuto fare un balance continuo per scendere a patti con i tempi dell’intrattenimento, forse mi sarei preso delle licenze registiche più ampie. A volte avrei sgonfiato tutto e tenuto solo un’immagine con una voce, oppure un minuto di visual e nient’altro.

Hai imparato qualcosa in più sul documentario da intrattenimento?

Ho imparato a calibrare la tensione e le aspettative. Questo modo di realizzare documentari è la bibbia di Netflix: lasciare uno spettatore attaccato e poi dargli una risposta più tardi. Ho imparato l’importanza del diritto d’autore – dei video, delle foto, dei bootleg – e come tutelarlo. Il documentario in sé ha un grande lavoro di elaborazione e costruzione editoriale per raggiungere un risultato.

Qual è la licenza registica di cui vai più fiero?
Sicuramente l’intro del primo episodio. Quello è un vocale originale che Vasco mandò a Tania Sachs per rispondere a una lettera che Cesare Cremonini gli dedicò su Vanity Fair, quando diventò direttore per un numero. Quando ascoltai quel vocale pensai che questo artista era stato capace in un tempo musicale, cioè in poco più di tre minuti, di fare il trailer della propria vita.

E poi c’è la sigla, che racchiude proprio l’essenza di Vasco.

Volevo che fosse graficamente un grande collage di una grande vita. A Bologna avevo una parete bianca con una cartina geografica, dei post-it e una linea rossa che mi portava da un luogo di Vasco all’altro, con accanto le date. Mi piaceva fare infografica cercando di far capire agli spettatori dove si trovavano storicamente, rispetto allo spazio-tempo di Vasco [nda: tutte le grafiche sono opera di Chunk Studio].

La sigla si chiude sull’immagine-icona: il palco, il pubblico dei record e il coro storico [olè olè olè Vasco Vasco]. Ovvero il luogo di culto, i fedeli e il rito. Perché hai scelto il punto di vista del palco anziché dei fan?

È un po’ un’autocitazione. Vasco è Vasco anche perché ha pensato – e si è ricordato – per tutta la vita di avere un pubblico davanti a sé: la camera ribaltata aveva più potenza. Quella è un’immagine davvero epica, che ho imparato a notare e costruire a Modena Park, l’evento degli eventi.

Ed è anche un punto di vista privilegiato: il tuo. Sul palco sempre accanto a Vasco, mai davanti.

Sai, alla fine la nostra è stata una grande storia d’amore. Parlo al passato perché è come se la serie rappresentasse il giorno del nostro matrimonio: noi mo’ ci siamo sposati, la festa l’abbiamo fatta, le fedi ce le siamo scambiate? Bene, ci possiamo pure lascia’, però ormai ci siamo sposati. È una cosa che non ci può togliere nessuno, comunque andrà. Lui ha dato a me ciò che io ho provato a restituire a lui. Non è una trovata di comunicazione: il vero regista di questo progetto è Vasco Rossi. Quale regista migliore di uno che è autore della sua vita come lui? Già trovare questo titolo, Il Supervissuto, è opera sua. Ha coniato un nuovo vocabolo.

Che rientra nel suo glossario: è l’ennesimo vocabolo di una “disciplina spericolata”. La sigla della serie è Gli sbagli che fai, scritta per l’occasione. Non avevi pensato di usare un brano cult?

Sì. Per me la sigla doveva essere un’altra: Lo show. Un pezzo magico, un rock cinematico, lo ascolti e vedi un film. Vattela a sentire.

Non dimenticarti con chi stai parlando.

[Ride] Hai ragione, scusa. Sai quando all’inizio dice: “Alzami un po’ la musica, alzami un po’ la mia voce”? Mi fa venire la pelle d’oca. Per me è anche il pezzo con cui dovrebbe aprire i concerti. Io e Vasco non siamo amici, siamo due professionisti che lavorano insieme: questo è sempre un valore aggiunto. Per questo Gli sbagli che fai me l’ha fatta ascoltare alla fine della serie, dopo aver visto tutto il girato. Era convinto che potesse essere la grande colonna sonora, e aveva ragione, perché è il raccontone di una vita all’insegna del casino. Mi commuovo se ci penso.

Possiamo dire che sei sopravvissuto al Supervissuto?

Io per ’sta serie sono andato dall’analista, sono stato male, mi sono allontanato da casa in tutti i sensi. È stato difficile. Aspetta, mi si rompe la voce se continuo a parlare. Dice l’analista che quando mi succede devo pensare a una cosa che mi fa ridere.

Cos’è che ti fa rompere la voce?

Il fatto che è stato difficile. A un certo punto arrivi anche a dirti: «Vaffanculo, non è che per raccontare questa storia devo andare al manicomio». Quando stai in quella bolla, dall’esterno non si può capire. Vasco è il sole: ti puoi scottare in un attimo se non ti proteggi.

Cosa temevi di più?
Di non reggere la pressione a livello lavorativo. I compromessi da fare con un colosso dell’intrattenimento come Netflix. Che il risultato non raggiungesse la qualità che volevo. Avevo paura di scoppiare prima della fine, perché in mezzo c’è stato il film del concerto al Circo Massimo, una tournée dopo il lockdown e l’ultimo tour. E oh, mica so’ io il Supervissuto [ride].

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Questo mondo non mi renderà cattivo. Ma ci regala Zerocalcare https://www.fabriqueducinema.it/serie/questo-mondo-non-mi-rendera-cattivo-ma-ci-regala-zerocalcare/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/questo-mondo-non-mi-rendera-cattivo-ma-ci-regala-zerocalcare/#respond Thu, 08 Jun 2023 14:10:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18500 S’intitola Questo mondo non mi renderà cattivo la nuova serie Netflix creata da Zerocalcare. Perché dovrebbe renderci cattivi questo mondo? Perché le ingiustizie si nascondono dietro ogni vicissitudine del nostro eroe Zero. Lui oramai è uno scrittore affermato anche se non ha mai dimenticato le sue origini, lottando o resistendo ogni giorno per i propri […]

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S’intitola Questo mondo non mi renderà cattivo la nuova serie Netflix creata da Zerocalcare. Perché dovrebbe renderci cattivi questo mondo? Perché le ingiustizie si nascondono dietro ogni vicissitudine del nostro eroe Zero. Lui oramai è uno scrittore affermato anche se non ha mai dimenticato le sue origini, lottando o resistendo ogni giorno per i propri ideali. Ma più che altro cerca di non svenderli asfaltandoli come intorno accade a troppi. L’ultimo lavoro di Michele Rech guarda proprio al modo in cui si è cambiati crescendo, ma stavolta nel quartiere Rebibbia il passato ritorna indossando la tuta e la faccia da schiaffi di un vecchio amico bullo. Tornano anche gli amici di sempre come Sara e l’inossidabile Secco, ma soprattutto l’Armadillo impersonato da Valerio Mastandrea.

Il mondo di Rebibbia rappresenta un microcosmo italiano capace d’incamerare, rappresentandole, tutte le beghe e le pecche del Paese a partire da un’effettiva imparità di genere che aspira sempre alla parità. Questa volta i temi scottano più del solito, c’è la preoccupazione per termini inquietanti come “sostituzione etnica” intorno a un centro d’accoglienza che rischia la chiusura. Si parla in maniera tragicomica di un’Italia che bolle di rabbia, ma senza perdere mai leggerezza, comicità e poesia l’autore ci porta proprio vicino al fuoco scatenante spiegandocene le dinamiche. La periferia di Zerocalcare trascende dall’esistenzialismo metropolitano assurgendo a commedia di vita e raggiungendo sempre catarsi su amare prese di coscienza.

Se Strappare lungo i bordi si poneva come un coming of age, un diario di rivelazione, accettazione di sé stessi e crescita dei vari personaggi, nel 2023 si fanno i conti con le aspettative tradite dal proprio operato e con certe scelte adulte che potrebbero minare quanto messo insieme finora. Cosa si cela dietro lo sconforto per la sconfitta? E perché nella vita si continua a perdere? Viene da chiedersi di fronte ai personaggi vinti. “A me non me se bevono! Io ho fatto ‘na serie co’ Netflix, ormai faccio come cazzo me pare!” Si lascia sfuggire Zero sfogandosi al telefono con la mamma Chioccia. La sua posizione rispetto allo scenario che ha intorno è ultra-pasoliniana. Nel senso che se quest’ultimo raccontò la periferia vivendola in prima persona ma da estraneo che sceglieva di essere lì, Zero è la mosca bianca che gioca in casa e sceglie di restare per vivere e raccontare il suo habitat sociale dall’interno. L’imbarazzo del successo e la lotta per restare coerenti emergono chiaramente da questa nuova serie.

Poi non manca il carrozzone di battute destinate a diventare tormentoni dei millenial e situazioni paradossali di pura comicità keatoniana. Buster Keaton era il comico triste, che non rideva mai. In un certo modo anche il personaggio fumettistico Zero è così, riuscendo a ottenere sempre il sorriso del suo pubblico. La risata qui però non è l’obiettivo, ma il mezzo, uno dei tanti, quello più facilmente intercettabile in superficie per catapultarci in un mare di contraddizioni sociali, mancanze politiche e insoddisfazioni popolari che ritrae a perfezione il sottobosco emotivo dell’Italia di oggi.

Così Mastandrea col suo Armadillo dispensa consigli per laurearsi all’Università della Strada mentre i “falliti rancorosi” vengono contrapposti dall’amara riflessione di Calcare a “quelli magnati dar senso de colpa, gli esecrabili, quelli che hanno svoltato da soli”. Svoltare da soli lasciando indietro gli altri, il gruppo. E tra questi Cesare, l’amico bullo, ritornerà da un inferno ancora fumante. Alla fine sono gli amici quelli che contano nella vita di Zero. E il rispetto degli altri, il vero bug, ostacolo, che questo mondo dimentica cercando di renderci cattivi.

Prodotto di punta per la lungimirante Netflix che si è accaparrata il genio di Rech, debutterà dal 9 giugno con tutte le sue sei puntate da circa mezz’ora l’una. La serie di Rech fa bella mostra di un’animazione già iconica e di una regia sempre sua piena di raffinatezze e rimandi stilistici a tanto cinema cult spaziando da Robocop a Guy Ritchie, non evitando mai frecciatine a prodotti della nostra industria culturale, sonnolenti come i Don Matteo o adrenalinici come Breaking Bad, resi parodia di sé stessi nelle locandine che spesso appaiono sullo sfondo. E forse i più gustosi easter egg di questa serie.

 

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Era ora, “contare fino a dieci” non basta https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/era-ora-contare-fino-a-dieci-non-basta/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/era-ora-contare-fino-a-dieci-non-basta/#respond Thu, 23 Mar 2023 10:05:37 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18307 Capita a tutti almeno una volta di sentire il tempo scivolarci tra le mani, desiderare di averne di più, di proiettarci sempre più avanti nel futuro dimenticando il passato e ignorando il presente. Tempo: questa la parola chiave, ed è tutto intorno al tempo che gira Era ora, il nuovo film di Alessandro Aronadio (sceneggiatore […]

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Capita a tutti almeno una volta di sentire il tempo scivolarci tra le mani, desiderare di averne di più, di proiettarci sempre più avanti nel futuro dimenticando il passato e ignorando il presente. Tempo: questa la parola chiave, ed è tutto intorno al tempo che gira Era ora, il nuovo film di Alessandro Aronadio (sceneggiatore di Gli uomini d’oro di Vincenzo Alfieri) con protagonisti Edoardo Leo e Barbara Ronchi (Settembre, Fai bei sogni) liberamente ispirato a Long story short di Josh Lawson.

Fra i titoli più visti nell’ultima settimana su Netflix e prodotto da BIM, Palomar e Vision, Era ora è la storia di Dante: dedito fin troppo al lavoro, lo vediamo fin dall’inizio sempre in ritardo per qualcosa, correre da una parte all’altra della città riempendosi l’agenda giornaliera con impegni di ogni tipo. Sposato con Alice – pittrice, “mezz’elfa” e inguaribile romantica – la sera del suo quarantesimo compleanno fa tardi alla sua festa e, spegnendo le candeline, esprime uno strano desiderio. La mattina tutto cambia e si risveglia esattamente un anno dopo: la casa sistemata e Alice incinta. Così sarà per ogni suo nuovo risveglio, saltando di volta in volta un anno della sua vita che non ricorda e che non potrà più recuperare. La sua vita, il suo lavoro, la sua famiglia e quotidianità cambieranno senza che lui ne abbia il controllo.

Dante è un personaggio passivo e rappresenta tutti noi: la nostra impotenza davanti agli eventi, la nostra eterna corsa in cerca di tempo che sembra non bastare mai, le nostre paure davanti all’inesorabile scorrere della vita. Allora cosa fare quando tutto è fuori controllo? Era ora è un film che ci invita a rallentare, a “contare fino a dieci”, a godere dell’amore, dell’amicizia, di una giornata di riposo.

Era ora si inserisce bene nel panorama delle commedie romantiche all’italiana pensate per un target familiare molto vasto: ma, come spesso accade, a navigare in acque già ampiamente esplorate si rischia di trovare un mare fin troppo calmo e noioso. Le intenzioni di partenza e le riflessioni che il film si propone di suscitare sono sì ben conosciute, ma non invecchiano mai male; tuttavia una regia dinamica ma spesso invadente, una sceneggiatura che in tutta la parte centrale fatica a delineare una chiara direzione della storia e dei personaggi privi di una vera tridimensionalità non aiutano a dare forza al racconto.

Capita insomma di chiedersi quale sia il vero scopo della storia, perché viene raccontata, dove – dietro ai virtuosi movimenti di macchina un po’ fini a se stessi – si nasconde la voce del regista. Era ora appare quasi una catena di sequenze, immagini, che raccontano una storia a metà,  senza il coraggio di andare fino in fondo, rimanendo sulla superficie degli argomenti trattati.

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Tutto chiede salvezza: sette giorni in istituto psichiatrico e poi rinascere https://www.fabriqueducinema.it/serie/tutto-chiede-salvezza-sette-giorni-in-istituto-psichiatrico-e-poi-rinascere/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/tutto-chiede-salvezza-sette-giorni-in-istituto-psichiatrico-e-poi-rinascere/#respond Fri, 14 Oct 2022 12:09:09 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17812 Con Tutto chiede salvezza Francesco Bruni dirige per il piccolo schermo di Netflix la serie tratta dal romanzo omonimo, vincitore dello Strega Giovani e finalista al premio Strega nel 2020, scritto da Daniele Mencarelli. L’autore figura nella trasposizione – da oggi disponibile sulla piattaforma – anche come sceneggiatore, insieme a Francesco Cenni, Daniela Gambaro e […]

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Con Tutto chiede salvezza Francesco Bruni dirige per il piccolo schermo di Netflix la serie tratta dal romanzo omonimo, vincitore dello Strega Giovani e finalista al premio Strega nel 2020, scritto da Daniele Mencarelli. L’autore figura nella trasposizione – da oggi disponibile sulla piattaforma – anche come sceneggiatore, insieme a Francesco Cenni, Daniela Gambaro e lo stesso Bruni.

Si inizia come in un’allucinazione disorientando il pubblico, agganciato allo sguardo del protagonista Daniele, interpretato da un convincente Federico Cesari, il quale si risveglia una mattina in un ospedale psichiatrico, scoprendo in seguito di essere stato sottoposto al Trattamento sanitario obbligatorio (TSO) per una settimana.

La risposta iniziale di Daniele è un immediato rigetto del luogo in cui si è ritrovato e di chi gli sta intorno; cerca una via d’uscita, si scontra con la situazione, fino a realizzare lentamente il motivo per cui si trova lì e quindi di dover scendere a patti con tutti: dai medici, la dottoressa Cimaroli (Raffaella Lebboroni) e il dottor Mancino (Filippo Nigro), agli infermieri, Pino (Ricky Memphis), Alessia (Flaure B.B. Kabore) e Rossana (Bianca Nappi), fino ai pazienti con cui condivide la camera. Gianluca (Vincenzo Crea), Mario (Andrea Pennacchi), Alessandro (Alessandro Pacioni), ‘Madonnina’ (Vincenzo Nemolato) e Giorgio (Lorenzo Renzi), Daniele condivide con essi il dramma di essere rinchiusi in uno stesso spazio che non lascia, a detta loro, altro che l’immaginazione e la possibilità di stringere amicizia.

Sette giorni per sette episodi, uno dopo l’altro il pubblico è condotto insieme al personaggio principale a scoprire le storie di coloro che abitano quello spazio, ritraendo il muro alzato in una prima fase e mettendosi in ascolto, dando fiato a una sensibilità che aveva bisogno di essere riscoperta. Un viaggio dentro di sé attraverso il confronto con chi, come lui, è stato forzato a una pausa improvvisa dalla propria vita per ricostruirla, con un occhio interessato anche al reparto femminile, dove nel suo stesso giorno arriva una sua vecchia fiamma del liceo, Nina (Fotinì Peluso), accompagnata dalla madre (Carolina Crescentini).

Una storia dura, a tratti opprimente, ma che sa benissimo concedersi dei respiri profondi e lasciar intravedere spiragli di luce, i quali si traducono nei tocchi umoristici che si inseriscono dolcemente nel clima scuro dell’istituto psichiatrico o negli istanti in cui si realizza la felicità di trovarsi o ritrovarsi. Tutto chiede salvezza si muove tra gli anfratti della mente e dell’animo umano per poi rivolgere lo sguardo fuori dalla finestra, dove prende forma la possibilità di resuscitare, metafora resa concreta dall’uccellino sull’albero che solo Mario sembra vedere.

 

 

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Michela Giraud, la verità, lo giuro! Autoironia senza peli sulla lingua https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/michela-giraud-la-verita-lo-giuro-autoironia-senza-peli-sulla-lingua/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/michela-giraud-la-verita-lo-giuro-autoironia-senza-peli-sulla-lingua/#respond Thu, 31 Mar 2022 10:44:13 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16963 Dal 6 aprile su Netflix arriva lo special Michela Giraud, la verità, lo giuro! prodotto da Dazzle e dedicato all’attrice romana, oggi una delle stand-up comedian più popolari in Italia. Un’unica puntata di un’ora dove, dal palco del Vinile di Roma, Michela Giraud si mette a nudo, raccontandosi con autoironia. Dopo Francesco De Carlo, Edoardo […]

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Dal 6 aprile su Netflix arriva lo special Michela Giraud, la verità, lo giuro! prodotto da Dazzle e dedicato all’attrice romana, oggi una delle stand-up comedian più popolari in Italia. Un’unica puntata di un’ora dove, dal palco del Vinile di Roma, Michela Giraud si mette a nudo, raccontandosi con autoironia.

Dopo Francesco De Carlo, Edoardo Ferrario e Saverio Raimondo anche Michela Giraud approda sulla piattaforma streaming più famosa del mondo con uno spettacolo tutto suo. Aneddoti e battute ci trasportano nella quotidianità della trentaquattrenne romana.

Ed è così che riviviamo la sua infanzia nella Roma nord degli anni novanta, tra educazione cattolica e danza classica, ad affrontare pregiudizi e diffidenze, in un mondo che ancora oggi fa fatica ad affrontare la disabilità, o più semplicemente, ciò che è percepito come diverso. Michela affronta anche il suo rapporto con la popolarità, se e come è cambiata la sua vita, e di quanto i social, soprattutto quando si è celebri, possano diventare un campo minato, pieno di contraddizioni e incomprensioni. Uno sguardo femminile, in un ambiente ancora troppo maschile, che porta in scena temi come gli stereotipi di genere e la body positivity in maniera diretta e leggera, senza mai sminuirne l’importanza.

Dagli inizi a Colorado nel 2015, Michela Giraud è riuscita a ritagliarsi uno spazio sempre più grande, dalla TV delle ragazze-Gli Stati Generali alla conduzione di CCN-Comedy Central fino a La fantastica Signora Giraud prodotta da Amazon Prime Video. Famosissima sul web, ha fatto impazzire i social con Educazione cinica, che la vede protagonista insieme a Le Coliche. Ma è il 2021 il suo anno-chiave: nuova conduttrice di Le Iene, parte del cast del film Maschile singolare di Alessandro Guida e Matteo Pilati e concorrente al comedy show di Prime Video LOL: Chi ride è fuori

Michela Giraud sul palco dei Fabrique du Cinéma Awards 2021.

L’irriverenza della stand-up comedy sembra ormai aver conquistato anche l’Italia, e lo special su Netflix è l’ennesimo segnale di quanto questo genere, che ha radici negli Stati Uniti dell’Ottocento, guadagni sempre più spazio. Basta pensare al successo di Comedy Central o al nuovo format di Discovery+ Stand Up! Comici in prova. Lo stand-up comedian, solo, in piedi su un palco, non ha una maschera, rompe la quarta parete: si espone coraggiosamente, toccando temi sociali e politici il più delle volte scomodi, e turbando il “buon gusto” o le sensibilità di molti.

E così, senza peli sulla lingua, Michela Giraud ci trascina nella sua quotidianità, in cui, a tratti, ognuno di noi si rivede. Ironizzando sul presente e sulle ferite del suo passato, ci racconta se stessa, protagonista indiscussa della sua comicità.

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Fedeltà: la crisi coniugale secondo Netflix https://www.fabriqueducinema.it/serie/fedelta-la-crisi-coniugale-secondo-netflix/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/fedelta-la-crisi-coniugale-secondo-netflix/#respond Fri, 11 Feb 2022 13:58:54 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16773 A una domanda sembra voler dare risposta Fedeltà, nuovo dramma originale Netflix prodotto da BiBi Film: un semplice dubbio, un piccolo malinteso, può distruggere una relazione? Lo scrittore Carlo (Michele Riondino) e l’agente immobiliare Margherita (Lucrezia Guidone) sembrano avere una vita e una relazione perfetta, nonostante gli alti e bassi del lavoro e della famiglia. […]

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A una domanda sembra voler dare risposta Fedeltà, nuovo dramma originale Netflix prodotto da BiBi Film: un semplice dubbio, un piccolo malinteso, può distruggere una relazione?

Lo scrittore Carlo (Michele Riondino) e l’agente immobiliare Margherita (Lucrezia Guidone) sembrano avere una vita e una relazione perfetta, nonostante gli alti e bassi del lavoro e della famiglia. L’equilibrio tra i due tuttavia vacilla quando lui è accusato di atteggiamenti inappropriati con una studentessa, Sofia (Carolina Sala). Malgrado sia prontamente negata qualsiasi complicità da entrambe le parti, il dubbio silenzioso e latente si insinua sempre più, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, nella mente di Margherita, dando inizio ad un gioco di gelosie e vendette che potrebbe portare a irrimediabili conseguenze.

Come già intuibile, Fedeltà propone una storia all’apparenza semplice, che riprende il topos del triangolo amoroso e lo declina a proprio modo. Se fin da subito la narrazione vera e propria non appare particolarmente innovativa, la serie tenta però di scavare sotto la superficie, mettendo in scena non solo una crisi coniugale, ma dipingendo anche uno spaccato delle relazioni odierne, una tranche de vie in cui chiunque può rivedersi. Per farlo, si parte non a caso da un romanzo introspettivo, giocato sui detti e i non detti, come quello di Marco Missiroli, scrittore riminese insignito proprio grazie a Fedeltà del Premio Strega.

Fedeltà

E proprio questa introspezione, questo voler andare oltre il mero racconto dei fatti, è il vero punto di forza della serie. In appena sei puntate, più che sufficienti per il tipo di progetto qui proposto, la storia di Missiroli, riportata sullo schermo dalla penna di Alessandro Fabbri, Elisa Amoruso e Laura Colella, conduce lo spettatore in un pas de deux di due (ma forse più) umanità che si scontrano: tra certezze che vacillano ed errori a cui forse non si può più rimediare, prendono vita personaggi – interpretati più che degnamente da Riondino e Guidone – tanto conflittuali, quanto reali, con cui è impossibile non rivedersi, almeno una volta.

La regia, guidata dalla mano esperta di Andrea Molaioli (l’eccellente La ragazza del lago, ma anche il più pop Slam – Tutto per una ragazza) e dal più giovane Stefano Cipani (Mio fratello è figlio unico), sembra quindi seguire i suoi protagonisti, attraverso dei lunghi momenti musicali e l’impeccabile fotografia di Gogò Bianchi (Anna), che incornicia una Milano dai mille volti. Nonostante a volte il passaggio dalla carta allo schermo non sfrutti appieno le proprie potenzialità, Fedeltà riesce però a fare ciò che si prefigge: raccontare, con una buona eleganza e una certa profondità, la crisi di un amore, ma ancor prima la storia di due persone qualunque.

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Strappare lungo i bordi, parla il produttore: “All’estero non ci credevano capaci di fare una serie così” https://www.fabriqueducinema.it/serie/strappare-lungo-i-bordi-parla-il-produttore-allestero-non-ci-credevano-capaci-di-fare-una-serie-cosi/ Thu, 25 Nov 2021 09:50:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16435 Da quando il 17 novembre è approdata su Netflix, Strappare lungo i bordi, la serie d’animazione scritta da Zerocalcare, continua la scalata verso il successo. Un punto di svolta per il noto fumettista che, ritrovandosi tra nel catalogo della piattaforma di streaming più famosa al mondo, ha avuto l’occasione di allargare ulteriormente il proprio pubblico. […]

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Da quando il 17 novembre è approdata su Netflix, Strappare lungo i bordi, la serie d’animazione scritta da Zerocalcare, continua la scalata verso il successo. Un punto di svolta per il noto fumettista che, ritrovandosi tra nel catalogo della piattaforma di streaming più famosa al mondo, ha avuto l’occasione di allargare ulteriormente il proprio pubblico. Ma si tratta di una tappa importante anche per l’animazione italiana tutta. Dietro alla serie c’è Movimenti Production, una realtà indipendente e lungimirante che ha saputo puntare sul prodotto giusto al momento giusto, quello che potrebbe cambiare le carte in tavola per l’intero settore. In attesa di vedere se ciò accadrà davvero, abbiamo parlato con Giorgio Scorza, che della serie originale Netflix più di tendenza del momento è il produttore.

Quando e perché nasce Movimenti Production?

Nasce nel 2004 da me e Davide Rosio. Ci siamo conosciuti che ero ancora uno studente, abbiamo iniziato a fare dei corti insieme, ma dopo un paio di videoclip ci siamo resi conto che con la partita iva non andavamo da nessuna parte e abbiamo quindi deciso di aprire una società. La nostra idea era quella di fare il più possibile cose firmate da noi, anche se sono stati fondamentali all’inizio i lavori di advertising per altre agenzie. Ma Movimenti Production è nata perché volevamo fare il nostro lavoro senza essere ridotti alle offerte che ci arrivavano dagli altri.

Cosa significa occuparsi di animazione in Italia?

Significa sicuramente avere tanta buona volontà. Il nostro paese adesso è molto più alfabetizzato al linguaggio dell’animazione, grazie a internet e alle piattaforme, ma fino a qualche anno fa non era così. Fare animazione significa quindi formare da zero diverse figure, andare a studiare anche all’estero senza però tradire l’unicità italiana. Di certo non è facile. Negli ultimi anni però sono stati inseriti il tax credit e altri supporti, fondamentali per recuperare terreno ad esempio rispetto al cinema, che riceveva invece sovvenzioni statali a noi negate. Quindi è complicato fare animazione in Italia, ma fortunatamente lo è sempre meno.

strappare lungo i bordi

Parlando invece di Strappare lungo i bordi, da dove deriva l’idea di produrre una serie di Zerocalcare?

Noi da sempre abbiamo cercato di spingere sull’animazione adult animation e non per bambini. L’abbiamo fatto con i videoclip e con delle serie da noi scritte. Senza Zerocalcare però fare un prodotto d’animazione adult in Italia e in così poco tempo non sarebbe stato possibile, perché c’era bisogno della garanzia di un nome forte. Quando Michele [Michele Rech, il vero nome di Zerocalcare], dopo l’esperienza di Rebibbia Quarantine, voleva imparare ad animare meglio e con un software più evoluto, si è appoggiato al nostro studio grazie al consiglio di un amico. Il suo intento iniziale era quindi quello di imparare. Noi non abbiamo mai forzato la mano per fare qualcosa insieme. Quando ha avuto l’idea giusta, passando per altre cose che non lo convincevano, collaborare è stato scontato.

A livello pratico quale è stato il processo di lavorazione di Strappare lungo i bordi e quanto è durato?

Il processo in totale è durato circa nove mesi parlando di produzione stretta, undici se si considerano tutti i passaggi, dallo script alla consegna del master: sono tempi follemente brevi per l’animazione, anche se non tutti lo sanno. Michele ha scritto le sceneggiature, ce le ha passate e a quel punto abbiamo cominciato a prendere le prime decisioni registiche, scegliendo il ritmo sostenuto che caratterizza la serie. Tant’è vero che le sceneggiature erano di trenta pagine, ma noi promettevamo a Netflix di ricavarne puntate di diciotto minuti. Michele ha poi cominciato a registrare i dialoghi su degli sketch che montava e ci mandava per dirci come si era immaginato le varie scene. Noi quindi facevamo lo storyboard, lavorando sulle inquadrature, sulla messinscena e sul respiro del racconto. Parallelamente sviluppavamo i personaggi, cercando di ricreare l’universo di Zerocalcare in una versione che fosse animabile, che avesse continuità con il suo lavoro ma al tempo stesso qualcosa di diverso. La sfida è stata mantenere la sua unicità, ma inserire delle differenze che lo rendessero un prodotto vivo e non semplicemente “un fumetto in movimento”. Abbiamo poi registrato le voci definitive di Michele e Valerio Mastandrea e sulle voci montato i primi effetti sonori per dare atmosfera, per poi mandare tutto in animazione. Quando ci arrivavano le scene facevamo dei test di compositing, per capire come tenere insieme i vari momenti delle puntate, che sono tanti e diversi tra loro. Bisognava trovare un modo per incastrate tutto quanto perfettamente. Michele in tutto ciò è stato davvero un professionista perché ci ha permesso di fare tranquillamente ciò che serviva per far funzionare la serie.

Come è stato quindi lavorare con un autore il cui tratto e la cui identità sono così riconoscibili?

Chi fa animazione è davvero un artigiano certosino e Michele anche, quindi ci siamo trovati subito. C’era una precisione maniacale che portava tutti a non essere soddisfatti finché non si raggiungeva il risultato desiderato. Michele poi è una persona molto collaborativa, nonostante abbia sempre lavorato da solo. All’inizio infatti era terrorizzato, ma una volta ricevute le prime tavole quella paura si è dissolta e ha lasciato spazio all’eccitazione. Certo, c’è stato chi ha dovuto studiarsi il suo stile grafico nel dettaglio, ma come sottolineavo prima, in parte lo abbiamo variato. Il contributo di Michele è stato ovviamente necessario, ad esempio molte scene sono ambientate in casa sua e lui ci ha mandato foto e piantine, ma poi ci ha lasciato espandere il suo universo. Siamo stati meticolosi e filologici, ma anche propositivi. Sembra banale, ma dal momento che i suoi fumetti sono in bianco e nero per lui un grande cambiamento è stato l’inserimento del colore. Abbiamo ragionato tanto su che colori usare e su come usarli, ci siamo inventati ad esempio delle campiture a pennellate secche che dessero profondità e unicità stilistica alla serie, cercando anche di restituire l’effetto analogico della carta.

Strappare lungo i bordi

E invece doversi confrontare con un colosso dello streaming come Netflix ha cambiato qualcosa del vostro normale processo di lavorazione?

Sicuramente Netflix è una major internazionale, ma per noi non era un’esperienza del tutto nuova avendo lavorato con Disney. Eravamo quindi a conoscenza dei meccanismi, della regolamentazione e della gerarchizzazione che vige in ambienti simili. L’approccio è sicuramente molto americano, ma dato che noi siamo particolarmente meticolosi quel tipo di controllo non è stato un ostacolo. Non c’è stato neanche alcun problema editoriale, grazie allo scudo protettivo che rappresenta in Italia il nome di Zerocalcare. Devo dire che siamo stati sempre rispettati in quanto professionisti e artisti, persino il dipartimento adult animation londinese è rimasto stupito da quanto stava succedendo in quello che secondo loro era un paese senza una tradizione forte di animazione alle spalle.

Avete altri progetti in cantiere e pensi cambierà qualcosa per Movimenti Production dopo Strappare lungo i bordi?

Sì, abbiamo altri progetti che erano pronti prima della collaborazione con Michele, ma che sicuramente ne gioveranno soprattutto per quanto riguarda il rapporto con gli editori: se prima potevano essere titubanti sul fatto che stessimo in Italia e che determinate cose potessero non funzionare ora non c’è più questa preoccupazione. Quindi sì, stiamo andando avanti e stiamo lavorando molto con Stati Uniti e Inghilterra, cosa che per il nostro settore è davvero importante. Poi c’è anche tutta la parte dedicata ai bambini la quale a sua volta sta procedendo spedita, sia con delle serie che con un lungometraggio. Siamo molto carichi insomma, perché se prima qualcuno non sapeva che fossimo sulla mappa adesso non può fare a meno di saperlo.

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Strappare lungo i bordi: Zerocalcare alle prese con il senso (ironico) della vita https://www.fabriqueducinema.it/serie/strappare-lungo-i-bordi-zerocalcare-alle-prese-con-il-senso-ironico-della-vita/ Mon, 15 Nov 2021 08:32:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16383 E se le persone fossero costituite da un insieme di fogli impilati, di quei fogli di quando si stava alle elementari e si doveva ritagliare seguendo lungo la linea, lungo i bordi, senza sbagliare, perché poi non si poteva rimediare allo strappo? Se tutti gli altri riuscissero a seguire bene quelle istruzioni, mentre noi invece […]

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E se le persone fossero costituite da un insieme di fogli impilati, di quei fogli di quando si stava alle elementari e si doveva ritagliare seguendo lungo la linea, lungo i bordi, senza sbagliare, perché poi non si poteva rimediare allo strappo? Se tutti gli altri riuscissero a seguire bene quelle istruzioni, mentre noi invece vagassimo senza sapere cosa vogliamo nella vita? Ragionandoci, ci rendiamo conto che alla fine «è dal tempo degli antichi Greci che l’uomo se domanda se è meglio conoscere l’ignoto col rischio che sia un accollo o rimane’ nell’ignoranza, dove però nessuno te caga il cazzo».

Questa è la premessa della nuova miniserie disponibile dal 17 novembre su Netflix: Strappare lungo i bordi, ideata da Michele Rech, alias Zerocalcare (qui, a pag 10, una nostra intervista agli esordi). Prodotta da Movimenti Production in collaborazione con BAO Publishing, questa miniserie italiana (dalla forte risonanza internazionale) nasce dopo il successo raggiunto dall’artista romano durante i lockdown con i suoi corti trasmessi a Propaganda Live Rebibbia Quarantine. Così, collaborando nuovamente con Valerio Mastandrea (come in La profezia dell’armadillo, presentato nella sezione Orizzonti alla 75esima Mostra internazionale d’arte cinematografica del cinema di Venezia), Zerocalcare ha incorporato lo stile delle pillole (ogni puntata dura tra i 15 e i 20 minuti) in una struttura più compatta, costruendo un mosaico ricco e complesso al di fuori delle Mura romane.

Se infatti le opere di Michele Rech hanno da sempre avuto come sfondo la cultura capitolina (basti anche pensare al suo minicorto su Instagram, sul perché il carciofo fosse il male, o al suo accento che non nasconde le flessioni del romanaccio), i temi che decide di trattare e il modo in cui lo fa non possono non ritrovare un riscontro emotivo su un pubblico molto più ampio, com’è ancora più evidente nella miniserie.

Strappare lungo i bordi
Un’immagine da “Strappare lungo i bordi”.

In un racconto costellato di flashback e aneddoti che spaziano dalla sua infanzia, a lezioni di storia e filosofia, fino ai problemi di tutti i giorni, Zerocalcare tratteggia un percorso fatto di pochissime certezze, ma che proprio grazie a questo lascia un forte impatto nello spettatore. Lo stile è sempre quello, il suo marchio di fabbrica, la sua capacità di costruire un pensiero acuto e profondo, per poi catarticamente ironizzare su ciò che ha appena detto, decostruendolo con citazioni di ogni tipo.

Seguendo la caratteristica voce a macchinetta del fumettista, in ogni puntata lo spettatore viene catapultato in un pastiche di eventi, ricordi e considerazioni, che, oltre a non marcare nettamente la distinzione tra personale e universale (come lo spezzone sulla spinosa questione del “visualizzato” o dell’”online” su Whatsapp), si incastrano, come dei tasselli, con elementi della cultura mondiale.

Si parte da citazioni più implicite, come le strade di Roma di notte che ricordano La notte stellata di Van Gogh (non a caso la scena successiva, ambientata in un museo con L’urlo di Munch, illustra in décadrage proprio il dipinto del pittore olandese), o Le follie dell’Imperatore, quando Zerocalcare manda avanti e indietro l’episodio, per spiegare le parole del suo amico Secco al pubblico, o Tim Burton, di cui riprende lo stile anche visivo nell’illustrare il suo primo fumetto; per arrivare a quelle più esplicite, dalla Seconda Guerra Mondiale, all’abisso di Nietzsche (citazione mainstream sui social), ad Achille e la tartaruga che, tra black humor e dura consapevolezza, servono ad abbozzare il discorso della linea tratteggiata che dà nome e sostanza all’intera miniserie.

Strappare lungo i bordi è questo che dona: tantissimi momenti di distrazione e battute (come la legge del maschio contemporaneo, che con il femminismo non può più neanche lamentarsi del Vietnam a cui è costretto quando deve andare in un bagno pubblico), a cui seguono repentine strette al cuore. E tu, spettatore, vieni immerso in una tempesta, in un turbinio di ironia e consapevolezza in cui sembra che il fumettista romano stia parlando proprio di te e inizi a osservare meglio quel foglio strappato male, cadendo nel nero.

Numerosi sono i “neri” presenti nelle pillole di questa miniserie. Neri metaforici e neri visivi. In uno di questi ultimi echeggiano le parole della canzone Non abbiam bisogno di parole di Ron: «Non abbiam bisogno di parole per spiegare quello che è nascosto in fondo al nostro cuore». E insomma, alla fine, se bisogna descrivere l’esperienza (perché parlare di visione è troppo limitato per un prodotto del genere) di Strappare lungo i bordi basterebbe ciò, basterebbe sapere che è quel qualcosa che ci permette di spiegare quell’area buia dentro di noi. La miniserie di Zerocalcare è sicuramente qualcosa da non perdere, capace di farti ridere, riflettere e, infine, farti sentire meno solo e incasinato, dandoti risposte senza accennarne nemmeno una.

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Vendetta: guerra nell’antimafia, i produttori Ruggero Di Maggio e Davide Gambino raccontano la nuova docuserie Netflix https://www.fabriqueducinema.it/serie/interviste-tv-serie-tv/vendetta-guerra-nellantimafia-i-produttori-ruggero-di-maggio-e-davide-gambino-raccontano-la-nuova-docuserie-netflix/ Sat, 02 Oct 2021 07:54:22 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16175 Ruggero Di Maggio e Davide Gambino sono gli autori e produttori di Vendetta: guerra nell’antimafia, la nuova docuserie originale italiana di Netflix che ha debuttato in piattaforma il 24 settembre. Oltre che da Mon Amour Films (fondata da Di Maggio e Gambino) la serie è stata prodotta dalla pluripremiata Nutopia e dalla stessa Netflix: il […]

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Ruggero Di Maggio e Davide Gambino sono gli autori e produttori di Vendetta: guerra nell’antimafia, la nuova docuserie originale italiana di Netflix che ha debuttato in piattaforma il 24 settembre. Oltre che da Mon Amour Films (fondata da Di Maggio e Gambino) la serie è stata prodotta dalla pluripremiata Nutopia e dalla stessa Netflix: il gigante dello streaming sta sempre più puntando sull’Italia per raccontare al pubblico internazionale storie vere basate su argomenti controversi.

Nei sei episodi che compongono Vendetta gli antagonisti sono Pino Maniaci, giornalista e conduttore che da oltre 20 anni con la sua emittente TV siciliana TeleJato dà spazio alla lotta alla criminalità organizzata, e Silvana Saguto, oggi ex magistrato del Tribunale di Palermo che, da Presidente della sezione Misure di Prevenzione, è stata per anni uno dei giudici più importanti nella lotta alla mafia in Sicilia.

Com’è nata l’idea di parlare di Pino Maniaci e Silvana Saguto?

Ruggero: L’idea nasce tanto tempo fa, esattamente alla fine del 2005. All’epoca io ero un giovane filmmaker alla ricerca di storie inedite e trovai nella vicenda di Maniaci e TeleJato elementi stimolanti, perché Maniaci declinava il tema della lotta alla mafia in una maniera molto originale, usando un linguaggio scurrile, fuori dalle righe. Inoltre il territorio in cui TeleJato agisce è un territorio ad altissima densità mafiosa, il cosiddetto triangolo della mafia nella provincia tra Trapani e Palermo ed era significativo raccontare questo gesto di ribellione in quel territorio. In più, a pochi chilometri da Partinico, c’era stata l’esperienza della radio di Peppino Impastato, fondamentale per i siciliani. Anche se non c’è nessun parallelismo tra queste due storie, esiste un punto di contatto forse non casuale rappresentato da una persona: Salvo Vitale. Vitale lavorava con Peppino Impastato a Radio Aut e lavora con Pino Maniaci a TeleJato. Abbiamo seguito per tre anni Maniaci e la sua famiglia nelle sue battaglie, ma ne usciva un personaggio troppo bidimensionale, una sorta di icona, volevamo invece una complessità maggiore. Per questo motivo ci siamo fermati e abbiamo ripreso intorno al 2015, poco prima che Maniaci fosse accusato di estorsione e processato: è stato un twist fondamentale, dopo di che anche Davide è entrato a far parte della produzione.

Davide: In quel momento con Ruggero abbiamo avuto l’impressione che la realtà si stesse quasi “aggiustando” da sola per dar modo di raccontare un personaggio come Maniaci e accendere una luce sul fenomeno della lotta alla mafia in Sicilia, che ci ha nutrito come cittadini e come autori. Siamo cresciuti entrambi nella Palermo post ’92 e il movimento antimafia ha rivestito davvero una notevole importanza. L’obiettivo era raccontare la storia da un punto di vista più laico possibile, oggettivo: quando Maniaci nel 2016 è stato accusato ed è stata messa in dubbio la sua reputazione di eroe abbiamo capito che era una storia locale ma allo stesso tempo interessantissima per una audience globale. Abbiamo cominciato a presentare il progetto in vari mercati di produzione e festival e infine è arrivata la possibilità di co-produrre con la major Nutopia e Netflix.

Il vostro documentario ha fatto il giro del mondo: il Guardian intitola un articolo “Vendetta, lo show sulla mafia di Netflix è I Soprano che incontra Tiger King”. Vi aspettavate un riscontro del genere quando avete iniziato la prima stesura del documentario?

Ruggero: Mi fa molto piacere questa domanda perché la risposta è sì, ci aspettavamo e volevamo un grosso impatto sul pubblico, ci abbiamo lavorato a lungo. Quando nel 2006 facevamo i primi pitch il mercato dell’audiovisivo non era ancora maturo per questo tipo di storie “non univoche”. Era come se il documentario risentisse ancora dell’idea che bisogna scegliere un punto di vista definito e indirizzare la storia verso una direzione precisa: invece per noi è essenziale essere osservatori neutri, non perché ci manchi un punto di vista, ma perché il punto di vista è proprio quello di far parlare la realtà. Ma così come la vicenda è maturata nel tempo è maturato anche il mercato, e finalmente quando le serie documentarie sono diventate un prodotto accessibile e ricercato dal grande pubblico, noi avevamo quel tipo di prodotto.

Vendetta: guerra nell'antimafia
Silvana Saguto.

Quella che viene narrata è sicuramente una vicenda controversa, e alla fine degli episodi il risultato è un prodotto che non vuole essere di parte, non propende per nessuna fazione. Quanto è stato difficile cercare di dare allo spettatore un punto di vista neutro?

Davide: Come diceva prima Ruggero, il nostro intento in quanto documentaristi e registi è quello di non fabbricare tesi, cioè di non assolvere né condannare nessuno ma di metterci in ascolto dei protagonisti, con l’approccio più umano possibile. In primo luogo è necessaria dunque una sorta di dimensione orale: occorre dare modo ai personaggi, soprattutto se controversi, di raccontarsi e raccontare il proprio punto di vista che in questo caso è l’uno l’esatto opposto dell’altro.  Viene poi anche lo studio attento delle fonti giudiziarie e dei processi, per raccontare la macchina della giustizia nel suo svolgersi e il ruolo dei media, che è un po’ una storia nella storia. Infine occorre instaurare una profonda relazione con i personaggi e attendere il tempo necessario per lasciare che la vicenda si dipani e darci la possibilità di porci come primi spettatori i dubbi che la vicenda presenta.

Per questo documentario a chi o cosa vi siete ispirati? C’è stata una serie o un film che vi hanno fatto pensare “okay vogliamo farlo in questo modo”?

Ruggero: In realtà non ci sono dei riferimenti precisi, forse la docuserie The Staircase, su un caso giudiziario seguito nel corso di molti anni, anche con diversi formati di ripresa. Ammiriamo poi l’approccio alle interviste di Wild Wild Country e Tiger King per il lavoro di archivio. Ma in Vendetta ci sono tanti riferimenti che è difficile sceglierne uno, come dicevo non c’è una reference unica.

Un’ultima domanda: avendo seguito la storia di Pino Maniaci da vicino quale giudizio vi siete fatti?

Davide: È un personaggio talmente multi-sfaccettato che è difficile poter dare un giudizio. È chiaro che noi abbiamo le nostre idee da un punto di vista giudiziario e morale, ma ogni spettatore deve avere la sua. Posso dire che è un personaggio che fa riflettere non solo sulla sua vicenda personale ma anche su grandi temi, come il confine tra verità e bugia, impegno e disimpegno e la frammentazione del mondo antimafia oggi.

Ruggero: Per me, che lo conosco da 15 anni, Pino Maniaci è un performer. La sua ambizione, come dice la sorella, era diventare famoso ed essere ascoltato, fin da quando suonava la tastiera in un gruppo progressive. TeleJato in questo senso è stato il suo palcoscenico, come ammette anche lui stesso. Per molti anni ha anche lavorato senza tesserino da giornalista e lo rifiutava. È sempre stato un outsider, uno controcorrente che tende a contraddire tutto quello che gli si dice (anche se va a suo favore). Vive di istinti e delle sensazioni che prova durante la giornata. Incarna un tipo di ideale di persona con pochi filtri che riesce a vivere in un rapporto diretto uno a uno con la realtà.

 

 

 

 

 

 

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