MIRIAM DALMAZIO Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Sat, 29 May 2021 14:05:59 +0000 it-IT hourly 1 Il mio corpo vi seppellirà: un western che soffre d’ansia da prestazione https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/il-mio-corpo-vi-seppellira-un-western-che-soffre-dansia-da-prestazione/ Fri, 07 May 2021 07:35:17 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15534 Si possono dire tante cose sul cinema italiano, ma non che non stia cercando di darsi da fare. Sembra quasi obsoleto parlare ormai di costruzione o ricostruzione, nascita o rinascita. Come tutto ciò che riguarda l’arte, in particolare quella cinematografica, la morte è sempre vicina e un nuovo Messia si scorge all’orizzonte. È stato il […]

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Si possono dire tante cose sul cinema italiano, ma non che non stia cercando di darsi da fare. Sembra quasi obsoleto parlare ormai di costruzione o ricostruzione, nascita o rinascita. Come tutto ciò che riguarda l’arte, in particolare quella cinematografica, la morte è sempre vicina e un nuovo Messia si scorge all’orizzonte. È stato il caso di Lo chiamavano Jeeg Robot per il fantasy, genere poco esplorato in Italia, di Ammore e Malavita per il musical, de Il primo re per la ricostruzione (semi) storica della fondazione di Roma. L’impegno è tanto e i risultati fruttuosi, da maestranze che ricevono candidature agli Oscar come il Pinocchio di Garrone a narrazioni più classiche che risuonano all’interno di festival internazionali come per Marco Bellocchio e Alice Rohrwacher, fino all’esplorazione di generi teen e horror in stile Sulla stessa onda su Netflix e Non mi uccidere di Andrea De Sica (che, in questo caso, racchiude entrambi i filoni).

Ad aggiungersi a questa schiera di operazioni ammirevoli, di minore impatto forse perché succube di un periodo di ristrettezze distributive e probabilmente meno coinvolgente a causa di una fattura notevole ma una narrazione ingombrante, è Il mio corpo vi seppellirà di Giovanni La Parola (con Miriam Dalmazio, Antonia Truppo, Margareth Madè, Rita Abela). Produzione da applausi quella che ha visto collaborare Cinemaundici, Ascent Film, Apulia Film Commission assieme a Rai Cinema. Ragguardevole per messinscena e tendenza alla veridicità dei più efferati crimini, dove anche una testa che rotola ai piedi di un uomo o un cuore strappato direttamente dal petto non lasciano mai la sensazione di riproduzione posticcia, bensì di impressionante effetto.

È esattamente su questa aria da avida e opportunistica crudeltà che il film sceneggiato da Alessia Lepore assieme a La Parola avanza, avvolgendo indietro il nastro del tempo fino a condurre lo spettatore nella Penisola di un Vittorio Emanuele appena diventato re dell’intera Italia. Brigantaggio e sopravvivenza finiscono per coincidere in una Sicilia rurale e contadina, punteggiata dalle divise di uomini di (non) onore e donne che hanno scelto la libertà piuttosto che i soprusi, le ristrettezze, l’ingordigia e le prevaricazioni di uomini tronfi e sessualmente selvaggi. Un’unione che non necessariamente fa la forza per le protagoniste di una storia che non risparmia la propria dose di pallottole e squartamenti, rimanendo prigioniera di quella stessa intrepida voglia di osare, osare e ancora osare, che costringe l’opera a dover fare i conti proprio con se stessa.

il mio corpo vi seppelliràL’ambizione de Il mio corpo vi seppellirà è tale da trasparire a ogni inquadratura, a ogni battuta degli interpreti, a ogni pistolettata o combattimento corpo a corpo che i personaggi si trovano a dover affrontare. Ma questa medesima, intrepida smania finisce per sovrastare qualsiasi altra componente del racconto in costume, che sembra voler più imitare con attenzione il western invece che incorporarlo e riproporlo realmente. I personaggi sono quindi sporchi, anche troppo accuratamente; i protagonisti sono costruiti su certe personalità del genere eppure troppo stilizzati da assomigliare a quelli visti in tante opere simili. Anche l’eccesso di sangue è troppo solerte, zelante, spinto alla spettacolarizzazione. Uno stile, quello che Giovanni La Parola vuole ricercare, quasi accademico e dunque semplicemente manieristico. Di cuore perché assistito in qualsiasi sua singola parte o risvolto e, anche solamente per questa ragione, lodevole per l’apporto produttivo investito e tramutato poi in film.

Il bisogno spasmodico di compiacere un cinema italiano privo al momento di un immaginario western contemporaneo si percepisce all’interno di una narrazione che cerca insieme di colpire attraverso un prototipo da cinema classico riscrivendolo però secondo i dettami della modernità. Desiderio predominante nei caratteri delle donne protagoniste, nel modo in cui l’opera le fa interagire tra loro e col mondo esterno, ma anche nell’assetto generale del racconto, dove una fluidità e una scrittura più trascinante anziché così analitica avrebbe trasmesso maggiore calore alla pellicola e, di conseguenza, allo spettatore.

Il mio corpo vi seppellirà soffre d’ansia da prestazione, ma supera la prova con un ottimo risultato. Ci mette tutta la fermezza essenziale, ma è lo slancio quello che manca. Un film da premiare anche e soprattutto donandogli una visione, il cui interesse rimane comunque circoscritto e limitato a quelle sue quasi due ore di esistenza.

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Miriam Dalmazio, fascino agrodolce https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/miriam-dalmazio-fascino-agrodolce/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/miriam-dalmazio-fascino-agrodolce/#respond Mon, 16 Mar 2015 17:04:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=1110 A guardarle oggi, le rovine degli studios di Termini Imerese, è difficile immaginare quel che sembravano solo qualche anno fa. Quando cioè la soap opera Agrodolce, nata per lanciare la sicilianità nel mondo, conquistava il piccolo schermo con la sua folta legione di talenti local alla ricerca di “un posto al sole” sul mercato nazionale […]

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A guardarle oggi, le rovine degli studios di Termini Imerese, è difficile immaginare quel che sembravano solo qualche anno fa. Quando cioè la soap opera Agrodolce, nata per lanciare la sicilianità nel mondo, conquistava il piccolo schermo con la sua folta legione di talenti local alla ricerca di “un posto al sole” sul mercato nazionale della fiction. Tramontato il sogno, con la fine della soap e una tormentata vicenda legale ancora in atto, pochi di quei talenti hanno superato l’amarezza per l’opportunità sprecata. Pochi hanno continuato. Pochissimi ce l’hanno fatta. E tra loro c’è Miriam Dalmazio.

Palermitana amata tanto dagli autori (Taviani e Scola) quanto dalla commedia (Checco Zalone), Miriam è oggi è in cerca del ruolo che la faccia sfondare. Magari lontano dalla sua terra, che ha battezzato la sua carriera. Il tradimento è difficile da perdonare, specialmente se di mezzo c’è l’amore.

Come hai cominciato?

Con Agrodolce. Per me quella soap è stata una scuola, il mio primo approccio alla recitazione. ne ho tutto sommato un ricordo positivo, di grande amore. Rinunciai alla seconda serie perché volevo studiare, andare a Roma, a fare il Centro Sperimentale. Pensavo di essere stata egoista: fui solo molto fortunata.

Come hai vissuto il tracollo della soap?

Per fortuna me ne sono andata mentre tutto stava per affondare. Quelle poche cose che ho girato della seconda serie non me le ha mai pagate nessuno, e così è stato per tutti. Fu una grande delusione.

Che ricordi hai dei primi provini?

Terribili. Non è stato un gran bel momento. A vent’anni ero andata via dalla Sicilia, avevo un sogno ambiziosissimo e farcela è stata dura. Venivo da una soap opera e pretendevo di entrare nel mondo snob del cinema: impossibile. Per tutti ero “quella della soap”.

Poi però è arrivato Sole a catinelle.

Proprio mentre stavo progettando un viaggio dall’altra parte del mondo, ecco che mi chiamano per un provino per la moglie operaia di Zalone. Ho fatto un primo incontro con la casting, poi con Checco. Erano ancora indecisi se prendere un’attrice più grande, magari mora e più formosa, e così mi sono giocata tutte le carte a mia disposizione. Sono andata a comprarmi una divisa da operaia e mi sono presentata così al provino. Alla fine Checco mi ha presa e mi ha portata da Valsecchi. E mi ha detto: il ruolo è tuo, stai tranquilla.

Com’è stato lavorare con lui?

È stato un film molto faticoso, perché spesso si recitava su canovaccio, ma anche molto divertente. Zalone è un uomo colto e intelligente, diverso dalla maschera dell’ignorante che indossa quando recita.

Da Zalone a Scola e i fratelli Taviani: un vero carpiato.

I grandi si vedono anche da questo, dal fatto che non gli importa niente del tuo passato. I grandi non sono snob: vogliono solo vederti in scena. I Taviani, per dire, non avevano la minima idea di quel che avevo girato, e il giorno dopo il provino per Maraviglioso Boccaccio già mi avevano scelta.

E Scola? Eri in Che strano chiamarsi Federico

Là sono stata più fortunata. Dovevo interpretare una cassiera disegnata nelle vignette di Fellini, e il personaggio mi somigliava moltissimo.

Oggi ti senti più inserita nel mondo del cinema?

No, resto un lupo solitario. Non frequento la gente del cinema. Troppo ego, difficile fare una conversazione con chi parla solo di sé. L’unico argomento di conversazione possibile è il lavoro. e il tuo stare bene o male varia in base al tipo di lavoro che fai o non fai.

I tuoi prossimi progetti?

Ho appena finito Che Dio ci aiuti 3, la fiction, e l’anno prossimo sarò in Caffè di Cristiano Bortone, coprodotto da Cina, Italia e Francia. Sarò una ragazza dei centri sociali che perde il lavoro. Pare vogliano stravolgermi fisicamente… sono felicissima.

Torneresti a lavorare in Sicilia?

Ho un rapporto conflittuale con la mia terra. Già a 13 anni mi ci sentivo stretta. E so che oggi, dalle mie parti, si parla male di me. Perché sono “l’attrice”, e chissà che cosa avrei dovuto fare per diventarlo. È inutile spiegare che non ci vuole la raccomandazione, ma semmai il coraggio di lasciare la casa, la mamma e il papà. Torno in Sicilia una volta all’anno per vedere i miei, ma non mi piace. Anche chi dice di essere orgoglioso per me, sotto sotto pensa ai compromessi che sicuramente ho fatto. E attenzione, non vengo dall’entroterra. Ma da Palermo.

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