Michele Riondino Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Tue, 30 Jan 2024 16:03:58 +0000 it-IT hourly 1 Michele Riondino: “Palazzina Laf e la mia Taranto degli anni ’90” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/michele-riondino-palazzina-laf-e-la-mia-taranto-degli-anni-90/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/michele-riondino-palazzina-laf-e-la-mia-taranto-degli-anni-90/#respond Wed, 25 Oct 2023 13:18:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18770  Esordisce dietro la macchina da presa dopo 20 anni di carriera d’attore Michele Riondino. Con Palazzina Laf emerge tutto il suo impegno civile per il territorio della sua Taranto raccontandoci una storia poco nota su un vero caso di mobbing ante-litteram anni ’90, dove lavoratori specializzati dell’Ilva venivano confinati in un reparto fantasma, un limbo […]

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 Esordisce dietro la macchina da presa dopo 20 anni di carriera d’attore Michele Riondino. Con Palazzina Laf emerge tutto il suo impegno civile per il territorio della sua Taranto raccontandoci una storia poco nota su un vero caso di mobbing ante-litteram anni ’90, dove lavoratori specializzati dell’Ilva venivano confinati in un reparto fantasma, un limbo tra demansionamento e licenziamento, e su un operaio “promosso” con la mansione di spiare lì i suoi colleghi. In sala dal 30 novembre il film è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma, dove il regista ha condiviso con noi alcuni retroscena sul film.

Quest’anno hai compiuto vent’anni di carriera. Quella della regia era una tua vecchia idea o l’hai messa a fuoco col tempo?

Non avevo mai realmente pensato d’imboccare questa strada. Però è anche vero che in questi vent’anni sono poche le volte che mi sono ritrovato sul set e a viverlo soltanto da attore. Grammatica, fotografia e geometrie cinematografiche le ho sempre trovate stimolanti. Come mettermi al fianco dei professionisti che ho incontrato: operatori, macchinisti, DOP e tutti i tecnici che il cinema lo fanno con le proprie mani.

Sia per la vitalità del tema che per lo stile, Palazzina Laf mi fa pensare a Ken Loach e a Lina Wertmuller. A quali cineasti ti sei ispirato?

La mia passione è per il cinema degli anni ’70, quello più attivista. Sono legato ai film di Pietro Germi, Elio Petri, Mario Monicelli, Lina Wertmuller e tutto quel cinema che ci ha raccontato le storie di uomini e di lavoratori, me lo porto dietro anche da attore. In generale i miei titoli-guida sono La classe operaia, Todo modo, A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ma per questo film in specifico i miei riferimenti sono stati tre: I compagni di Mario Monicelli, La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e Fantozzi di Luciano Salce.

A proposito di compagni, Elio Germano, Vanessa Scalera e Paolo Pierobon sono stati i tuoi compagni di viaggio. Come vi siete scelti?

La mia esigenza era quella di creare una compagnia d’attori teatrali: ho girato in cinque settimane, ma ne serviva almeno una di prove per lavorare con gli attori nel luogo della palazzina. Volevo avere la possibilità di creare un’unione di gruppo, sia perché era la mia prima esperienza da regista sia perché il teatro è il mio habitat naturale. Con Elio il primo approccio è stato quello verso un amico, un collega, un compagno che condivide con me idee e opinioni. Gli ho fatto semplicemente leggere la sceneggiatura, come a Daniele Vicari. Volevo sapere cosa ne pensassero. Con Elio non abbiamo mai parlato del suo personaggio, ma mi ha dato subito la sua disponibilità perché voleva far parte del film, la definizione del ruolo è venuta dopo. Per quanto riguarda invece Vanessa Scalera, il suo ruolo è stato scritto pensando proprio a lei: non era scontato partecipasse ma ha accettato subito, un vero regalo. Lo stesso con Paolo Pierobon. Alla nostra prima telefonata mi fa: “Ecco, mi vuoi far fare la parte del cattivo del nord, eh?”. E in effetti era così.

Le musiche del tuo film sono firmate da Theo Teardo e da Diodato con un pezzo originale. Hai dato loro particolari indicazioni sulle atmosfere sonore di cui avevi bisogno?

Theo si è occupato della colonna sonora, ma i due brani editi inseriti sono di Bloodhound Gang e Andrea Laszlo. Invece La mia terra di Diodato è una canzone originale. Di questo corredo musicale fanno parte anche tre marce funebri bandistiche che rappresentano la tradizione tarantina nelle processioni della Settimana Santa. La reference che avevo dato a Theo è Fantozzi: mi servivano musiche che potessero esasperare i paradossi ed evidenziare il grottesco della vicenda.

«Ma voi vi chiedete mai perché vicino alla più grande acciaieria d’Europa non ci sta manco una fabbrica di forchette? Mi sa che la ricchezza va tutta da un’altra parte. A noi ci resta solo la monnezza». La frase di uno dei personaggi sintetizza lo sfruttamento economico, l’impoverimento di un territorio e l’inquinamento selvaggio.

È la più importante del film, secondo me, e riassume esattamente il mio pensiero sulla questione tarantina. Il film racconta fatti successi tra l’97 e il ’98 ma ci sono diversi indizi che portano gli spettatori ai giorni nostri perché la Palazzina Laf è solo uno dei problemi relativi a Taranto. Il mio pensiero è quello di chi oggi combatte per far emergere la verità territoriale, la nostra verità che oggi non è ancora rappresentata e raccontata come si deve.

Da attore hai lavorato con registi come Martone, Vicari, Bellocchio, Risi, e Capitani. Poi dirigi Palazzina Laf. E fuori dai set sei impegnato con il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti. Quanto è importante produrre cinema civile oggi?

Faccio parte dell’attivismo tarantino, organizzo il Primo Maggio e partecipo alle manifestazioni perché sono un cittadino che vota ed esprime il proprio parere. Ci ho messo sette anni a fare un film su Taranto per raccontare al meglio una storia che potesse rappresentare un punto di vista oggettivo, politico, ideologico se vogliamo, ma fondamentale per capire la questione tarantina per la quale mi sto spendendo da tanto tempo. Diciamo che sono un diesel che ha bisogno di tempo per avviarsi.

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Fedeltà: la crisi coniugale secondo Netflix https://www.fabriqueducinema.it/serie/fedelta-la-crisi-coniugale-secondo-netflix/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/fedelta-la-crisi-coniugale-secondo-netflix/#respond Fri, 11 Feb 2022 13:58:54 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16773 A una domanda sembra voler dare risposta Fedeltà, nuovo dramma originale Netflix prodotto da BiBi Film: un semplice dubbio, un piccolo malinteso, può distruggere una relazione? Lo scrittore Carlo (Michele Riondino) e l’agente immobiliare Margherita (Lucrezia Guidone) sembrano avere una vita e una relazione perfetta, nonostante gli alti e bassi del lavoro e della famiglia. […]

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A una domanda sembra voler dare risposta Fedeltà, nuovo dramma originale Netflix prodotto da BiBi Film: un semplice dubbio, un piccolo malinteso, può distruggere una relazione?

Lo scrittore Carlo (Michele Riondino) e l’agente immobiliare Margherita (Lucrezia Guidone) sembrano avere una vita e una relazione perfetta, nonostante gli alti e bassi del lavoro e della famiglia. L’equilibrio tra i due tuttavia vacilla quando lui è accusato di atteggiamenti inappropriati con una studentessa, Sofia (Carolina Sala). Malgrado sia prontamente negata qualsiasi complicità da entrambe le parti, il dubbio silenzioso e latente si insinua sempre più, attimo dopo attimo, giorno dopo giorno, nella mente di Margherita, dando inizio ad un gioco di gelosie e vendette che potrebbe portare a irrimediabili conseguenze.

Come già intuibile, Fedeltà propone una storia all’apparenza semplice, che riprende il topos del triangolo amoroso e lo declina a proprio modo. Se fin da subito la narrazione vera e propria non appare particolarmente innovativa, la serie tenta però di scavare sotto la superficie, mettendo in scena non solo una crisi coniugale, ma dipingendo anche uno spaccato delle relazioni odierne, una tranche de vie in cui chiunque può rivedersi. Per farlo, si parte non a caso da un romanzo introspettivo, giocato sui detti e i non detti, come quello di Marco Missiroli, scrittore riminese insignito proprio grazie a Fedeltà del Premio Strega.

Fedeltà

E proprio questa introspezione, questo voler andare oltre il mero racconto dei fatti, è il vero punto di forza della serie. In appena sei puntate, più che sufficienti per il tipo di progetto qui proposto, la storia di Missiroli, riportata sullo schermo dalla penna di Alessandro Fabbri, Elisa Amoruso e Laura Colella, conduce lo spettatore in un pas de deux di due (ma forse più) umanità che si scontrano: tra certezze che vacillano ed errori a cui forse non si può più rimediare, prendono vita personaggi – interpretati più che degnamente da Riondino e Guidone – tanto conflittuali, quanto reali, con cui è impossibile non rivedersi, almeno una volta.

La regia, guidata dalla mano esperta di Andrea Molaioli (l’eccellente La ragazza del lago, ma anche il più pop Slam – Tutto per una ragazza) e dal più giovane Stefano Cipani (Mio fratello è figlio unico), sembra quindi seguire i suoi protagonisti, attraverso dei lunghi momenti musicali e l’impeccabile fotografia di Gogò Bianchi (Anna), che incornicia una Milano dai mille volti. Nonostante a volte il passaggio dalla carta allo schermo non sfrutti appieno le proprie potenzialità, Fedeltà riesce però a fare ciò che si prefigge: raccontare, con una buona eleganza e una certa profondità, la crisi di un amore, ma ancor prima la storia di due persone qualunque.

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Un’avventura, il musical sui pezzi di Battisti e Mogol https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/unavventura-il-musical-sui-pezzi-di-battisti-e-mogol/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/unavventura-il-musical-sui-pezzi-di-battisti-e-mogol/#respond Fri, 15 Feb 2019 08:00:32 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=12610 A San Valentino i film sull’amore non mancano mai tra le uscite in sala, ma quest’anno Lucky Red vuole spiazzare tutti con un progetto ambizioso e molto originale. Un’avventura, nuovo film distribuito ma anche prodotto dalla factory di Andrea Occhipinti insieme a Los Hermanos e Rai Cinema, ci porta in un paese della Puglia negli […]

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A San Valentino i film sull’amore non mancano mai tra le uscite in sala, ma quest’anno Lucky Red vuole spiazzare tutti con un progetto ambizioso e molto originale. Un’avventura, nuovo film distribuito ma anche prodotto dalla factory di Andrea Occhipinti insieme a Los Hermanos e Rai Cinema, ci porta in un paese della Puglia negli anni ’60. Matteo e Francesca devono separarsi perché lei, ventenne con la voglia di scoprire il mondo, parte per l’Inghilterra. Invece lui, meccanico e un po’ provinciale, non riesce a slegarsi dalla famiglia e dalla sua piccola realtà. Tutto cambierà con gli anni e i lustri. Il ritorno di lei, la partenza insieme per Roma, il lavoro di entrambi e la fortuna musicale di lui. Costruito sui pezzi evergreen di Lucio Battisti e Mogol, questo lavoro unico nel panorama italiano amalgama il linguaggio del musical americano a quello del musicarello italiano anni sessanta.

Nei panni dei protagonisti abbiamo Michele Riondino e Laura Chiatti, che per l’occasione cantano pezzi indimenticabili riadattati da Pivio & Aldo De scalzi alle esigenze narrative di una storia d’amore lunga e piena di ribaltamenti. Ci mette il suo zampino anche Luca Tommassini, che con le sue coreografie e i suoi corpi di ballo più eterogenei che mai ricompone il linguaggio musicale su un livello molto dinamico. Così Acqua azzurra, acqua chiara diventa prima una danza dolorosa e triste sotto la pioggia, per poi sbocciare in un inevitabile reprise pieno di vitalità; mentre Non è Francesca si trasforma in un enigmatico tango della gelosia; e Uno in più anima una festa in spiaggia con un’energica sezione ritmica di percussioni e la messa in scena da figli dei fiori che strizza l’occhio a capostipiti del musical moderno come Hair.

avventura

Alla regia abbiamo Marco Danieli, reduce da La ragazza del mondo, premiata opera prima di taglio ben più drammatico e coi piedi puntati sulla realtà. Per Un’avventura il cambio di registro risulta totale, repentino, sfida dietro la macchina da presa che il regista di Tivoli riesce a vincere con il minimo sforzo. La sua macchina da presa infatti non è dinamica come quelle di Rob Marshall per Chicago o di Damien Chazelle in La La Land, ma nella sua compostezza risulta sufficiente a raccontare la storia d’amore tormentata di Matteo e Francesca. Le complicità più preziose per questo traguardo gli arrivano dalle danze di Tommassini e soprattutto dalle musiche iconiche.

Invece il rapporto vocale tra i due attori a volte ricorda quasi i protagonisti di Grease, anche se Riondino, già rocker quando fuori dal set, ci mette del suo. A livello canoro quanto a esperienza d’attore. Proprio 10 anni fa usciva Dieci inverni, una love story più classica, non musicale, dove lui protagonista si lasciava e si riprendeva diverse volte con l’amore della sua vita. Gli abbiamo ricordato il film durante la conferenza stampa e lui ha aggiunto che era stato scritto proprio dalla stessa sceneggiatrice di questo musical, Isabella Aguilar. “Dieci inverni lo si ricorda sempre piacevolmente. In questa storia c’è qualcosa di quella narrazione, ma in più qui c’è il contributo delle canzoni di Mogol e Battisti, quindi tutto il materiale necessario per raccontare una storia d’amore vera, reale”. Ha spiegato l’attore. “Una storia d’amore che deve passare sui cadaveri e i residui di altre storie, quindi attraverso delusioni e tradimenti. È questo l’elemento importante di questo film”.

avventura

Un’avventura non è però solo dramma sentimentale che vuole struggere. Porta anche i tratti della commedia romantica, con gli innesti spiritosi offerti dai due amici spalla di Matteo/Riondino: tracce di humor da musicarello come le parlate pugliesi col fare leggero e sempre pronto alla battuta che rinfresca il tutto. Una fortuna, altrimenti si sarebbe virato sul melodrammone alla Love Story.

Infine, la trovata inedita di coinvolgere Mogol con la sua discografia per un’operazione vagamente simile a quella di Across the Universe sui Beatles costituisce un’altra sperimentazione ardita di Lucky Red sul cinema italiano che guarda l’internazionale senza chinare il capo. Anzi, stavolta il capo ce lo ha fatto volgere pure verso l’alto facendoci domandare a Mogol cosa avrebbe pensato Lucio Battisti del film, che sempre in conferenza ha rivolto un pensiero al suo amico. “Lucio cercava di assimilare il contributo artistico di tutti i più grandi del mondo. Passava la vita ad ascoltare e analizzare. Secondo me gli sarebbe piaciuto perché è una storia moderna e attaccata alla vita”.

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“La ragazza del mondo” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/la-ragazza-del-mondo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/la-ragazza-del-mondo/#respond Fri, 31 Mar 2017 14:05:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=4427 Ha appena trionfato ai David di Donatello come Opera prima: La ragazza del mondo di Marco Danieli (che, ricordiamo, a dicembre aveva già vinto il Premio Fabrique 2016) racconta la storia di Giulia, una diciannovenne Testimone di Geova soffocata dalle restrizioni impostele dal mondo di provenienza, la cui vita inizia a cambiare quando si innamora di […]

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Ha appena trionfato ai David di Donatello come Opera prima: La ragazza del mondo di Marco Danieli (che, ricordiamo, a dicembre aveva già vinto il Premio Fabrique 2016) racconta la storia di Giulia, una diciannovenne Testimone di Geova soffocata dalle restrizioni impostele dal mondo di provenienza, la cui vita inizia a cambiare quando si innamora di un trentenne appena uscito di galera che non fa parte della sua comunità. 

Rispetto a tanti suoi colleghi Marco Danieli ha esordito tardi nel lungometraggio, all’età di 40 anni. Al Centro Sperimentale, dove si è formato e attualmente svolge l’attività di docente tutor nel corso di regia curato da Luchetti, è giunto solo ventisettenne («per diverso tempo non ci ho nemmeno provato, convinto che fosse troppo difficile entrare») e in passato, oltre a girare alcuni cortometraggi e documentari brevi, ha lavorato per una TV satellitare. Questi anni gli sono serviti per maturare una padronanza del mezzo filmico che l’ha portato a realizzare un’ottima opera prima, caratterizzata da una regia rigorosa e un approccio al contempo intimo e privo di retorica.

Cosa ti ha spinto a raccontare la particolare esperienza di una giovane Testimone di Geova?

Con il co-sceneggiatore Antonio Manca eravamo da tempo concentrati su un’altra storia e avevamo già un produttore, quando un’amica comune ci ha raccontato questo vissuto personale che ci ha folgorato. Abbiamo così deciso di spostarci su questa nuova storia, convinti che dovessimo darle la precedenza. All’inizio c’è stata una fascinazione quasi antropologica, perché sapevamo poco dei Testimoni di Geova ed era un po’ come se avessimo scoperto un mondo. A interessarci era però soprattutto lo specifico della vicenda di questa ragazza, che poi è l’aspetto che credo possa rendere il film più universale. La ragazza del mondo, infatti, è in fondo una sorta di romanzo di formazione di una ragazza alla ricerca della propria identità, che vive forti conflitti in un contesto molto rigido.

La ragazza del mondo si concentra molto sulla storia d’amore tra i due protagonisti, ottimamente interpretati da Sara Serraiocco e Michele Riondino.

Fin da quando tre anni fa ho realizzato un promo di 10 minuti, in cui ho girato le scene più importanti di quello che poi sarebbe stato il film, ho capito che la protagonista doveva essere interpreta da Sara. Mi sono talmente legato a questa sua idea di interpretazione del personaggio che non ho mai aperto un casting per il ruolo di Giulia. Oltre a essere molto espressiva, ha un naturalismo fortissimo e, nonostante abbia una sua tecnica di recitazione, quando è in scena sembra quasi una non attrice. Per me lei è davvero un’interprete cinematografica nata. Per quanto riguarda Michele, ho pensato immediatamente a lui non appena abbiamo deciso di alzare l’età del personaggio di Libero, che originariamente avevamo immaginato più giovane. Michele ha una formazione teatrale e tuttora alterna al cinema teatro e fiction: è un attore trasversale, preparato, scrupoloso e che compie un lavoro sul personaggio simile a quello di molti interpreti americani.

La sceneggiatura che hai scritto con il tuo abituale collaboratore è solida e priva di sbavature.

Tra me e Antonio c’è un feeling particolare. Ci siamo conosciuti sui banchi del Centro Sperimentale e da quel momento abbiamo fatto tanto insieme. In qualche modo ci completiamo a vicenda: lui ha una notevole cultura umanistica mentre io sono più tecnico. L’ambizione era proprio di dare vita a una sceneggiatura solida. Volevo in tutti i modi evitare di accorgermi sul set che c’era un passaggio che non funzionava a dovere e abbiamo lavorato parecchio in questa direzione. Diciamo che, avendoci messo più di qualche anno a trovare i finanziamenti per il film, abbiamo avuto parecchio tempo da dedicare alla scrittura. A ogni modo, sentivo che era fondamentale avere come base una sceneggiatura forte, matura e con un certo ritmo. Anche perché poi sul set, come regista, avevo il desiderio di lasciare spazio all’improvvisazione e aprirmi alle possibilità che possono riservare le intuizioni del momento. Non volevo in alcun modo perdere la capacità di emozionarmi e di capire la scena nei momenti in cui mi trovavo per la prima volta sul set.

A proposito delle difficoltà nel reperire i finanziamenti, cos’è che più di tutto ti ha aiutato a realizzare il film e quali consigli daresti a dei giovani registi che tentano di esordire?

Per trovare i soldi necessari c’è voluto davvero molto tempo e alla fine il promo a cui accennavo prima è stato fondamentale per reperire i fondi e convincere produttori e attori ad accettare di prendere parte al progetto. Il mio consiglio è quello di lavorare su una storia che sentono fortemente. Credo che non sia utile chiedersi cosa vada di moda al cinema, ma piuttosto cercare un tema che ti emoziona e che ti coinvolge, perché poi probabilmente ci dovrai lavorare per anni e a quel punto, se non hai un legame molto forte con quanto vuoi raccontare, c’è il rischio che nel frattempo te ne disamori. Sono riuscito a portare a termine il film anche perché questa vicenda mi aveva molto colpito, toccandomi delle corde profonde di cui probabilmente ancora oggi non sono fino in fondo consapevole.

Recentemente hai scritto insieme a Manca e ad Antonella Lattanzi 2Night di Ivan Silvestrini. In futuro pensi di dedicarti ancora a sceneggiature di film di cui non curerai la regia?

Attualmente mi sto concentrando sulla mia opera seconda e sono in fase di scrittura. Con 2Night è stata la prima volta che scrivevo un film per altri e devo dire che lo rifarei volentieri. Mi piacerebbe anche girare un film di cui non ho scritto soggetto o sceneggiatura. Secondo me è importante avere una certa elasticità che possa portarti a fare una volta lo sceneggiatore per un altro regista e magari la volta dopo il regista di un script non tuo. Non penso che questo tolga qualcosa alla vocazione autoriale di un cineasta. Come ci insegnano tanti importanti registi americani, se hai un tuo punto di vista e una tua personalità, alla fine questi emergono anche se non hai scritto il film.

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“Senza lasciare traccia” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/senza-lasciare-traccia-2/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/senza-lasciare-traccia-2/#respond Tue, 01 Nov 2016 15:35:42 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3746 In un pigro pomeriggio testaccino, Fabrique ha incontrato Gianclaudio Cappai per parlare di Senza lasciare traccia, il suo interessante esordio, in pellicola, dietro la macchina da presa. Dopo un corto vincitore al Festival di Torino del concorso dedicato al cinema breve (Purché lo senta sepolto, 2006) e un’opera di finzione di trenta minuti presentata nella […]

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In un pigro pomeriggio testaccino, Fabrique ha incontrato Gianclaudio Cappai per parlare di Senza lasciare traccia, il suo interessante esordio, in pellicola, dietro la macchina da presa.

Dopo un corto vincitore al Festival di Torino del concorso dedicato al cinema breve (Purché lo senta sepolto, 2006) e un’opera di finzione di trenta minuti presentata nella sezione “Corto Cortissimo” a Venezia (So che c’è un uomo, 2009), Gianclaudio Cappai lavorava da qualche anno alla realizzazione del suo primo lungometraggio. Senza lasciare traccia conferma il talento per la messa in scena del quarantenne regista sardo e si avvale di un cast affiatato e di ottimo livello composto da Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich e Fabrizio Ferracane. Prodotta dalla società fondata nel 2009 dallo stesso regista e sceneggiatore, Hira Film, l’opera prima è ambientata in una località rurale in provincia di Lodi e affronta i tormenti di un giovane uomo che improvvisamente si ritrova immerso nei meandri del proprio passato.

Tutti i tuoi lavori ruotano attorno a traumi che condizionano pesantemente il presente dei protagonisti. Cos’è che ti interessa in questo tema?

In effetti Senza lasciare traccia può essere considerata l’ultima parte di una trilogia che ha come focus proprio quanto hai appena detto. Di sicuro c’è da parte mia l’interesse di indagare il modo in cui la malattia influenza non solo chi ne è affetto, ma anche coloro che gli vivono vicino. Rispetto alle mie due opere precedenti, in questo film ho cercato di focalizzarmi sulla percezione soggettiva del protagonista: Bruno infatti si convince che il suo tumore sia strettamente collegato a un passato traumatico che non ha mai raccontato a nessuno. In fase di scrittura, con la co-sceneggiatrice Lea Tafuri eravamo molto intrigati da questo spunto narrativo, ispirato all’esperienza personale di una nostra amica. Era necessario però inserirlo all’interno di una drammaturgia di finzione e così abbiamo cercato di sviluppare un percorso a ritroso nel passato di Bruno, come fosse una sorta di viaggio esistenziale nell’arco di una sola giornata.

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Proprio a proposito della struttura del film, alcuni passaggi tra le dimensioni del passato e del presente sono molto suggestivi. Era già tutto preventivato in fase di scrittura?

In questo contesto la fase di montaggio è stata fondamentale. In sceneggiatura i flashback erano molto più descrittivi e carichi di informazioni sul passato (era molto più chiaro il rapporto di inquietante complicità tra la bambina e il fuochista, così come il passato di Vera e del padre) e si concentravano nella parte iniziale. Al montaggio poi li abbiamo asciugati e frammentati lungo tutto l’arco del film. Il racconto più dettagliato del passato aveva certamente i suoi punti di forza, ma toglieva mistero ai personaggi ed efficacia allo sviluppo narrativo in termini di coinvolgimento emotivo. Così con Lea e il montatore Alessio Doglione abbiamo scelto di andare in questa direzione confidando nel fatto che sarebbe stato il pubblico, seguendo il percorso di Bruno, a mettere a posto i vari tasselli del puzzle. In tal modo credo che il film sia divenuto più enigmatico, rarefatto e interessante.

Sul piano visivo Senza lasciare traccia ha l’indubbia capacità di creare una costante atmosfera di tensione. Come hai lavorato sulla messa in scena e a che tipo di estetica cinematografica ti sei ispirato?

Dal punto di vista visivo ero alla ricerca di qualcosa che mi ricordasse la New Hollywood statunitense degli anni Settanta. Il mio punto di riferimento era il cinema di registi come Robert Altman o Michael Cimino. Alcuni tra i loro primi lavori – per Altman penso soprattutto a Images, Il lungo addio e Tre donne – presentano storie molto potenti che fanno leva su una notevole messa in scena, rigorosa ma allo stesso tempo fluida, mobile e soprattutto furtiva. Da questi film per esempio abbiamo preso l’attitudine all’utilizzo di focali lunghissime per le riprese. Adottando uno stile del genere volevo affinare ed esplorare in maggiore profondità una serie di scelte espressive cui avevo già fatto ricorso nei miei precedenti lavori.

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Sei riuscito a produrre il film con la tua società, senza l’aiuto di altri produttori…

Dopo aver rinunciato ad alcuni progetti più costosi a causa del mancato accordo con dei produttori, per questo film avevamo dei punti su cui non transigevamo e che sapevamo avrebbero infastidito i nostri interlocutori: girare fuori Roma per sfruttare le location più adatte, realizzare il film in 16 mm e in non meno di sei settimane. Di conseguenza, occuparci della produzione è divenuta l’unica via ed è stato possibile grazie a finanziamenti provenienti dalla Regione Lombardia e da altri bandi. Trovare i soldi è stato senz’altro complicato, ma in questi casi non è da sottovalutare neppure la difficoltà nell’individuare un arco di tempo in cui il cast artistico su cui si vuole puntare sia disponibile. Può forse sembrare assurdo, ma spesso i film slittano e poi non si fanno più proprio per questo motivo. Appena abbiamo potuto contare sulla disponibilità di tutti gli attori principali siamo partiti con la preparazione del film, anche se avevamo a disposizione meno della metà del budget necessario. Durante la preparazione poi abbiamo continuato parallelamente la ricerca dei fondi. Alla fine è andato tutto bene e questo doppio binario ha funzionato in maniera perfetta.

Hai già in mente quale sarà il tuo prossimo film?

In questi mesi sono ancora impegnato ad accompagnare Senza lasciare traccia in tutte le città in cui viene richiesto. Per ora non riesco a isolarmi per mettermi al lavoro su un nuovo progetto, ma dopo l’estate c’è tutta l’intenzione di farlo. Ho comunque già iniziato a pensare a degli spunti che potrebbero diventare un argomento di discussione con altri sceneggiatori e, in particolare, ho individuato un tema che mi attrae moltissimo. Rispetto all’esperienza fatta con il mio primo lungometraggio vorrei però trovare qualcuno che sostenga il progetto fin dall’inizio. Scrivere un soggetto e una sceneggiatura senza avere già alle spalle un produttore, infatti, crea poi difficoltà inaudite nel far partire la realizzazione del film.

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Il primo lungometraggio del cagliaritano Gianclaudio Cappai è un noir sulla rabbia e la vendetta assolutamente da non perdere.

Bruno convive con una terribile malattia, un dolore che ha radici in un tempo lontano di cui nemmeno la moglie Elena è a conoscenza. Fino a quando Bruno avrà l’occasione di tornare nei luoghi da dove tutto è cominciato, una fornace in dis uso divenuta rifugio di un uomo e della figlia. Atmosfere claustrofobiche ed inquietanti, in cui lo spazio non è solo un luogo fisico ma l’unica forma di espiazione per un uomo che del passato porta i segni tra le pieghe del corpo e dell’anima.

Prodotto dall’indipendente Hirafilm, con un budget di 578mila euro, il contributo di Regione Lazio e Regione Lombardia, in associazione con Media Sponsor e Obiettivo Energia, con il sostegno di Lombardia Film Commission, il film è stato presentato in anteprima al Bif&st 2016 nella sezione ItaliaFilmFest/Nuove Proposte e proprio in questi giorni è nelle sale.

Senza lasciare traccia è il tuo primo lungometraggio, interamente autofinanziato. È stato difficile trovare i fondi?

Produttivamente questo film nasce come reazione, concreta e indipendente, a due miei progetti ambiziosi che sul punto di partire si erano arenati per colpa del solito procrastinare che ammorba diversi produttori cinematografici italiani. Non due treni persi, bensì due treni deragliati. Un ko dopo l’altro. Abbiamo deciso quindi, noi come società Hirafilm, di “partire” da soli per mettere in piedi finanziariamente il film con un budget stimato medio/basso, poco meno di 600.000,00 euro. Periodo? Fine estate del 2013. Non volendo perdere altro tempo, parallelamente alla ricerca dei fondi, abbiamo iniziato di fatto a preparare il film con le risorse economiche che avevamo a disposizione. Tenere vivo questo doppio binario è stato determinante, perché i due aspetti (budget ed esecutivo) si corroboravano a vicenda, permettendoci step by step di rendere plausibili le date di inizio riprese che ci eravamo prefissati, ovvero inizio marzo 2014. Quando a questi due aspetti si è aggiunta l’effettiva disponibilità del cast artistico principale, allora era evidente a tutti che non si poteva più tornare indietro. E a quel punto, venendo alla tua domanda, una delle difficoltà maggiori è stata convincere la banca (una delle tante) a farci un prestito per chiudere le sei settimane di riprese senza panico o spargimenti di sangue. E così è stato, soprattutto grazie a un paio di preziose consulenze finanziarie, quelle giuste per intenderci…

Il tax credit è stato fondamentale per la realizzazione del film?

Assolutamente decisivo: diciamo che un terzo del budget è stato coperto dal tax credit, sia esterno e interno. Tuttavia anche in questo caso, va detto, c’è stato un perseverante lavoro “ai fianchi” che veniva da lontano, proprio da quei due film non realizzati ma le cui sceneggiature avevano calamitato l’interesse di alcuni imprenditori privati. Imprenditori che fortunatamente ci hanno sempre sostenuto, nonostante lo sviluppo del progetto ogni tanto si frenasse per poi riprendersi. Altri tasselli produttivi dipendevano dalla scelta delle location, di qui il Fondo della Regione Lombardia (abbiamo girato in parte nel basso lodigiano) e a seguire  quello della Regione Lazio. Aggiungi sponsor vari e, last but not least, un finanziamento diretto da parte nostra come aumento di capitale della società.

Foto 1 SLTQuali consigli ti senti di dare a dei giovani autori che spesso si trovano ad avere difficoltà produttive e di finanziamento?

Non credo di essere portato a dare consigli in merito, perché su questo tema sono spesso istintivo e radicale, né d’altra parte vorrei che si finisse sempre per dire banalità del tipo: “Facciamo di necessità virtù… prodursi da soli ti dà una libertà creativa che non avresti ecc.” In realtà l’autoproduzione è un gioco insano, molto spesso frustrante, quasi sempre devastante. In tutta onestà mi viene difficile consigliarla come iter produttivo. A mente fredda dico che è sempre meglio cercare un produttore che creda in te, qualcuno con cui avere un costante scambio dialettico sul film e per il film, che lo arricchisca, perfino lo rimetta in gioco ma senza sabotarlo e che alla fine lo porti a termine.

Il film esce fuori dagli stereotipi del cinema italiano. Drammi domestici e famiglie in crisi lasciano spazio a un linguaggio nuovo, oserei dire inaspettato, un po in linea con i registi del momento Mainetti e Rovere

Complesso e sperimentale insieme sono due concetti che alle mie orecchie suonano come un complimento. Credo tuttavia che rispetto ai miei lavori precedenti questo film sia quello più leggibile, incastonato com’è tra alcuni elementi di “genere” e tensioni drammatiche da Kammerspiel. Francamente non lo accosterei troppo ai nomi da highlights, eppure in effetti ad accomunarli è proprio quella pura e ludica voglia di utilizzare il genere, decontestualizzarlo per poi approdare a qualcos’altro. Se poi questo qualcos’altro diventa un film di culto, come sembra stia accadendo a Lo chiamavano Jeeg Robot, be’, non si può che esserne felici.

Da cosa nasce l’idea del film?

Nasce da un storia vera, o almeno lo spunto iniziale si riallaccia al fatto che una mia amica, malata di tumore, associasse con convinzione la sua malattia a un intimo trauma della sua infanzia. Il mistero di quel trauma e soprattuto le reazioni ed emozioni da esso innescate, sono stati il punto che ha dato il via allo script. Questo film è un’intromissione nel “lato oscuro” della vita. Solitamente non ho alcun interesse a trattare argomenti da ricerca sociologica. Per me è molto importante tradurre delle esperienze personali con i miei mezzi estetici. È un fatto di precisione. Tutto ciò che è “macroscopico” rende la precisione impossibile e si corre il rischio di perdersi in un falso pathos.

Un cast d’eccezione (Michele Riondino, Valentina Cervi, Vitaliano Trevisan, Elena Radonicich) per un’opera prima: come sei riuscito a mettere insieme attori di questo calibro?

In effetti, devo ammettere che l’ottimo ed eterogeneo cast di questo film, essendo un’opera prima, non era affatto scontato. Anzi. In fase di sceneggiatura non mi ero focalizzato su nessun attore in particolare, eccetto Vitaliano Trevisan, straordinario scrittore prestato al cinema, che per me rappresenta la combinazione perfetta di stranezza, profondità e originalità. Per tutti gli altri ruoli mi sono avvantaggiato dell’esperienza preziosa e paziente della casting director Stefania De Santis, con la quale mi sono trovato molto bene. Il resto del lavoro di convincimento, probabilmente, lo ha fatto la storia e la possibilità per gli attori di sperimentare certe cose con più libertà.

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