Michele D’Attanasio Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 08 Sep 2022 07:56:32 +0000 it-IT hourly 1 Ti mangio il cuore, Pippo Mezzapesa: “Elodie come il bianco e nero, una scelta istintiva e potente” https://www.fabriqueducinema.it/festival/ti-mangio-il-cuore-pippo-mezzapesa-elodie-come-il-bianco-e-nero-una-scelta-istintiva-e-potente/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/ti-mangio-il-cuore-pippo-mezzapesa-elodie-come-il-bianco-e-nero-una-scelta-istintiva-e-potente/#respond Sun, 04 Sep 2022 16:27:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17583 Ti mangio il cuore, il nuovo film di Pippo Mezzapesa, è in concorso a Orizzonti a Venezia. Il film è una decisa zampata d’autore nella carriera del regista pugliese che, dopo Il paese delle spose infelici e Il bene mio, affronta una storia di faide familiari, perpetrate nel tempo, nell’oscuro mondo della mafia del Gargano, […]

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Ti mangio il cuore, il nuovo film di Pippo Mezzapesa, è in concorso a Orizzonti a Venezia. Il film è una decisa zampata d’autore nella carriera del regista pugliese che, dopo Il paese delle spose infelici e Il bene mio, affronta una storia di faide familiari, perpetrate nel tempo, nell’oscuro mondo della mafia del Gargano, la cosiddetta quarta mafia, raccontata nel libro omonimo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, edito da Feltrinelli.

Mezzapesa gira un film materico, intriso di terra, fango, sangue, sudore, carnale sia nelle manifestazioni della morte che in quelle dell’amore, attraversato da uno spirito selvaggio che sembra annullare lo scorrere del tempo, il 1960 è uguale al 2014, che sarà uguale fra cent’anni. Un potente bianco e nero, la presenza seducente e mefistofelica di Elodie, femme fatale di un mondo primitivo e crudele, una squadra di attori affiatati: di questo e altro parliamo con Mezzapesa, poco prima della première del film.

Quando hai cominciato a pensare a Ti mangio il cuore?

Il libro mi è stato proposto dagli autori, quando era ancora in bozze, e leggendo questa analisi attentissima del fenomeno della mafia foggiana, la cosiddetta quarta mafia, ho ritrovato una storia alla quale mi ero appassionato molti anni prima, quando era emersa dalla cronaca la vicenda della prima pentita della mafia del Gargano, una donna che per la sua ricerca di amore, un amore bruciante, fa esplodere la faida assopita fra due famiglie. Eppure, questa sua scelta aiuta a decapitare questo stesso sistema mafioso.

Il Gargano non è la terra di cui sei originario.

Io sono di un’altra parte della Puglia che però comunque è vicina. Conosco il contesto di questo film, è una realtà quasi sconosciuta, su cui far luce perché è estremamente violenta e che si è accresciuta proprio a causa del suo essere poco nota. Raccontare questa ferita, quest’ombra nella mia terra, credo che possa servire a rimarginarla.

Il bianco e nero ti è servito a dare l’impressione che, nonostante un passaggio temporale fra il prologo e il resto del film, le dinamiche si ripropongano uguali, un eterno ritorno?

Il bianco e nero è stato scelto per raccontare i grandi contrasti di questa storia. C’è un contrasto anche nel titolo: “ti mangio il cuore” può essere promessa di morte ma anche folle dichiarazione d’amore. Questa ambivalenza è anche il contrasto della storia, che è cruda, dura, violenta, ma anche fatta di fragilità, di voglia di vivere, di sensibilità, di grazia. Per restituire queste dinamiche quindi ho pensato di utilizzare solo due colori: il bianco e il nero. In fondo il bianco e nero mi ha anche consentito una sorta di astrazione e, non ultimo, la possibilità di raccontare il fulcro della storia: l’ineluttabilità del male e la difficoltà di sradicarlo.

In un film dall’estetica così precisa il rapporto con il direttore della fotografia è cruciale.

Quando ho comunicato al direttore della fotografia, Michele D’Attanasio, l’esigenza di girare in bianco e nero, lui l’ha subito condivisa. È stato bello cominciare a vivere, a guardare in bianco e nero: le scelte dei colori, le consistenze dei materiali sono fatte tutte in funzione dei contrasti del bianco e nero, ci siamo abituati a vivere così.

Hai scelto molti attori che non sono pugliesi, questo ha comportato un grande lavoro sulla lingua.

Avevo a cuore che il dialetto fosse attendibile, e di conseguenza il lavoro sulla lingua è durato mesi, c’era un dialogue coach che ha seguito gli attori in preparazione e poi è stato presente sul set a controllare fino al minimo accento. Per me restituire l’idioma di quella terra, che è molto crudo, gutturale, era essenziale per il racconto.

Hai riunito Tommaso Ragno e Francesco Di Leva, che tornano insieme dopo Nostalgia di Mario Martone.

Sono due grandissimi attori, attori di struttura ma allo stesso tempo anche di grande istinto, capaci di mimesi, è stato un privilegio dirigerli.

Sei un regista che lascia spazio all’improvvisazione?

Credo che il set sia un momento di vita, di creazione, un viaggio che va vissuto tutti insieme. Ci deve essere una guida, certo, ma la guida deve anche farsi influenzare da tutte le energie che emergono sul set, che sono sia umani che paesaggistici. Ci si lascia influenzare dall’estro degli attori, da come il personaggio viene reinterpretato e rivisto dall’attore, e allo stesso tempo si deve essere disponibili a tutti i piccoli imprevisti che i luoghi in cui si va a girare ti presentano. Tutto questo arricchisce la storia.

Le location sono posti che già conoscevi?

Sono posti che conoscevo molto bene ma che ho imparato a conoscere ancora meglio, perché la prima cosa che faccio, prima ancora di fare scouting con la produzione, è visitare da solo o al massimo col direttore della fotografia i luoghi in cui si andrà a girare, per entrare nell’anima dei posti, capirne l’essenza e raccontarli con consapevolezza.

Come è avvenuta la scelta di Elodie, qui al suo esordio?

Un po’ come la faccenda legata al bianco e nero: un’intuizione iniziale, istintivamente. Serviva una personalità forte, che avesse una sensualità dirompente, violenta, ma allo stesso tempo sapesse comunicare verità, sensibilità, capacità di emozionare. Elodie era perfetta. Il percorso di ricerca del personaggio è stato incredibile, è stata una scelta molto coraggiosa sia da parte mia e della produzione che, soprattutto, da parte sua, perché non è semplice esordire al cinema con un personaggio così sfaccettato.

Il finale di Ti mangio il cuore apre a una speranza, a una remissione, però l’ultimissima inquadratura può significare che esiste qualche cosa di inestirpabile negli esseri umani. Sei d’accordo?

Ancora una volta: l’ineluttabilità del male. Il male è alienabile, sì, è una scelta di vita: la scelta di Marilena, il personaggio di Elodie, va nella direzione dello sradicamento del male, ma attenti, perché le radici sono difficili da estirpare.

 

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Fotografi di scena/5: Stefania Rosini https://www.fabriqueducinema.it/magazine/macro/fotografi-di-scena-5-stefania-rosini/ Thu, 22 Apr 2021 07:26:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15467 Italiana trapiantata all’estero ma con frequenti irruzioni in madre patria, Stefania Rosini porta il suo nomadismo cosmopolita  nei suoi scatti. La curiosità del suo sguardo è sorprendente e rende spettacolari e originali le sue foto.  Il suo stile  è contaminato dalla vita dei set di Los Angeles, la capitale indiscussa del cinema mondiale; in Italia ha scattato […]

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Italiana trapiantata all’estero ma con frequenti irruzioni in madre patria, Stefania Rosini porta il suo nomadismo cosmopolita  nei suoi scatti. La curiosità del suo sguardo è sorprendente e rende spettacolari e originali le sue foto.  Il suo stile  è contaminato dalla vita dei set di Los Angeles, la capitale indiscussa del cinema mondiale; in Italia ha scattato per Zero Zero Zero, Summertime, Il cacciatore. Ha appena terminato un film  Amazon Prime con Thandie Newton, Chris Pine, Laurence Fishburne e Jonathan Price ed è gia sul set a Londra di  una miniserie per HBO con Oliva Colman e David Thewlis. 

La tua prima macchina fotografica?

La mia primissima macchina fotografica è stata una Canon Prima Junior, regalo per il mio ottavo compleanno – la mamma non era molto contenta perché era un hobby troppo costoso: una compattina tutta automatica che mi ha accompagnato per qualche anno, poi sono passata a una Nikon FE2 manuale e da li è iniziato il vero divertimento. Ho imparato praticamente da sola, appuntandomi su un quaderno i diaframmi, i tempi e tutto il resto. Mio cugino è un fotografo amatoriale ed è grazie a lui che ho visto la prima volta, in camera oscura, l’immagine venire fuori dalla carta. Quella magia mi ha folgorato e credo di avere deciso lì per lì, più o meno a dodici anni, che da grande avrei voluto fare la fotografa.

Qual è la macchina fotografica che usi ora? E perché è quella più adatta a te?

È un po’ complicato: quando sono sul set scatto con due Sony A9 Mirrorless, perfette perché silenziosissime (elettronica shutter mode) e con una risoluzione anche a luci basse meravigliosa. In una monto un wide angle lens e nell’altra un obbiettivo lungo.  Very sharp e il fuoco è velocissimo. Nella mia borsa c’è anche una vecchia ma sempre potentissima Canon 5D Mark III (ho provato una Mark IV ma non ho visto cosi tante differenze per le stills, quindi sono rimasta, felicemente risparmiando, con la III). Ma credo di tornare presto al mio vecchio amore Nikon, scambiando camera e lenti: vorrei prendermi la Nikon D850, per una questione di feels e colori. Sono comunque entrambe macchine professionali di altissimo livello. Al momento la Sony A9 rappresenta la soluzione migliore per uno Unit Stills Photographer. Personalmente sono molto soddisfatta e anche le lenti sono fantastiche. Non ho assolutamente abbandonato le macchine fotografiche a pellicola che porto con me anche sul set e quando è possibile cerco di fare qualche ritratto agli attori: una Nikon FM2 e una fantastica Rolleiflex! È tutta un’altra storia fotografare con queste.

Obbiettivi? Quali lenti preferisci nel tuo lavoro sul set ?

Per il mio lavoro le varifocali sono indispensabili, perché devi essere veloce nell’adattarti alle situazioni, fare primi piani e passare ai wide angle in un attimo, e avere a disposizione un vasto range di focali aiuta. E devono essere rigorosamente luminose, quindi mai sopra il f2.8. Un bravo fotografo di scena deve muoversi il minimo indispensabile e passare inosservato, di conseguenza cambiare lente ogni minuto non è l’ideale. Le mie lenti: Sony 24/70mm f2.8, Sony 16/24mm f2.8, Sony 85mm f1.8, Sony 70/200mm f2.8, Canon 16/24mm f2.8, Canon 24/70mm f28, Canon 70/20mm f 2.8.

Stefania Rosini sul set
Stefania Rosini sul set.

Qual è stato il tuo primo set cinematografico? 

Il mio primo set cinematografico amatoriale è stato al primo anno del DAMS di Bologna. Sul mio sito ci sono ancora le foto di quel set: un cortometraggio del mio compagno di corso Marcello Vai, con un Michele D’Attanasio tuttofare, dalla produzione al grip e al catering. La sensazione era quella della “famiglia per una settimana”, perché si viveva davvero giorno e notte tutti insieme. È ancora un bellissimo ricordo e grazie a quell’esperienza mi sono resa conto che con quel lavoro avrei potuto unire le mie due grandi passioni: fotografia e cinema. Il primo vero set cinematografico però è stato a Los Angeles con il mio migliore amico, il direttore della fotografia Pierluigi Malavasi per una serie di History Channel dal titolo Nostradamus Effect, e da lì ho iniziato a lavorare grazie al passaparola.

Fotografia naturalistica: preferisci ottenerla solo con luce naturale o con diverse luci artificiali?

Direi che anche lontano dal set preferisco usare la luce naturale. Mi sento molto più a mio agio a lavorare con quello che ho davanti.

Curi tu la post-produzione delle tue foto?

Si, perché il lavoro deve essere mio al 100%. Anche se il fotografo di scena deve consegnare i file raw alla produzione e poi ci penserà il reparto marketing a fare il loro editing, io dò sempre delle foto con la mia color correction e molto spesso finiscono per usare quelle.

Il primo vero e importante rimprovero che hai ricevuto durante un lavoro ma che ti ha insegnato qualcosa di fondamentale sul tuo mestiere.

Credo che sia stato quando ho iniziato nella prima agenzia, l’Iguana Press di Bologna. Roberto Serra, il proprietario dell’agenzia, alla consegna delle foto del mio primo concerto, mi insegnò “due cose”, che mi ricorderò per sempre e che hanno segnato totalmente il mio modo di costruire l’immagine. Mi disse che non c’era cosa più brutta di un’inquadratura sbagliata. È importante lo spazio che si dà al soggetto: non troppa aria sulla testa, spazio e destra o a sinistra a seconda dello sguardo del soggetto e soprattutto MAI il microfono davanti alla faccia! Insegnava Educazione all’Immagine a Scienze della Comunicazione e ogni tanto andavo ad assistere alle sue lezioni. Davvero interessantissime, tanto che fosse per me metterei l’insegnamento di questa disciplina nelle scuole elementari.

Stefania Rasini Zero Zero Zero
Backstage di “Zero Zero Zero”.

Chi come noi fa cinema spesso non pensa ad altro e non ha il tempo di godersi altro. Ma dimmi cosa preferisci allo stare sul set.

Adoro il cinema e i concerti, non vedo l’ora di poterci andare di nuovo, qualsiasi film e concerto siano di sicuro mi metterò a piangere dalla commozione. Adoro la pizza, sono italiana after all! E da qualche anno (meglio tardi che mai) ho iniziato a fare kickboxing. Adoro come mi sento ogni volta alla fine di una lezione e come si sta trasformando il mio corpo.

Il collega che “odi” di più, perché è troppo bravo?

Odio no, ma tantissima invidia sì per il fotografo di scena Niko Travernise (@nikotravernise). Riconoscerei le sue foto tra mille, adoro il suo stile e poi lavora su tutti i set in cui vorrei lavorare io! Un’altra fonte inesauribile di ispirazione e aiuto costante nel mio lavoro è il  mio mentor Hopper Stone, il presidente della Society of Motion Picture Stills Photographers (SMPSP), di cui faccio fieramente parte dal 2018 (@hopper_stone). Di fotografi Italiani stimo molto Francesco Prandoni (@francescoprandoni), amico e fotografo di Live Music. Dei colleghi fotografi di scena massima stima per Andrea Miconi (@anrea.miconi) ed Emanuela Scarpa (@scarpaemanuela).

 

 

 

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Venezia 75: Capri-Revolution, un ritratto al femminile di Mario Martone https://www.fabriqueducinema.it/festival/venezia-75-capri-revolution-un-ritratto-al-femminile-di-mario-martone/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/venezia-75-capri-revolution-un-ritratto-al-femminile-di-mario-martone/#respond Thu, 06 Sep 2018 17:27:24 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11271 Quest’isola compare e scompare continuamente alla vista e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie. In questo mondo troppo conosciuto è l’unico luogo ancora vergine e che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo. Con queste parole della scrittrice italiana Fabrizia Ramondino inizia Capri-Revolution (qui il trailer ufficiale), ultimo lungometraggio italiano in concorso […]

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Quest’isola compare e scompare continuamente alla vista
e sempre diverso è il profilo che ciascuno ne coglie.
In questo mondo troppo conosciuto è l’unico luogo ancora vergine
e che ci attende sempre, ma solo per sfuggirci di nuovo.

Con queste parole della scrittrice italiana Fabrizia Ramondino inizia Capri-Revolution (qui il trailer ufficiale), ultimo lungometraggio italiano in concorso nella Selezione Ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia. Siamo nel 1914 e, con lo spettro sempre di un’imminente guerra, la giovane Lucia, unica figlia di una famiglia di pastori, passa le giornate portando a pascolare il bestiame, tra le montagne della celebre isola del Golfo di Napoli. Stanca dell’arretratezza mentale dei suoi famigliari e dei suoi compaesani, un pomeriggio decide di avvicinare Seybu, il capo spirituale di un gruppo di intellettuali dediti alla natura e alla libertà di pensiero. Nonostante il parere contrario dei fratelli, Lucia stringe un legame sempre più forte con l’uomo e i suoi compagni, scoprendo gradualmente una forza interiore che le permetterà di trovare la propria indipendenza.

capri

In uscita nelle sale italiane a Natale, Capri-Revolution segna il ritorno dietro la macchina da presa di Mario Martone, dopo tre anni dal corto Pastorale cilentana e dopo quattro dal successo de Il giovane favoloso con Elio Germano. In continuità con il passato del regista, questo nuovo lungometraggio pone l’accento fin dalle prime sequenze sul paesaggio, che diventa il vero protagonista della narrazione. Grazie alla fotografia di Michele D’Attanasio e alle scenografie di Giancarlo Muselli, gli scorci montani e marittimi dell’isola di Capri si tingono di una luce nostalgica, che riesce paradossalmente a confermare e a contrapporsi ad un mondo antico ormai – almeno teoricamente – non più così diffuso. Se il tema dell’arretratezza è imperante nella narrazione degli eventi e nella caratterizzazione dei personaggi, tale elemento non è dunque totalizzante nella messa in scena, che guarda al passato come ad una realtà non da riproporre concretamente, ma almeno da ricordare.

Nelle strade e nei sentieri di una Capri malinconica, si muove poi un personaggio inconsueto: Lucia, modello archetipico di una femminilità indipendente, rompe con qualsiasi schema pregresso, rovesciando le logiche culturali che la imprigionavano e aprendosi ad una realtà che le è maggiormente consona. Da questo punto di vista, Capri-Revolution è una storia molto moderna: tralasciando azzardati paragoni con la società contemporanea, Martone rappresenta un ritratto al femminile estremamente controcorrente, la cui riuscita è merito anche della convincente Marianna Fontana, vista in Indivisibili di Edoardo De Angelis. Seppur funzionale per le logiche del racconto, tale focalizzazione appare però sbilanciata rispetto alle linee narrative secondarie come quella dei fratelli o della problematica Lilian, che nella parte conclusiva del lungometraggio si perdono in conclusioni sbrigative o completamente assenti.

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Sempre nella seconda ora, più illuminata è invece la decisione di introdurre un tema difficile come quello della Prima Guerra Mondiale che, in modo non eccessivamente marcato, sconvolge il racconto, portando la protagonista a perdere le proprie certezze e a maturarne altre. Non sacrificando il proprio stile velatamente malinconico, Mario Martone gioca quindi sulla figura femminile fino alla fine, permettendo allo spettatore – uomo o donna che sia – di immedesimarsi con un’eroina tanto moderna quanto implicitamente ancorata al passato, senza sfociare in un pericoloso anacronismo.

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