Micaela Ramazzotti Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 18 Jun 2021 15:52:35 +0000 it-IT hourly 1 Una storia senza nome, quando il cinema racconta il cinema https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/una-storia-senza-nome-quando-il-cinema-racconta-il-cinema/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/una-storia-senza-nome-quando-il-cinema-racconta-il-cinema/#respond Fri, 21 Sep 2018 13:30:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11348 “Il cinema è un’invenzione senza avvenire”: questa frase è stata originariamente pronunciata da Antoine Lumière, padre dei celebri fratelli Louis e Auguste, e compare sotto forma di lampada al neon nell’ultimo lungometraggio italiano presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Una storia senza nome – uscito nelle sale italiane il 20 settembre – ha infatti avuto […]

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“Il cinema è un’invenzione senza avvenire”: questa frase è stata originariamente pronunciata da Antoine Lumière, padre dei celebri fratelli Louis e Auguste, e compare sotto forma di lampada al neon nell’ultimo lungometraggio italiano presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Una storia senza nome – uscito nelle sale italiane il 20 settembre – ha infatti avuto l’arduo compito di chiudere fuori concorso la rassegna di pellicole tricolore che tra la Selezione Ufficiale, le Giornate degli Autori, Orizzonti e la Settimana Internazionale della Critica hanno riccamente popolato gli schermi del Lido veneziano.

Orchestrato come un gioco di scatole cinesi, la nuova fatica di Roberto Andò è un’opera meta-filmica, che racconta senza prendersi sul serio il mondo che si nasconde dietro l’industria cinematografica italiana. La protagonista Valeria è la segretaria di un produttore e arrotonda il misero stipendio scrivendo segretamente per Alessandro, celebre sceneggiatore nonché suo grande amore. La vita della giovane è totalmente sconvolta quando un misterioso uomo la contatta, invitandola a vedersi per discutere di una storia che lui vorrebbe che scrivesse. Impaurita ma anche incuriosita, Valeria decide dare appuntamento all’interlocutore, senza sapere che quello sarà solo l’inizio di un’avventura ai limiti del possibile.

una storia senza nome

Prodotto leggero e pensato per il grande pubblico, Una storia senza nome (qui il trailer ufficiale) è un film sicuramente azzardato e rischioso, che tenta di divertire sia nella storia raccontata, sia nei toni della messa in scena. La narrazione non è anzitutto prettamente lineare, dato che alterna momenti al presente, flashback in bianco e nero e sequenze meta-cinematografiche. Sebbene questo ibridismo non provochi confusione, le parti realistiche non possono sempre essere definite tali, perché elementi involontariamente inverosimili puntellano il succedersi degli eventi, lasciando trasparire l’assenza di una struttura narrativa forte. I caratteri tipici della commedia non bastano per salvare le sequenze più illogiche, che spesso si concludono con risoluzioni sbrigative o inconsistenti.

Anche la caratterizzazione dei protagonisti è volutamente limitata: preferendo ragionare sui personaggi in quanto maschere (come ad esempio l’ingenua, la sgualdrina, l’egocentrico, ecc.), Andò non desidera dipingere figure a tutto tondo. Ciò riecheggia la bidimensionalità tipica della tradizione teatrale italiana, che oggi però appare innegabilmente anacronistica. In questo micro-cosmo quasi parodistico, si muovono Micaela Ramazzotti, ormai legata al ruolo dell’eroina un po’ naif, e Alessandro Gassmann, inguaribile playboy propenso alla truffa. A rubare la scena sono tuttavia altri due bravi interpreti del cinema italiano, che qui vestono i panni rispettivamente dell’enigmatico detective e della madre impicciona: il primo è Renato Carpentieri, premiato agli ultimi David di Donatello grazie a La tenerezza di Gianni Amelio, mentre la seconda è Laura Morante, vista al Lido anche con La profezia dell’Armadillo.

una storia senza nome

Tornando a quanto detto all’inizio, la messa in scena e il conseguente montaggio possono invece essere considerati il secondo azzardo del progetto. Proprio a causa del già citato intreccio tra sogno e realtà, la linea narrativa si caratterizza infatti di toni differenti a seconda del momento, che spesso però appaiono eccessivamente artificiosi. Anche le sequenze del quotidiano non si caricano di uno sguardo autoriale realmente preciso, provocando un senso di anonimia rappresentativa. Da contro, Andò riesce a orchestrare il ritmo in modo estremamente coinvolgente, permettono allo spettatore di seguire con interesse la storia. L’intrattenimento del pubblico sembra dunque essere lo scopo principale di quest’ultima fatica firmata dal regista palermitano che, nonostante gli innegabili problemi, riesce a divertire e a coinvolgere chiunque la guardi.

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“Una famiglia”: Riso amaro a Venezia 74 https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/famiglia-riso-amaro-venezia-74/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/famiglia-riso-amaro-venezia-74/#respond Tue, 05 Sep 2017 12:06:48 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9202 Dopo Più buio di mezzanotte, sorpresa della Semaine de la critique a Cannes nel 2014, avevamo tutti grandi aspettative nei confronti del lavoro di Sebastiano Riso. Eppure da quel film si porta dietro solo Micaela Ramazzotti, come protagonista, e Pippo Delbono, per pochi minuti. La forza della messa in scena della realtà senza rinunciare a […]

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Dopo Più buio di mezzanotte, sorpresa della Semaine de la critique a Cannes nel 2014, avevamo tutti grandi aspettative nei confronti del lavoro di Sebastiano Riso. Eppure da quel film si porta dietro solo Micaela Ramazzotti, come protagonista, e Pippo Delbono, per pochi minuti. La forza della messa in scena della realtà senza rinunciare a fare cinema, a disegnare immagini e traiettorie visive e narrative, però, rimane tutto in quello splendido e durissimo esordio.

In Una famiglia, selezionato abbastanza incomprensibilmente in concorso a Venezia 74, non c’è la potenza di quello sguardo, l’urgenza di quel racconto, ma solo la ricerca di una storia disturbante, posticcia, insopportabile sia per una scrittura piena di lacune che per una regia supponente e dedita a virtuosismi nel migliore dei casi pleonastici.

Micaela Ramazzotti e Patrick Bruel in una scena del film "Una famiglia"

Il soggetto era sì rischioso, ma allo stesso tempo esplosivo: una coppia che si ama di una passione sorridente e potente, di gesti teneri e corpi pieni di desiderio sembra alla ricerca del coronamento della propria felicità. Dietro quella rincorsa, però, c’è ben altro, un abisso difficile anche solo da immaginare. E se il film tiene, per qualche decina di minuti (ma probabilmente neanche in quelli) è solo perché Patrick Bruel, il protagonista maschile, riesce a dare un minimo di spessore al suo personaggio e quindi anche alla storia. Non ci riesce, purtroppo, Micaela Ramazzotti, brava nel suo ruolo che è però viziato da dialoghi e (re)azioni assolutamente inadeguate anche ad un amore cieco come quello di Maria: in un ruolo materno così deviato e dolente, serviva l’istinto puro di quest’attrice che sa dare il meglio quando indossa personaggi scomodi e non quand’è costretta a interpretare una donna impossibile, irreale, irritante. È generosa la Ramazzotti nel darsi a un ruolo che non la meritava.

È interessante l’uso della macchina da presa, molto presente e a tratti irruenta, non alla Kechiche ma comunque spesso addosso ai protagonisti, in particolare a lei, e così risulta pregevole il lavoro di Piero Basso – direttore della fotografia e qui anche operatore -, sebbene poi si perda negli arzigogoli creativi del film che coinvolge anche la grammatica visiva del film, sempre più calligrafica man mano che va avanti.

Non riesci a credere nell’oscuro cavaliere Vincent, cinico portatore di vita e morte e allo stesso tempo in attesa di salvare damigelle in pericolo per poi portarle con lui nell’oscurità e farle vivere infelici e scontente (che spreco la brava Matilda De Angelis nel ruolo incompiuto e marginale di “riserva”), non riesci a soffrire per Maria, troppo ingenua e succube, incapace di trovare se stessa ma solo di specchiarsi, deformandosi, in lui, urlandogli contro, ma poi servendolo cieca. C’è forse in Fortunato Cerlino e ancora di più in Ennio Fantastichini – che attore! – un barlume, un momento importante che nasce dai rispettivi talenti, capace di dare tridimensionalità laddove non c’è.

Micaela Ramazzotti in una scena del film "Una famiglia"

Una famiglia è la dimostrazione di quanto i giovani autori italiani a volte tendano a rinchiudersi in un cinema autoreferenziale, completamente distaccato dal pubblico e dal mondo (assomigliano, in questo, ai colleghi degli anni ’90), fortemente schematico e pregiudiziale. Quando non è noioso, Una famiglia diventa grottesco, in particolare nelle metafore ridicole (il Cupolone in lontananza sulla tirata anti vaticano farebbe diventare simpatico Adinolfi) o in scene tragiche che non tengono la tensione emotiva.

Riso forse, con questo secondo film, fa anche un giusto atto di arroganza artistico: sa di avere talento e tenta la scommessa rischiosa, non la crescita graduale. La sua caduta è fragorosa, ma noi aspettiamo che ricominci da tre. E si rialzi.

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Cannes 2016/ “La pazza gioia” di Virzì emoziona il festival https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/cannes-2016-la-pazza-gioia-di-virzi-emoziona-il-festival/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/cannes-2016-la-pazza-gioia-di-virzi-emoziona-il-festival/#respond Sun, 15 May 2016 09:24:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3151 Salutato con un lungo applauso al termine della proiezione, l’ultimo lungometraggio del regista livornese alterna felicemente dramma e commedia e si alimenta delle ottime interpretazioni delle protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti (guarda il trailer). Più di qualcuno se lo aspettava in concorso e, ora che lo abbiamo visto, possiamo affermare che il film […]

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Salutato con un lungo applauso al termine della proiezione, l’ultimo lungometraggio del regista livornese alterna felicemente dramma e commedia e si alimenta delle ottime interpretazioni delle protagoniste Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti (guarda il trailer).

Più di qualcuno se lo aspettava in concorso e, ora che lo abbiamo visto, possiamo affermare che il film non avrebbe affatto sfigurato in gara per la Palma d’Oro. A ogni modo, visto il livello di quest’anno della Quinzaine des Réalisateurs (tra gli altri, ci sono i lavori di Larraín, Bellocchio, Jodorowski), Paolo Virzì non ha davvero nulla di cui lamentarsi.

Ne La pazza gioia il cinquantaduenne cineasta tratteggia con delicatezza, senza scadere mai in forzature o patetismi, la storia di Beatrice e Donatella, donne con seri problemi psichiatrici che decidono di scappare dalla casa di cura in cui si trovano nella speranza di dare una svolta alla propria esistenza, tornando a provare l’ebbrezza di una vita più libera. Coadiuvato in fase di scrittura dalla regista e sceneggiatrice Francesca Archibugi, Virzì narra il tormentato ma vitale percorso di crescita delle due, così diverse tra loro per storia personale, carattere ed estrazione sociale, con uno sguardo appassionato e coinvolgente che ha il notevole pregio di rifuggire ogni tipo di edulcorazione o banalizzazione.

Come già visto ne La prima cosa bella (2010), quella che ancora oggi può essere considerata la sua opera più profonda e toccante, anche qui l’autore livornese mostra un indiscusso talento nell’alternare i toni della commedia e del dramma. Non rinunciando a un affascinante ed efficace approccio ironico anche nel mettere in scena una storia al fondo così tragica.

La regia come sempre è misurata, essenziale e del tutto estranea a tentazioni di carattere virtuosistico. D’altronde non si può dire che Virzì sia mai stato molto interessato alla ricercatezza formale. Ciò a cui ha dato assoluta priorità, fin all’inizio della propria carriera, è stato infatti lasciare il maggiore spazio possibile agli eventi narrati e agli interpreti. A proposito di questi ultimi, il regista in questa nuova fatica rivela per l’ennesima volta di essere un ottimo direttore di attori: Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti, nei panni rispettivamente dell’esuberante bipolare Beatrice e della gravemente depressa Donatella, forniscono delle prove particolarmente convincenti, dando forma con umanità alle tensioni emotive che muovono le protagoniste.

Dopo l’inaspettata incursione nel dramma corale con Il capitale umano (2013), Virzì è tornato a un tipo di cinema a lui tradizionalmente più vicino e La pazza gioia si inserisce di diritto tra i suoi lavori migliori, confermandolo tra i registi italiani di maggior valore tra quelli emersi nella metà degli anni Novanta.

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