Matteo Rovere Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:09:55 +0000 it-IT hourly 1 Supersex: anche il porno è stato bambino https://www.fabriqueducinema.it/serie/supersex-anche-il-porno-e-stato-bambino/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/supersex-anche-il-porno-e-stato-bambino/#respond Thu, 07 Mar 2024 13:20:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18990 Era una delle serie italiane Netflix più attese dell’anno Supersex, disponibile online dal 6 marzo. Sette episodi ispirati alla vita di Rocco Siffredi, icona del porno interpretata da Alessandro Borghi. L’attore romano ne carpisce l’anima rimodulando sul suo volto lo sguardo intenso e la risata larga un po’ obliqua del pornostar, lati noti di Siffredi. […]

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Era una delle serie italiane Netflix più attese dell’anno Supersex, disponibile online dal 6 marzo. Sette episodi ispirati alla vita di Rocco Siffredi, icona del porno interpretata da Alessandro Borghi. L’attore romano ne carpisce l’anima rimodulando sul suo volto lo sguardo intenso e la risata larga un po’ obliqua del pornostar, lati noti di Siffredi. Ma la novità sono le inquietudini e le fragilità di un uomo che è stato prima di tutto bambino e ragazzo, sempre attratto dalle donne fin quasi all’ossessione, ma perseguitato dai suoi demoni del passato.

Si parte da una sua crisi del 2004 per dei flashback che ci mostrano l’infanzia e poi l’adolescenza di un ragazzo abruzzese cresciuto in una casa popolare di Ortona assieme a una famiglia numerosa, ma destinato a diventare un divo. Prima tappa del suo cammino Parigi, ospitato dal fratello maggiore dal volto rude di Adriano Giannini. «L’amore è difficile, Rocco. Tu hai quegli occhi buoni e parli dell’amore, ma manco sai cos’è». Gli dirà la moglie del fratello impersonata da Jasmine Trinca. Con loro si costruisce il principale nucleo di relazioni e contrasti. Il giovanissimo Rocco guarda come esempio il fratellone e custodisce fin da bambino il suo giornalino erotico Supersex come il Don Abbondio di Manzoni teneva al suo breviario. Tutt’intorno si svilupperanno il legame con il cugino manager e lucignolo con il volto di Enrico Borrello, la professionalità del pornoattore con il suo primo mentore, il pornostar francese Gabriel Pontello, con il produttore italiano Riccardo Schicchi e con l’icona nonché amica dispensatrice di piccole saggezze erotiche Moana Pozzi, interpretata con molta verità nel suo fascino un po’ flemmatico da Gaia Messerklinger. La relazione più combattuta e tenera è invece con la madre impersonata da Tania Garribba, mentre una vera sorpresa toccante sarà l’amicizia importante con l’attore Franco Caracciolo, caratterista di tante commedie sexy degli anni ottanta, che ha il volto dell’ottimo Mario Pirrello.

Tra le elucubrazioni di un eroe oscuro, il delirio del sesso attraverso i labirinti del desiderio e gli affetti che hanno circondato il protagonista durante il suo cammino, la sceneggiatura di Francesca Manieri tesse insieme un reticolo complesso di contrasti emotivi, introspezioni, conflitti interni e tra i personaggi che va ben oltre la pornografia. La Manieri ha scritto film, tra gli altri, per Laura Bispuri, Valentina Pedicini ed Emanuele Crialese. Il suo tocco gentile si sente in moltissimi passaggi, assumendosi come lei stessa ha dichiarato «il rischio e il privilegio di raccontare il maschile partendo da un maschio che del maschile occidentale è diventato senza dubbio emblema». Ed è questa forse la vera arma vincente di Supersex. Poi c’è ovviamente l’epopea del porno. Lo chiama potere, superpotere, il Rocco diretto da Matteo Rovere, Francesco Carrozzini e Francesca Mazzoleni. «Il cazzo è un pensiero. Non ero pronto per il soft ma non ero nemmeno pronto per l’hard». O anche, all’apice del successo: «Era così forte quello che vendevamo, che la Chiesa, lo Stato, le guardie, erano tutti contro di noi». Dirà la voce off di Rocco/Borghi.

SupersexNon mancano scene forti, ma questa serie rimane ben allineata tra i prodotti Netflix. In Italia è molto difficile parlare di sesso, ma su una piattaforma ramificata in 190 paesi la questione cambia. E Groenlandia espandendosi in varie direzioni dell’audiovisivo ha aggiunto alle sue produzioni un tassello piuttosto sostanzioso. Non propone in realtà molte idee di macchina da presa Supersex, ma compensa con l’ottima direzione e ricerca attoriale. Presenta una patinatura un po’ sognante sull’infanzia e la giovinezza, dove il ruolo di Rocco è coperto da un energico Saul Nanni, mentre la fotografia sul Rocco in crisi degli anni 2000 assume più profondità visiva. Inoltre racconta a modo suo un po’ di Abruzzo attraverso il dialetto tutto sommato ben proposto, pur con il paese natale del protagonista, Ortona, che viene inquadrato soltanto nelle panoramiche aeree, venendo ricostruito sui set del Trullo e di Ostia, quartieri di Roma.

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Come pecore in mezzo ai lupi: anche in Italia l’action è donna https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/come-pecore-in-mezzo-ai-lupi-anche-in-italia-laction-e-donna/ Fri, 28 Jul 2023 10:11:10 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18631 Finalmente un’italiana con il bel vizio del cinema action: nel suo esordio Come pecore in mezzo ai lupi (in sala in questi giorni) Lyda Patitucci ha fatto studiare il serbo a Isabella Ragonese, poliziotta infiltrata in una pericolosa banda di slavi per sventare un grosso colpo. Caso tragico, come partner in crime si ritroverà il […]

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Finalmente un’italiana con il bel vizio del cinema action: nel suo esordio Come pecore in mezzo ai lupi (in sala in questi giorni) Lyda Patitucci ha fatto studiare il serbo a Isabella Ragonese, poliziotta infiltrata in una pericolosa banda di slavi per sventare un grosso colpo.

Caso tragico, come partner in crime si ritroverà il fratello squattrinato, e solo fingere di non conoscersi potrà salvarli. Lui è Andrea Arcangeli, che per la regista ferrarese è dimagrito dopo Romulus come un piccolo Christian Bale. E tra loro una talentuosa attrice bambina. Mentre Tommaso Ragno impersona il loro padre sfuggente e fanatico religioso.

«Non tutto nella vita va esplicitato e formalizzato» per Lyda, poiché i suoi personaggi si presentano asciugati in un passato stilizzato. Il suo obiettivo è farci precipitare nel «senso del pericolo, della minaccia costante. Nessuno è mai al sicuro». Vera, il personaggio di Ragonese, fugge dalle relazioni, dal fratello in primis e usa la chiusura per rompere i rapporti. «Vera risulta sempre nascosta e compressa. Cerco di usare elementi esterni a lei per raccontarla. Suoni, riflessi della sua personalità in altri personaggi specchio». Così ha girato un crime oscuro, pieno di proiettili, pugni, inseguimenti e doppiogiochisti.

In Veloce come il vento, Smetto quando voglio – Masterclass, Il primo re, Il campione eri la seconda unità alla regia. Come cambia il lavoro quando diventi tu la regista?

Tra seconda unità e la mia regia c’è un cuscinetto di transizione di due serie tv che ho diretto, Curon e Vostro Onore. Ma la seconda unità è molto tecnica poiché ti allinea alla visione dei registi. Girando in contemporanea con stunt, effetti e scene complesse. La differenza vera è che si lavora meno con gli attori. Assorbe una quantità di tempo e risorse davvero enorme nella preparazione, sul set e in postproduzione. Con Matteo Rovere in Veloce come il vento ho eseguito tutta la parte delle corse in auto: mentre Matteo girava tutto il resto io giravo le ricostruite nel circuito. Nel Primo re invece ho pianificato e orchestrato le battaglie. Matteo seguiva Remo e io il resto. Poi in Smetto quando voglio abbiamo lavorato molto sull’assalto al treno, sugli inseguimenti e gli incidenti. Lì ho fatto un lavoro molto preciso di pre-visualizzazione: mentre Sydney Sibilia sviluppava la commedia con gli attori, io gestivo gli stunt. Nel Campione c’era invece tutto un altro lavoro: il regista Leonardo De Agostini aveva fatto tutta la programmazione delle scene di calcio, mentre io ho seguito allenamenti e partite. Nel mio lavoro mi sono ritrovata a gestire piloti e stuntman, quindi per me tecnicamente non c’è differenza nel coreografare una battaglia o una partita di calcio. Unisco sul set le competenze sul cinema con quelle sulla materia, perché la seconda unità dev’essere malleabile in funzione al lavoro del regista. Sia su film che su serie, le buone collaborazioni tra registi sono molto virtuose e vantaggiose. In Curon ad esempio ho diretto gli ultimi tre episodi e Fabio Mollo i primi quattro. Lui è molto più intimista e lavora sulla recitazione e gli attori, io giravo tanto in acqua e in montagna.

Come pecore in mezzo ai lupi
Andrea Arcangeli e Carolina Michelangeli.

L’intreccio di action e drammaturgia per te è una delle cose più importanti.

Sono i film che mi piace vedere. Mi piace che succedano le cose, che la gente si muova, lotti. Amo mettere in condizioni estreme i miei personaggi per tirarne fuori aspetti interessanti. Sono storie che non mi appartengono, perciò m’incuriosiscono di più.

Come pecore ci sussurra che l’emotività di una donna forse è un difetto nel mondo dei maschi.

Questa è la chiave di Vera, la protagonista. Il suo punto di vista. Ma nella realtà l’emotività non è mai un difetto. Al contrario, il più aperto alle emozioni è Bruno, il fratello. E in questo è lui a dare la lezione più positiva, che nell’incontro con l’altro ci può essere una speranza.

Sei stata definita una Kathryn Bigelow italiana, ma quali sono le registe e i registi che segui di più?

È molto difficile rispondere perché la quantità di registi che amo è infinita. Sulla parte femminile oltre la Bigelow, che è stata l’unico modello per generazioni di donne che volevano fare questo lavoro e non ci sono riuscite, c’è Jane Campion, ma quando ero piccola impazzivo per il fatto che Pet Sematary – Cimitero vivente, fosse diretto da una donna. Quello della regia è un percorso molto particolare, difficile e poco incasellabile dove tutto ti dice “fai qualcos’altro”, quindi se ti distrai un attimo, anche per vivere semplicemente, smetti di seguirlo questo mestiere. Secondo me è così che molte donne non sono diventate registe. Purtroppo siamo in un mondo maschio-centrico. Per fortuna che ultimamente son venute fuori anche registe ascrivibili a modi di fare cinema più estremi, come Julia Ducournau, che è molto vicina a Cronenberg.

Nel tuo cast hai una piccola attrice, Carolina Michelangeli. Il suo personaggio, senza spoilerare, affronta dei traumi emotivi fortissimi. Come avete lavorato con lei?

Abbiamo fatto un cast molto lungo partendo da un bacino di centinaia di persone. Carolina aveva esperienza sul set per un film di Laura Bispuri, ma Andrea Arcangeli, che doveva fare suo padre, è stato molto disponibile affiancandomi nei provini per verificare l’intesa tra bambina e adulto. Pensa che sul set aveva 8 anni e mezzo, come Marta. Carolina ha perfetta consapevolezza della finzione cinematografica, è stata molto rigorosa nel calarsi giocando col suo ruolo anche perché è abituata alla disciplina dalla ginnastica artistica. Ha un tratto caratteriale simile al suo personaggio, ma al contrario di Marta la sua famiglia la segue senza mai forzarla. Cosa importantissima per i bambini attori. È piccina e in parte fragile, ma è anche molto tosta. Nei suoi piani d’ascolto, ad esempio, ha la capacità di far capire allo spettatore la scena come solo i bravi interpreti sanno fare.

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Mixed by Erry: quei bravi ragazzi di Sydney Sibilia https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/mixed-by-erry-quei-bravi-ragazzi-di-sydney-sibilia/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/mixed-by-erry-quei-bravi-ragazzi-di-sydney-sibilia/#respond Wed, 01 Mar 2023 13:59:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18241 Chi tra i nati prima del 1985 non ha mai ascoltato un’audiocassetta musicale non originale, registrata? Magari doppiata da un amico o comprata su una bancarella. O forse solo decantata da genitori nostalgici ancora fieri di antichi stereo e oramai sorpassati soprammobili al tempo di Spotify. Gli album e le compilation pirata di una volta, […]

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Chi tra i nati prima del 1985 non ha mai ascoltato un’audiocassetta musicale non originale, registrata? Magari doppiata da un amico o comprata su una bancarella. O forse solo decantata da genitori nostalgici ancora fieri di antichi stereo e oramai sorpassati soprammobili al tempo di Spotify. Gli album e le compilation pirata di una volta, quei supporti fisici che erano la musica negli anni ’80, videro il fenomeno tutto partenopeo di Mixed by Erry. Tre ragazzi, i fratelli Frattasio, iniziarono quasi per caso a copiare e vendere cassette musicali a Forcella, poi l’exploit che divenne business perché nelle personalizzazioni di Erry, i loro amici si ritrovavano canzoni extra e rimandi ad artisti e generi musicali nuovi per approfondirli con altri acquisti. Altre cassette. Altro business.

Anche con il suo precedente L’incredibile storia dell’Isola delle Rose il regista Sydney Sibilia raccontava di un curioso evento di cronaca, a cavallo tra anarchia e poesia. Qui invece Erry, Enrico, insieme ai suoi fratelli Peppe e Angelo infrange con spensieratezza tutte le regole sul Diritto d’Autore, materia che in quegli anni ancora non acquisiva l’istituzionalità delle maiuscole.

Questo film ci parla a diversi livelli. C’è la storia di una famiglia che vive d’espedienti, tre fratelli legatissimi e in ascesa un po’ come Quei bravi ragazzi di Scorsese, ma in salsa comedy. Luigi D’Oriano, Erry, potrebbe corrispondere al De Niro leader; Giuseppe Arena, Peppe, il fratello maggiore e anche il più posato e responsabile, a Liotta; e alla scheggia impazzita Pesci somiglia per certi versi il personaggio del piccolo di casa, quindi Emanuele Palumbo. I tre giovani talenti innestano un motore dai tempi comici perfetti. Il gatto e la volpe a due tempi, sono però Adriano Pantaleo, nei panni del papà traffichino dei ragazzi, e Fabrizio Gifuni, manager milanese e inamidato che li porterà oltre ogni sogno più sfrenato. La loro nemesi trova invece il muso e l’irresistibile toupet di Francesco Di Leva nei panni del finanziere che indaga sui protagonisti.

Con leggerezza Sibilia sfiora anche stragi di camorra di quegli anni senza mai perdere il timone della commedia intelligente e d’intrattenimento. Ci mostra il celebre fuoco d’artificio, il Pallone di Maradona, prima che venisse battezzato, gli interni del Teatro Ariston di Sanremo durante il Festival, immagini dal primo scudetto del Napoli e di repertorio fuse con il lavoro scenografico dal sapore pop niente male di Tonino Zera. Apre al pubblico del 2023 e soprattutto ai suoi millenials i vicoli di una storia tappezzata di poster di Cioè sui muri delle camerette degli adolescenti, motorini, cuffiette e musica. Racconta l’esigenza della musica, la mancanza della musica dove non c’erano negozi di dischi, la proverbiale arte di arrangiarsi del Sud e quella fiducia nel futuro che caratterizzava quegli anni. In verità i Frattasio sono stati antesignani di Napster, ma utilizzavano già rimandi e suggerimenti in stile Spotify. Del resto Erry lo dice candidamente: “Io volevo solo fare il Dj”.

Mixed by ErryIl film targato Groenlandia, quindi della premiata ditta Sydney Sibilia – Matteo Rovere, esce al cinema il 2 marzo. Belle queste nuove scorpacciate vintage di anni ’80 che mostrano Napoli nella sua vitalità, nei suoi colori e nelle sue speranze. A partire dalla Mano di Dio di Sorrentino, la serie La vita bugiarda degli adulti, e approdando ora a Mixed by Erry. Chissà cosa ne avrebbe pensato Nanni Loy, che di truffaldine trovate napoletane ne raccontò così tante proprio in quegli anni.

 

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Settembre, una commedia romantica con le giuste dosi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/settembre-una-commedia-romantica-con-le-giuste-dosi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/settembre-una-commedia-romantica-con-le-giuste-dosi/#respond Sat, 07 May 2022 11:30:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17176 La fine dell’estate indica spesso un tempo in cui si fanno dei bilanci della stagione passata e si pianifica quella seguente. Ma tutto questo, a volte, può essere indiscutibilmente un peso, che finisce per far esaurire le energie in partenza, portando a stati d’animo come rassegnazione, malinconia e soprattutto attesa. Di fronte al mese di […]

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La fine dell’estate indica spesso un tempo in cui si fanno dei bilanci della stagione passata e si pianifica quella seguente. Ma tutto questo, a volte, può essere indiscutibilmente un peso, che finisce per far esaurire le energie in partenza, portando a stati d’animo come rassegnazione, malinconia e soprattutto attesa. Di fronte al mese di settembre, il Capodanno dell’anno scolastico e lavorativo, c’è bisogno di uno “scossone” che permetta di mettere a fuoco l’obiettivo di vita più prossimo e che l’estate ha solo messo in pausa. È di questo che vuole parlare Giulia Louise Steigerwalt, sceneggiatrice e regista di Settembre, un titolo che a tal proposito si pone come la metafora dell’inizio di un viaggio, magari neanche pianificato e che non si sa dove porterà. Prodotto da Matteo Rovere con la sua Groenlandia, è nelle sale italiane dal 5 maggio.

In una Roma che sta ancora dissipando il calore estivo si intrecciano tre storie dal respiro quotidiano, osservate con sincerità e delicatezza. C’è la vicenda di Guglielmo (Fabrizio Bentivoglio), medico divorziato e di Ana (Tesa Litvan), giovane sex worker, entrambi degli “sfigati” nelle parole di quest’ultima, innamorata di Matteo (Enrico Borello), che completa il triangolo della storia forse meno lucida e convincente nel suo sviluppo. Meglio le altre due, più vibranti nei confronti dei temi che trattano e affinate con un umorismo decisamente gradevole. Da una parte si ha un racconto di amore adolescenziale tra Maria (Margherita Rebeggiani) e Sergio (Luca Nozzoli), ben realizzato, in quanto riesce a restituire con brillantezza tappe e sottigliezze della prima maturazione sentimentale e sessuale; dall’altra ci sono i genitori di Sergio: Francesca (Barbara Ronchi), confinata in una vita familiare compromessa da un marito rude e assente (Andrea Sartoretti), e che trova una consolazione sempre più profonda solo nell’amica Debora (Thony).

La varietà dei personaggi, anche e soprattutto sotto il profilo anagrafico, rende il film capace di parlare ad ogni fascia di pubblico, dal momento che fornisce una serie di situazioni, piccole e grandi, in cui è facile rispecchiarsi: che si tratti di scegliere tra una bicicletta e un motorino per un adolescente o fra una vita tradizionale in casa e la propria indipendenza e libertà affettiva per una donna. A rendere vivide tutte queste figure concorrono primariamente i dialoghi, particolarmente incisivi sul fronte comico e che puntellano i personaggi in modo chiaro ed efficace, consegnando un ritmo piacevole al film, che viaggia con disinvoltura senza perdersi in momenti che possano sembrare superflui. Quella di Steigerwalt è nel complesso una scrittura equilibrata e puntuale, con pezzi leggeri ben integrati ad altri più seri, nel perfetto ordine della commedia romantica con cui l’autrice firma il suo esordio alla regia.

Il risultato finale è quello di un ritratto spensierato di vite quotidiane, moderatamente progressista nei temi e, non secondariamente, capace di divertire. Settembre è popolato da vite in stallo che aspettano l’occasione offerta dal “dramma generale” (per usare le parole di Francesca) per cambiare binario, fare ciò che fino al giorno prima non si era capaci di fare. Del resto, il dramma è motore, e una volta che entra in una qualunque monotonia, che sia sotto forma di rivale, aiutante, minaccia o sospetto, permette di diventare protagonisti attivi della propria vita.

 

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Il cattivo poeta: Sergio Castellitto fa rivivere Gabriele D’Annunzio https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/il-cattivo-poeta-sergio-castellitto-fa-rivivere-gabriele-dannunzio/ Thu, 20 May 2021 07:35:06 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15579 Se si pensa a qual è una delle figure emblematiche nel panorama letterario italiano, non può non venir in mente il nome di Gabriele D’Annunzio. Figura da sempre associata al fascismo, ma, allo stesso tempo, unico uomo in grado di far tremare il regime dittatoriale instaurato da Mussolini, che, con il Vate, decide di intraprendere […]

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Se si pensa a qual è una delle figure emblematiche nel panorama letterario italiano, non può non venir in mente il nome di Gabriele D’Annunzio. Figura da sempre associata al fascismo, ma, allo stesso tempo, unico uomo in grado di far tremare il regime dittatoriale instaurato da Mussolini, che, con il Vate, decide di intraprendere una “cordiale inamicizia”, paragonandolo a «un dente malato, che o lo si ricopre d’oro o lo si estirpa».

Da questa consapevolezza filologica parte il primo lungometraggio di Gianluca Jodice (regista e sceneggiatore), Il cattivo poeta, un film che si colloca in quel filone di opere contemporanee – di cui Matteo Rovere (qui in veste di produttore) è un anticipatore – che vedono nella storia italiana un substrato ricco di linfa per il cinema.

Con un tocco intimo, posato e artigianale, Gianluca Jodice conduce lo spettatore nell’intimo di un protagonista scomodo e controverso della nostra cultura, decidendo però di mostrarlo da un punto di vista originale. La sinuosità della macchina da presa si affianca, infatti, a Giovanni Comini (interpretato con delicatezza e discrezione da Francesco Patané, al suo debutto sul grande schermo), il cui occhio si pone allo stesso livello di noi spettatori: ospite silenzioso all’interno di un’amara e malinconica visione, quella di D’Annunzio (incarnato da un camaleontico Sergio Castellitto), che rimane però un eterno soggetto onnipresente e fuoricampo allo stesso tempo.

In ciò, diventa fondamentale non solo lo scontro/incontro con Comini, che rappresenta tutto ciò che D’Annunzio stesso era e che ha ormai perso (se il primo ha più futuro che passato nelle proprie vene, il secondo ha invece più passato alle spalle che futuro davanti), ma anche il Vittoriale, luogo deputato in cui il poeta, finanziato da Mussolini, si era posto in auto-esilio, in attesa di quell’ultimo sussulto di vitalità, rappresentato proprio dall’incontro con la figura del giovane federale fascista.

Jodice e Rovere – come hanno sottolineato nella conferenza stampa di presentazione – fotografano il Vate in quel logorante cul de sac nel quale il poeta decadente si è rinchiuso in un vortice di ossessioni che lo hanno trasformato in un recluso, in un mitologico Nosferatu (nota Rovere), che riversa la propria anima tormentata dentro la geografia dello spazio che abita (quasi come in uno sperduto “deserto dei tartari”). Spazio che non viene visto tanto come un deposito d’antiquariato, ma come un luogo archeologico di potenza, decadenza e desiderio vitale.

La regia, all’opposto, decide di essere pulita e controllata, al fine di lasciar scolpire la figura del Vate non tanto tramite eventi o dialoghi (che, in ogni caso, la sceneggiatura ricostruisce  con un lavoro meticoloso di documentazione), ma attraverso un’estetica affidata all’evocazione fotografica e scenografica (curate rispettivamente da Daniele Ciprì e Tonino Zera), in grado di restituire un taglio antico e classico con tonalità profonde come il giallo, il verde e il nero, che richiamano in più occasioni i dipinti metafisici di De Chirico.

Il cattivo poeta (coproduzione italo-francese che arriva oggi, con duecento copie, nelle sale) è dunque un’opera che si sgancia dal contemporaneo alla ricerca di nuovi codici, che tengano però sempre presente il tessuto culturale in cui siamo immersi. In questo contesto, sebbene l’aspetto filologico, soprattutto all’inizio, risulta eccessivamente pressante, si viene a delineare un film “epidermico”, dove, più che le parole, a risuonare sono le immagini

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Gabriel Montesi, da Cassano a Bukowski con passione https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/gabriel-montesi-da-cassano-a-bukowski-con-passione/ Thu, 08 Apr 2021 08:14:09 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15389 Eclettico e intenso, Gabriel Montesi, classe ’92, è una delle promesse più promettenti del cinema italiano. Inizia da un piccolo teatro di Aprilia per entrare successivamente alla Scuola d’arte cinematografica Gianmaria Volontè: per lui il cinema è collettività, scambio e armonia tra anime diverse. Negli ultimi anni ha lavorato con registi del calibro di Fabio […]

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Eclettico e intenso, Gabriel Montesi, classe ’92, è una delle promesse più promettenti del cinema italiano. Inizia da un piccolo teatro di Aprilia per entrare successivamente alla Scuola d’arte cinematografica Gianmaria Volontè: per lui il cinema è collettività, scambio e armonia tra anime diverse. Negli ultimi anni ha lavorato con registi del calibro di Fabio e Damiano D’Innocenzo e Matteo Rovere e lo abbiamo visto da poco nei panni di Antonio Cassano diretto da Luca Ribuoli. È una persona istintiva che preferisce «occuparsi del presente anziché preoccuparsi del futuro», perché è così che sono nati alcuni degli incontri che hanno segnato la sua carriera.

Ti avvicini al mondo della recitazione a meno di vent’anni. Nel 2019 termini il tuo percorso alla Volonté. Chi è oggi Gabriel Montesi?

Non lo so [ride], ancora non lo so. La ricerca di me stesso è stata la vera ragione per cui mi sono avvicinato alla recitazione. Avevo 19 anni, ero in quella fase della vita in cui non sai né chi sei né chi vuoi essere, io e un mio amico siamo andati ad Aprilia a seguire un corso di teatro dentro una ex fabbrica abbandonata, ci sembrava un’atmosfera divertente. In seguito mi sono avvicinato a Roma frequentando dei laboratori e nel 2016 sono entrato alla Volontè, ed è stata una delle più grandi opportunità che mi sia mai capitata. Grazie alle persone che ho conosciuto lì ho capito veramente l’importanza del gruppo e che il cinema è un’arte collettiva. In assoluto sono una persona che preferisce puntare a occuparsi del presente più che a preoccuparsi del futuro. Ho sempre vissuto l’oggi e ciò mi ha portato a fare begli incontri, ho messo da parte tante esperienze che ora mi stanno aiutando a costruire la mia persona.

Ti abbiamo visto lo scorso anno in Favolacce dei fratelli D’Innocenzo. Come ti sei trovato nei panni di Amelio?

È stato un viaggio bellissimo, a volte ancora mi manca quel set e le sue sensazioni. Ho incontrato i fratelli D’Innocenzo grazie al casting director Davide Zurolo che mi mise a fare la spalla durante i provini di Favolacce. Ho sentito da subito una forte intesa con Fabio e Damiano, legata forse anche al fatto che proveniamo tutti da un’infanzia vissuta in un piccolo paesino. Questo credo che ti regali una certa poetica e un preciso modo di vedere le cose, di recepirle e di ascoltarle. Amelio è stato un personaggio che mi ha posto molte domande sul concetto di famiglia. L’intero film racconta di persone che hanno l’obiettivo di raggiungere un desiderio di perfezione, una famiglia divinizzata. La figura di Amelio è un po’ il paradosso del film, il completo opposto del personaggio interpretato da Elio [Germano ndr]: è euforico, non sa bene come fare il padre e non sa come dare amore, quindi tratta il figlio Geremia più come se fosse un amico, un fratellino. Favolacce è un film che, oltre ad avermi fatto riflettere come attore, mi ha messo in discussione anche come spettatore, stravolgendo i miei concetti personali di vita e di morte, di buono e di cattivo.

In Romulus di Matteo Rovere eri il re Cnaeus. Cosa ti ha lasciato questo personaggio?

Cneaus è un re che si autoproclama all’interno di un gruppo, interpretarlo mi ha ricordato Il Signore delle mosche. Domina il branco per garantirsi una sopravvivenza più lunga. È un personaggio interessante e mi ha fatto molto piacere tornare a lavorare con Rovere che avevo già conosciuto precedentemente sul set de Il primo re. Di questa serie ho amato anche il fatto che il concetto di “branco” (in senso positivo) si è ricreato perfettamente anche all’interno del set, mi sono trovato circondato da persone meravigliose che mi hanno aiutato a costruire il mio personaggio e a sostenerlo. Ho legato moltissimo con Claudio Bellisario, un giovane attore formidabile conosciuto lì, e con Marco Cicalese, con cui invece avevo già condiviso tutto il percorso all’interno della Volontè.

Gabriel MontesiTi abbiamo rivisto su Sky in Speravo de morì prima, miniserie italiana diretta da Luca Ribuoli: che effetto ti ha fatto interpretare un mito del calcio come Antonio Cassano? 

Quando ho fatto il provino per Cassano mi sono presentato al casting con il suo taglio di capelli, per calarmi meglio nel personaggio. Ricordo che guardandomi allo specchio ho pensato: “Ao’, però ce prendo!”. Nonostante la somiglianza fisiognomica è stato impegnativo interpretare una personalità geniale e stravagante come quella di questo mito del calcio. Una delle sfide più grandi poi è stato il dialetto barese: per questo devo ringraziare infinitamente Francesco Zenzola, un attore fantastico senza il quale non sarei riuscito a fare nulla. Lui è di Bari e abbiamo fatto insieme un doppio lavoro: siamo arrivati prima a un barese più pulito e poi a uno con cadenza “spagnoleggiante” dovuta all’anno che Cassano ha passato in Spagna con il Real Madrid. È stata la prima volta che ho interpretato una persona reale e grazie a questo ho imparato che mi piace restituire e non imitare. Scegliendo alcuni gesti e alcune movenze è come se restituissi a Cassano una parte di sé e così facendo lo ringraziassi in modo vero e puro.

Sarai anche nella serie Christian, sempre per Sky, diretta da Stefano Lodovichi e Roberto “Saku” Cinardi. Vuoi parlarci della trama?

Christian, interpretato da Edoardo Pesce, vive alla periferia di Roma in un contesto di criminalità. Sopravvive “menando”, fino a quando non si ritrova con dei segni sulle mani, che scopre essere delle stimmate. La serie viaggia su questo contrasto, si costruisce sul limite tra il reale e i miracoli. Qui io interpreto Penna, un piccolo malvivente amico della compagnia di Christian. Lavorare con Edoardo è stato davvero formativo e divertente, è un grande. Personalmente non credo al “sovrannaturale” ma sono sicuro che esista un qualcosa che va oltre i nostri limiti, che superi i nostri pensieri. Mi piace spostare lo sguardo.

Sei considerato una delle giovani promesse del cinema italiano: come vedi il futuro di questo mondo? Un consiglio ai giovani che vorrebbero fare il tuo lavoro?

Se io so’ una promessa già siamo messi male! Non lo so, stiamo vivendo un presente in cui il futuro fa un po’ paura ma in ogni caso sono ottimista, e penso che ci sarà presto una grande rinascita. Comunque, spero in una reazione più che in una resistenza. A un giovane che si sta avviando in un percorso lavorativo come il mio dico di continuare, di non arrendersi mai e soprattutto di sentire la “fame” di questo mestiere. Per me recitare ormai non è neanche più una passione, è una sorta di bisogno fisico che mi fa star bene, una parte di me senza la quale non riesco nemmeno a immaginarmi. Non ci dobbiamo far fermare dalla situazione di distacco che stiamo vivendo, dobbiamo interagire con persone con la stessa passione, perché il cinema è collettività, è scambio, è armonia tra anime diverse.

Gabriel MontesiHai interpretato ruoli diversi, quasi sempre drammatici: quale di questi ti è rimasto particolarmente impresso?

Ogni ruolo ha lasciato in me qualcosa e non ne vorrei scegliere uno in particolare. Ho paura che dovendo prediligere un personaggio sugli altri mi lascerei troppo influenzare, mentre voglio sentirmi sempre libero e completamente adattabile. Se dovessi scegliere invece una personalità che vorrei interpretare e che mi piacerebbe studiare, è quella di Martin Luther King.

Se dopo di me potessi prendere un caffè con una persona per te importante, chi sceglieresti?

Mio fratello Gianmarco, per me lui è stato ed è tuttora un maestro, è una persona ribelle e coraggiosa che va dritto per la sua strada. Non ha paura di osare e per questo ha e avrà per sempre tutta la mia stima. Pensando a lui mi viene in mente una frase di Bukowski: «Godo nel minacciare il sole con una pistola ad acqua».

Fotografa: ROBERTA KRASNIG Assistenti fotografa: LAURA AURIZZI / ELISA MALLAMACI Stylist: CONSUELO MOCETTI per STEFANIA SCIORTINO STYLIST Trucco: ELEONORA DE FELICIS@HARUMI Capelli: GIADA UDOVISI@HARUMI Abiti: HUGO BOSS / LEVI’S / BOMBOOGIE / BERNA / ANERKJENDT

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Romulus – la serie, il mito continua https://www.fabriqueducinema.it/serie/romulus-la-serie-il-mito-continua/ Fri, 30 Oct 2020 09:18:54 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14477 Uno degli eventi più attesi dell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma è stato la proiezione dei primi due episodi di Romulus, la serie scritta, diretta e prodotta da Matteo Rovere che dal 6 novembre andrà in onda su Sky Atlantic nella doppia versione in lingua originale (protolatino) e doppiata in italiano. Come Il […]

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Uno degli eventi più attesi dell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma è stato la proiezione dei primi due episodi di Romulus, la serie scritta, diretta e prodotta da Matteo Rovere che dal 6 novembre andrà in onda su Sky Atlantic nella doppia versione in lingua originale (protolatino) e doppiata in italiano.

Come Il primo re, il film dello scorso anno diretto sempre da Rovere, anche Romulus è stato girato nella lingua ipoteticamente parlata dagli abitanti del Latium Vetus nel corso dell’VIII secolo a.C.: un accorgimento che aiuta lo spettatore a entrare in una società completamente diversa dalla Roma imperiale che in parecchi casi il cinema ci ha dato occasione di rivivere. Altra caratteristica che accomuna i due progetti è la scelta di girare in luoghi impervi e in situazioni difficili per gli attori che hanno dovuto affrontare un’esperienza decisamente spiazzante sia a livello fisico che psicologico. Così come hanno fatto, ad esempio, Alessandro Borghi e Alessio Lapice, rispettivamente Romolo e Remo nel Primo re, anche Andrea Arcangeli e Giovanni Buselli, che nella serie interpretano Yenos ed Enitos, i nipoti di Amulio (Sergio Romano), altro personaggio carismatico assente nel film, oppure i giovani Luperci, protagonisti importanti della serie, si sono allenati per affrontare sanguinosi combattimenti.

Se nel lungometraggio a essere al centro era la mitologica vicenda dei due fratelli costretta a risolversi in poco più di due ore, in Romulus c’è più spazio per un’indagine più approfondita dei singoli personaggi con i loro caratteri, i loro desideri e i loro sentimenti che Rovere, insieme a Filippo Gravino e Guido Iuculano, cercano di rendere universali. L’amore della vestale Lilia, interpretata da Marianna Fontana, è quello di una donna che va incontro alla morte quando vede che ha perso il proprio amore, diventando una sorta di arcaica Giulietta. La bramosia di potere di Amulio, resa ancora più viva dalla moglie Gala (Ivana Lotito), è il sentimento che muove tutta la serie, stravolgendo le vite dei due ragazzi e anche quelle degli altri giovani Luperci, tra cui il giovane Wiros (Francesco di Napoli), mandati a compiere il loro rito di iniziazione.

La nuova idea di Matteo Rovere, sostenuta da Groenlandia e Cattleya, promette molto bene. È capace di mantenere la sacralità del mito, con le figure di Numitore, Amulio e Rea Silvia (Vanessa Scalera) e gli antichi riti dei popoli italici, modernizzando al contempo un periodo oscuro, poco conosciuto e dominato dalla triade sangue-divinità-natura, grazie anche all’innesto di dinamiche psicologiche più attuali. Un prodotto originale che, come un ponte, unisce passato e presente.

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Il primo re, piccolo kolossal e grande film https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/il-primo-re-piccolo-kolossal-e-grande-film/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/il-primo-re-piccolo-kolossal-e-grande-film/#respond Fri, 25 Jan 2019 09:39:39 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=12493 A luci spente, ci fa chinare subito il capo su una roccia porosa Matteo Rovere, permettendoci di ascoltare giusto la litania di Alessio Lapice, Romolo, che con mani sporche e cariche di fede prega la “triplice Dea”. Le dita sfiorano quella pietra tabernacolo supplicando un futuro, una sicurezza che per il momento soltanto il fratello […]

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A luci spente, ci fa chinare subito il capo su una roccia porosa Matteo Rovere, permettendoci di ascoltare giusto la litania di Alessio Lapice, Romolo, che con mani sporche e cariche di fede prega la “triplice Dea”. Le dita sfiorano quella pietra tabernacolo supplicando un futuro, una sicurezza che per il momento soltanto il fratello Remo, Alessandro Borghi, può impegnarsi a procacciare insieme a lui. Gli occhi blu dell’ex Stefano Cucchi costituiscono l’unica pennellata di colore brillante in un mondo plumbeo, boschivo e inospitale. Siamo nel periodo che culminerà con il cruciale 753 a.C., anno della fondazione di Roma. Siamo davanti al nuovo film prodotto da Groenlandia di Rovere e Sydney Sibilia con RAI Cinema, Il primo re. Siamo dentro un’avventura leggendaria di rara potenza cinematografica che cattura i sensi dello spettatore trascinandoci in un mondo antico totalmente italiano mai portato sul grande schermo con tale sensorialità e fedeltà al passato.

Nelle sale con più di 300 copie dal 31 gennaio, l’ultima fatica del regista di Veloce come il vento maneggia la leggenda di Romolo e Remo stringendone i tiranti storiografici grazie a una ricostruzione archeologica e antropologica basata sulle usanze religiose, le capanne di fango e paglia e le armi in ferro che determinavano la vita e la morte delle tribù protolatine. A questo si unisce il latino arcaico, unica lingua parlata nel film, che adeguatamente sottotitolata ci scaraventa in un mondo sconosciuto e impervio, seppur nell’Italia centrale, nei dintorni della capitale che quasi 2800 anni fa non esisteva. Al suo posto foreste impenetrabili, cave di roccia, paludi, radure e soprattutto il Tevere. Fiume ricurvo e ostile con le sue correnti che segna spesso le scenografie come una meridiana, o la lancetta di una bussola amara e contorta per questi uomini preistorici che vivono allo stato barbarico. Come location sono stati scelti dintorni della capitale come il Parco Regionale dei Monti Simbruini, il Parco dei Monti Lucretili, la Riserva dell’Aniene, quelle di Decima Malafede e del Circeo con il lago dei Monaci e la selva di Circe, e infine la riserva di Tor Caldara ad Anzio.

il primo rePer ottenere l’idioma latino arcaico un gruppo di semiologi dell’Università La Sapienza di Roma ha messo insieme le vestigia di una lingua in parte perduta completandone le basi mancanti con antichi ceppi indoeuropei. Ne viene fuori un’atmosfera orale molto vicina agli Apocalypto e The Passion di Mel Gibson. Rovere insudicia i suoi attori. Li abbrutisce ma li lega indissolubilmente in una fratellanza fortissima resa ancora più reale da questa lingua inedita. Romolo e Remo si completano, sono indispensabili l’uno all’altro, si identificano come uno solo. Ma sarà la storia a separarli, come noto. Non dev’esserlo il come, visto che Rovere, firmando la sceneggiatura insieme a Filippo Gravino e Francesca Manieri, tesse una narrazione che intreccia sapientemente storia, legenda e drammatizzazione cinematografica senza però concedersi licenze spettacolarizzanti. Anzi, spiazza l’essenzialità di questo film pur venendo attraversato da una moltitudine di elementi e letture possibili.

il primo reSi mescolano sacro e profano quando il fuoco tenuto acceso dalla vestale, Tania Garribba, viene protetto come prezioso talismano, auspicio di sopravvivenza ancor prima che d’abbondanza. Si toccano i temi della fede e della profanazione, il confine tra regno e dittatura, la ribellione e la guerra per la sopravvivenza, la conquista e la fuga. Il personaggio di Remo esplode con il suo carisma sugli schiavi, suoi primi alleati e sudditi guerrieri, ma il fratello Romolo ha dalla sua parte un potere più spirituale, profondo, che agisce sui cuori anche senza la necessità della spada. In questo Primo re, forse più vicino ai nostri tempi di quanto non sembri, si parla già di una Roma e di un’Italia prosaiche, da una parte rappresentate da Remo, offuscate dal potere del possesso, guerresche e per estensione filosofica imperiali, monarchiche e di coercizione ottenuta con la forza e la paura, quindi protofasciste. Dall’altra invece le prime tracce della nostra civiltà, intorno alla figura di Romolo, risultano pre-cardinalizie, religiose, legate al cerimoniale e alla coesione sociale per la fede intorno alle vergini detentrici del fuoco sacro della dea Vesta. Si nutrono di libertà e fierezza e collaboratività tra villaggi.

La produzione ha compiuto un miracolo nel mettere su un piccolo kolossal interamente italiano, inedito nel suo narrare, gonfio di effetti speciali sempre credibili e mai invasivi, scene di combattimento corpo a corpo esemplari e finalmente credibilissime, di cui il cinema italiano spesso risulta carente. Se la regia di Veloce come il vento trovava la sua dirompenza del montaggio convulso e straordinariamente dinamico intorno all’automobile in corsa, nel Primo re tutto ruota intorno a corpi quasi nudi, sporchi nella loro essenza e raccontati un po’ come il DiCaprio in The Revenant di Iñárritu. Non più macchine ma uomini, non più asfalto nero ma natura inconoscibile, la nuova dimensione selvaggiamente bucolica di Rovere non risparmia al pubblico scene spietate, però mai asservite a una vuota spettacolarità d’intrattenimento. Tutti gli attori, dai protagonisti sino a ogni singola comparsa, forgiati ognuno nella propria parte, risultano in stato di grazia. In due ore tonde il film sgomenta come pochi italiani hanno fatto negli ultimi anni.

il primo rePredire il futuro come fa lei non ci compete, ma da una prima visione s’intuiscono chiaramente le potenzialità di un lavoro che potrebbe andare molto lontano. Ma il qui e ora di questo piccolo grande passo per il cinema italiano adesso si trova nelle mani della 01 Distribution. Oltre all’attenzione del pubblico nostrano, fondamentale primo passo per l’esportazione, sarà la giusta comunicazione di un film europeo che guarda alla pari alcuni colossi hollywoodiani che lo precedono a far entrare il film nei giusti circuiti internazionali di sala per farlo apprezzare da un pubblico trasversale di cinephile, appassionati di storia e spettatori di action.

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Alessio Lapice, da Gomorra all’antica Roma https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/alessio-lapice-gomorra-allantica-roma/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/alessio-lapice-gomorra-allantica-roma/#respond Thu, 28 Dec 2017 09:10:36 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9788 Romano d’adozione, napoletano nel sangue, nel cuore e (soprattutto) nello spirito, Alessio Lapice racconta una carriera intrapresa quasi per caso e arrivata sui più importanti set italiani, con un obiettivo costante: ricercare nuove sfide. Ma sempre con ironia. Alessio, 26 anni, originario di Castellammare di Stabia, conquista immediatamente con la sua spontanea loquacità, che dà […]

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Romano d’adozione, napoletano nel sangue, nel cuore e (soprattutto) nello spirito, Alessio Lapice racconta una carriera intrapresa quasi per caso e arrivata sui più importanti set italiani, con un obiettivo costante: ricercare nuove sfide. Ma sempre con ironia.

Alessio, 26 anni, originario di Castellammare di Stabia, conquista immediatamente con la sua spontanea loquacità, che dà l’impressione di conoscerlo da sempre. E ci confessa:«Da piccolo non avevo idea che sarei diventato attore, ero uno “scugnizzo” incostante e impulsivo. Nella mia famiglia nessuno fa parte del mondo deI cinema e il mio avvicinamento è stato un crescendo, una goccia che scivola su una parete… (riflette) Wow! Che metafora mi è uscita: mi raccomando, scrivila!».

A proposito, toglimi una curiosità: davvero volevi fare il meccanico?

E questa dove l’hai sentita? Con chi mi è sfuggito? (ride) No, non proprio. Durante l’adolescenza cambiavo passione ogni giorno. Certamente adoro i motori, mi hanno sempre affascinato quegli ingranaggi in movimento… Sarei diventato anche pilota di Formula1!

Come in Veloce come il vento! Non a caso sei il protagonista, accanto ad Alessandro Borghi, del prossimo film di Matteo Rovere…

Veloce come il vento è una bomba! Mi son fatto raccontare da Matteo tutte le peripezie affrontate per girare le scene in auto e, combinazione, ho visto il film appena tre giorni prima di essere contattato per il provino de Il primo re, sua ultima creazione sulla leggenda di Romolo e Remo. Per inciso, è stato il primo provino della mia vita in latino! Anzi, in proto-latino: un linguaggio ancora più arcaico di quello che si impara al liceo! L’incontro con il regista è stato spontaneo e naturale, lui ripone totale fiducia nei suoi attori e questo ispira tranquillità. Ha le idee chiare, è deciso, e questo mi ha stimolato a cercare maggiore libertà nell’interpretazione.

Prima che nei panni di Romolo, però, ti vedremo in Nato a Casal di Principe di Bruno Oliviero.

Si tratta della storia vera di Amedeo Letizia, aspirante attore che, negli anni Ottanta, fa ritorno nella sua città natale perché il fratello minore è misteriosamente scomparso. Il lavoro svolto con Bruno è stato insolito. Mi spiego: di solito, un attore studia e crea un personaggio per poi dargli vita nell’interpretazione. Noi, al contrario, ci siamo concentrati su quello che di me potesse essere utile al ruolo. In breve, Alessio diventava Amedeo e viceversa: sono stati i mesi più belli e più difficili della mia carriera. Ho attraversato momenti di grande confusione e conosciuto me stesso ancora più a fondo. È uno degli aspetti di questo mestiere che amo di più: ogni lavoro su un nuovo ruolo accende nuove sfumature e offre l’occasione di provare sensazioni in crescendo. Per raccontare questa storia servivano dinamiche vicine alla realtà e infatti ho creato un legame molto forte con gli attori di questo film, eravamo una famiglia a tutti gli effetti.

Come cambia il tuo approccio a una storia vera rispetto a una di finzione?

Nel caso di Nato a Casal di Principe è come se una famiglia ti affidasse le chiavi della sua casa. Sono stato attentissimo ai dettagli e al rispetto verso questa vicenda importante. Volevo realizzare qualcosa di solido, rendere giustizia ai fatti. Affrontare una storia vera fa paura, ma è anche uno stimolo in più.

Parlando di fiction, tra le altre, hai recitato in Gomorra 2, ambientata nella tua città.

Una premessa è d’obbligo: senza esagerare, devo il 70% delle mie occasioni lavorative alla mia città. Gomorra è ambientata nei suoi quartieri più difficili e sono stato un grande fan della prima serie. Girare le scene d’azione è stato stupendo, ma ci tengo a precisare che descrive una realtà romanzata di Napoli. È vero, esistono quartieri disagiati che andrebbero alleggeriti dalle difficoltà, ma questo non è compito della TV, che ritaglia uno spaccato e lo trasforma in spettacolo. Io la vivo così, come intrattenimento. Gomorra non ha aumentato le problematiche di Napoli, è una gangster story di ottimo livello e come tale va presa. Dubito che chi la segue voglia approfondire le problematiche sociali di Napoli.

Sei davvero molto legato a Napoli…

La amo follemente e questa voglia di cambiamento che si respira nel cinema italiano mi riempie di fiducia perché desidero continuare a lavorare in Italia. Per quanto riguarda la mia “napoletanità”, chiaramente recitando in latino per Rovere non la percepisco granché. Tuttavia, a livello storico, sento una responsabilità fortissima nei confronti dei romani e dell’Italia. Perché la storia di Romolo e Remo, per assurdo, è quella d’italia… Quindi anche di Napoli!

Vedo che hai studiato!

Altroché! A scuola non ero un secchione, anzi, ma lo sono diventato facendo l’attore. Sono talmente meticoloso che, quando sono su un set, sparisco dalla circolazione: famiglia e amici mi danno per disperso!

Che farai finite le riprese di Il primo re?

Sinceramente? Ho una fame assurda, sto seguendo una dieta ferrea sul set di Rovere e la notte mi capita di sognare la spesa che farò una volta libero dal set.

Scherzi a parte, desideravo tentare la strada della comicità e ne ho avuto la possibilità interpretando il protagonista di Tafanos, horror comedy girata in lingua inglese, diretta da Riccardo Paoletti e prodotta da Sky Cinema. L’approccio a un registro diverso è stato divertente, ma continuo a preferire il dramma, che si tratti di cinema o di fiction. Di fronte alla macchina da presa, quando parte l’azione, penso solo a vivere la scena.

Hai altri progetti, che non riveli per scaramanzia?

Scaramanzia? Ti racconto questa: in uno dei primi articoli in cui si parlava di me, l’autore mi ha citato come Alessio Lapide! Lapide! Mia mamma mi ha telefonato preoccupata: «Facciamoci il segno della croce, mica porterà male?». Ad oggi posso dire di no…

Foto: Roberta Krasnig Stylist: Stefania Sciortino Trucco: Ilaria di Lauro Hair: Adriano Cocciarelli @Harumi Assistenti foto: Luca Caputo e Giulia Terenzi Total look: Diesel Black Gold

 

 

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Matilda de Angelis https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/matilda-de-angelis/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/matilda-de-angelis/#respond Wed, 26 Apr 2017 08:01:07 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=7884 La star ventunenne di Veloce come il vento, talento in inarrestabile ascesa, svela il suo incontro inaspettato col grande schermo, l’inesauribile amore per la musica e cosa il futuro ha in serbo per lei. La giovanissima bolognese, grintosa e sicura di sé, confessa subito che la strada della recitazione non era affatto tra i suoi […]

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La star ventunenne di Veloce come il vento, talento in inarrestabile ascesa, svela il suo incontro inaspettato col grande schermo, l’inesauribile amore per la musica e cosa il futuro ha in serbo per lei.

La giovanissima bolognese, grintosa e sicura di sé, confessa subito che la strada della recitazione non era affatto tra i suoi piani: «Ho sempre sognato di fare la musicista. Da quattro anni canto nel mio complesso, i Rumba de bodas, con cui mi sono esibita anche in giro per l’Europa. Coltivo tuttora la passione per la musica, mentre il mio ingresso nel mondo del cinema è stato decisamente inaspettato. Un amico mi ha proposto di fare un provino perché Matteo Rovere cercava una non professionista. Quando mi hanno presa ero spaventata, non mi sentivo affatto all’altezza. Matteo Rovere mi ripeteva che se ero stata scelta c’era un motivo e, pian piano, ho vinto ogni resistenza trovando un mio equilibrio in una normalità atipica».

[questionIcon]Che bilancio tracceresti di questa prima ma importante esperienza?

Ho imparato a stare sul set giorno dopo giorno, grazie alla collaborazione degli altri. Soprattutto di Rovere, un amico prima che un regista, e di Stefano Accorsi, un artista generoso e vitale. Così si è accesa in me la passione. Un amore e tante nuove amicizie. È strano che un’esperienza così intensa e irripetibile coincida con la scoperta e l’inizio di tutto. Mi son detta che anche se la mia carriera da attrice fosse finita lì, ne sarebbe valsa la pena. Mi aspettavo il successo del film, pur avendo vissuto il set come in apnea. Addirittura non ricordavo di aver girato molte scene: mi sentivo sullo stesso piano degli spettatori. Questo è stato positivo, poiché sono molto autocritica e guardarmi con distacco mi ha aiutato ad apprezzare meglio il mio lavoro. Il riscontro del pubblico mi ha reso felicissima e orgogliosa, pur rimanendo con i piedi per terra!

[questionIcon]E tu con che cinema – e musica – sei cresciuta?

Mio padre è un divoratore di note e di celluloide. Mi ha fatto appassionare alla musica rock anni ’80 e ancora oggi mi fa scoprire nuovi artisti. Tra i miei miti ci sono Bowie, i Radiohead, i Beatles. Pian piano ho trovato anche una direzione che assecondasse di più le mie ricerche musicali. Per quanto riguarda il cinema, sempre grazie ai miei, ho imparato ad amare Lynch, Scorsese, Tarantino e Gondry.

[questionIcon]Quali qualità non può non avere un bravo attore, secondo te?

Assolutamente l’elasticità mentale. Deve essere disposto a distruggere le proprie sicurezze per crearne di nuove. Può essere difficile accettare le critiche, ma è fondamentale farlo, pur mantenendo una propria identità. Bisogna cercare un contatto con le emozioni più profonde, tenere le valvole emotive aperte per dare verità al proprio personaggio. Non ultimo, essere seri e professionali e avere rispetto per la troupe. In realtà non mi sento indicata a dare consigli a chi voglia intraprendere la carriera cinematografica, direi solo di non abbattersi e non rinunciare, mettersi in gioco come essere umano e lavorare con costanza, facendo dei propri difetti una forza.

[questionIcon]Dopo il grande schermo, ti sei cimentata nel cortometraggio, nella fiction e nel videoclip. La musica sembra andare di pari passo con il tuo percorso da attrice.

Esatto, sono onorata di aver preso parte come attrice al videoclip Tutto qui accade dei Negramaro. Li stimo tantissimo e mi sono prestata al progetto con entusiasmo. Anche nella fiction Tutto può succedere mi esibisco live e in Veloce come il vento canto la canzone dei titoli di coda. Tra i vari set, invece, cambia inevitabilmente il tempo da dedicare al progetto. L’empatia con le persone con cui collaboro per me rappresenta il 50% del lavoro. Nella fiction eravamo diventati come una famiglia, e questo viene percepito dallo spettatore. In un corto o in un videoclip è difficile che si crei coesione.

Il corto Radice di 9 di Daniele Barbiero, ad esempio, è stata un’esperienza splendida però si nota che tra gli attori non c’era confidenza, perché ci eravamo appena conosciuti. Un altro aspetto interessante della recitazione consiste nell’affrontare sempre nuovi personaggi. Finora ho prestato il volto a ragazze oscure e tormentate alla Giulia De Martino eppure, allo stesso tempo, diversissime da lei. Ho avuto modo di crescere e essere diversa da quel che sono sempre stata, tirando fuori parti di me chiuse a chiave per raccontare una verità. Sto interpretando tante ragazzine incazzate, ma tutte a modo loro.

[questionIcon]Cosa puoi dirci dei tuoi progetti futuri?

Sarò protagonista di due film: Youtopia di Berardo Carboni, con Donatella Finocchiaro e Alessandro Haber e Una Famiglia di Sebastiano Riso, con Micaela Ramazzotti e Patrick Bruel. Poi ci sarà la seconda stagione di Tutto può succedere.

Stylist: Stefania Sciortino
Abiti: Manila Grace
Makeup: Nicoletta Pinna@Simone Belli Agency – using: ALIKA Cosmetics
Hair: adrianococciarelli@harumi
Realizzato in collaborazione con Massimo Ferrero Cinemas, nella storica location del Cinema Teatro Adriano di Piazza Cavour

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