Matteo Garrone Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 08 Dec 2023 13:32:57 +0000 it-IT hourly 1 Seydou Sarr: Garrone mi ha mostrato qualcosa di me che non conoscevo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/seydou-sarr-garrone-mi-ha-mostrato-qualcosa-di-me-che-non-conoscevo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/seydou-sarr-garrone-mi-ha-mostrato-qualcosa-di-me-che-non-conoscevo/#respond Tue, 28 Nov 2023 09:13:43 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18837 Leone d’argento a Venezia 80 e Premio Mastroianni all’attore protagonista: se Io Capitano è stato uno dei casi cinematografici di quest’anno, al pari Seydou Sarr è stata una scoperta davvero inattesa. È a lui che dedichiamo la nuova cover Fabrique du Cinéma, giovane senegalese scelto da Matteo Garrone per raccontare l’epica della migrazione senza morbosità, […]

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Leone d’argento a Venezia 80 e Premio Mastroianni all’attore protagonista: se Io Capitano è stato uno dei casi cinematografici di quest’anno, al pari Seydou Sarr è stata una scoperta davvero inattesa.

È a lui che dedichiamo la nuova cover Fabrique du Cinéma, giovane senegalese scelto da Matteo Garrone per raccontare l’epica della migrazione senza morbosità, senza distorsioni voyeuristiche e senza rincorrere un messaggio ad ogni costo. Ha sempre sognato il calcio: il grande cinema è arrivato per caso, presentandosi ai casting del film organizzati a Thiès, a un’ora e mezza da Dakar. La storia di Seydou è incredibilmente simile a quella del suo personaggio: e proprio come lui, su quello che arriverà dopo rimane un’affascinante incognita. Nel frattempo ci racconta il viaggio.

Seydou, partiamo dal provino per il film: come ti sei preparato? Avevi capito realmente cosa stavi andando a fare?

No, davvero non lo sapevo cosa stavo andando a fare, perché c’erano tante altre persone, credo più di cento. Mia sorella mi ha accompagnato e mi ha aiutato molto a sostenere l’audizione.

Quanto è durato il viaggio di Seydou Sarr insieme a questo personaggio che ha il suo stesso nome? La preparazione, lo studio, le riprese?
Direi che in tutto è durato più o meno tre mesi: quando eravamo in Senegal la

situazione era più tranquilla, ma la parte più complessa è iniziata in Marocco: lì è stato davvero difficile, c’erano molte emozioni che dovevo esprimere. Quanto alla preparazione, a essere sinceri non ne ho avuto il tempo, perché era la mia prima volta su un set e non sapevo cosa mi aspettava.

Cosa sapevi dell’Italia prima di questo film? Condividevi le vere e durissime avvertenze che la madre di Seydou dà al figlio?

A dire il vero dell’Italia non sapevo granché, perché il mio sogno era andare in Europa. Per quanto riguarda gli ammonimenti della madre a Seydou, è giusto che lei glieli abbia dati, è sua madre, ma non possono trattenerlo. Lui vuole aiutare la famiglia, e alla fine ci riuscirà. Ecco, io penso che Seydou abbia ragione a non ascoltare la madre, perché non può restare a casa senza fare nulla, anche se realizzare il suo desiderio sarà tutt’altro che facile.

Tu invece hai vissuto per diversi mesi a casa della mamma di Matteo Garrone. È un aneddoto curioso. Come è successo?

Sì, è vero, sono stato da lei per quasi un anno. È successo quando avevamo finito le riprese ed ero tornato in Senegal: poi però mi è stato detto che dovevamo girare una nuova scena in Italia con Moustapha [Moustapha Fall, che nel film interpreta Moussa, il cugino di Seydou ndr], e le riprese avrebbero richiesto altri quattro giorni. Mi sono detto che non sarei rimasto in Italia solo per quattro giorni. Così ho chiamato Matteo per dirgli che mi sarebbe piaciuto prolungare il mio soggiorno e lui mi ha invitato ad andare a casa della madre.

Hai vinto il Premio Mastroianni come Miglior attore emergente: Mastroianni è un’istituzione, rappresenta la grande storia del cinema. Tu fino a poco fa sognavi il calcio.

Quando ho ricevuto il premio a Venezia ero davvero contento e fiero. Se ora avrò la possibilità di continuare con il cinema lo farò, perché il modo in cui Matteo ha lavorato con noi mi ha permesso di capire che c’era qualcosa che dormiva in me da molto tempo e che non conoscevo. Ma anche il calcio non lo lascerò, perché è sempre stato il mio sogno.

Qual è l’immagine o la scena del film che ti colpisce di più, ogni volta che lo guardi?

Sicuramente è la scena in cui una signora anziana doveva morire tra le mie braccia durante la traversata del deserto. Anche mio padre è morto tra le mie braccia: di colpo non vedevo più la signora, vedevo mio padre, ed è stato un momento difficile.

Hai paura di quello che succederà dopo? Dopo il film, dopo Garrone, dopo gli Oscar, dopo un debutto così inaspettato e fortunato?

No, non ho paura. Perché se avrò la possibilità di continuare con il cinema, lo farò, altrimenti farò qualcos’altro. Per me non esistono lavori di serie B.

Fotografa Roberta Krasnig, assistente Davide Valente; Stylist Flavia Liberatori, assistente Vittoria Pallini; Hairstylist Adriano Cocciarelli per Harumi; Makeup Iman El Feshawy; Abiti Paul Smith, Fendi, Sandro

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La terra dell’abbastanza: un esordio che lascia il segno https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/la-terra-dellabbastanza-un-esordio-che-lascia-il-segno/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/la-terra-dellabbastanza-un-esordio-che-lascia-il-segno/#respond Tue, 05 Jun 2018 16:00:07 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10628 Ecco un’anticipazione della lunga intervista che Luca Ottocento ha fatto ai fratelli D’Innocenzo, autori di un’opera prima che ha fatto gridare al miracolo già molti critici. Troverete l’articolo completo sul prossimo numero di “Fabrique du Cinéma”. Mirko e Manolo sono due ragazzi della periferia romana senza prospettive che, dopo un improvviso incidente, vedono la loro […]

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Ecco un’anticipazione della lunga intervista che Luca Ottocento ha fatto ai fratelli D’Innocenzo, autori di un’opera prima che ha fatto gridare al miracolo già molti critici. Troverete l’articolo completo sul prossimo numero di “Fabrique du Cinéma”.

Mirko e Manolo sono due ragazzi della periferia romana senza prospettive che, dopo un improvviso incidente, vedono la loro vita cambiare per sempre e si ritrovano invischiati nel mondo della criminalità. Alla loro opera prima, Damiano e Fabio D’Innocenzo dimostrano subito un innegabile talento per la scrittura e la messa in scena. Non a caso, Matteo Garrone li ha voluti al proprio fianco nel suo ultimo film.

Il percorso dei fratelli D’Innocenzo, gemelli ventinovenni provenienti da Tor Bella Monaca, ha poco a che fare con quelli più tradizionali che generalmente conducono i giovani registi a esordire nel lungometraggio. Sembra incredibile, infatti, ma senza una scuola di cinema o un solo corto alle spalle Damiano e Fabio sono riusciti nell’impresa di realizzare il loro primo film, presentato con successo al Festival di Berlino nella sezione Panorama. La terra dell’abbastanza, nei cinema italiani a partire dal 7 giugno e già venduto in diversi paesi stranieri, racconta una storia molto dura attraverso un approccio antiretorico e sorprendentemente autentico, che permette un’immersione completa dello spettatore nelle vicende narrate.

La terra dell'abbastanza, Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano

Per approfondire il lavoro fatto sul film e la loro visione della settima arte abbiamo conversato a lungo con i generosi e instancabili fratelli, che oltre ad aver recentemente collaborato con Garrone per Dogman, hanno già pronta la prima stesura della sceneggiatura del prossimo progetto: un western sui generis che affronterà il tema archetipico del rapporto tra uomo e donna, le cui riprese sono previste per maggio dell’anno prossimo.

La regia si alimenta soprattutto di primi piani e inquadrature ravvicinate, a cui si aggiungono inquadrature larghe sul contesto della periferia. Come avete lavorato sullo stile per ottenere un coinvolgimento così potente dello spettatore?

F: È stato il film stesso a suggerirci la linea da seguire dal punto di vista estetico. Avendo scritto una storia che viaggia in parallelo con il protagonista e ha la carica immersiva molto forte di cui parli, era naturale andare a scavare sui primi piani per cercare di leggere quello che i personaggi stavano vivendo. Più che i fatti che si succedono, ci interessava mettere in luce come essi vengono percepiti dai personaggi. L’intento era di indagare il loro pensiero, la loro emotività, il loro senso di colpa e questa cosa era possibile farla solo standogli fisicamente addosso con la macchina da presa.

D: Il nostro approccio alla regia è stato anche istintivo e lo vedo molto legato alla grande passione che abbiamo per il disegno. Disegnando entrambi da moltissimi anni ed essendo abituati a selezionare velocemente ciò che deve essere visibile o meno su carta, generalmente abbiamo un’idea piuttosto chiara di cosa vogliamo o non vogliamo mostrare in un’inquadratura. A proposito del contesto della periferia cui accennavi rispetto ai campi lunghi presenti nel film, ci tengo a dire che per noi La terra dell’abbastanza è un lungometraggio che tratta essenzialmente il tema dell’amicizia, in maniera credo profonda e spero anche un po’ contraddittoria. Abbiamo deciso di ambientarlo in periferia perché è un mondo che conosciamo bene, ma si tratta semplicemente di uno sfondo.

La terra dell'abbastanza, i registi fratelli D'Inocenzo

Come è nata invece la collaborazione con Matteo Garrone per Dogman? Come siete entrati in contatto con un regista del suo calibro?

F: Ci siamo incontrati per caso una sera a cena, abbiamo avuto l’opportunità di parlare molto di cinema e fra noi è emersa subito un’affinità. Matteo proprio in quel momento stava scegliendo il nuovo progetto a cui dedicarsi. Dogman lo portava avanti da dieci anni, da prima di Gomorra. Ci ha fatto leggere le differenti stesure del film, e con lui e con i suoi sceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti ci siamo messi a lavorare su quel materiale. Essendo la storia ambientata in una periferia, che poi in realtà è andata progressivamente trasformandosi in una periferia dell’anima, una sorta di non-luogo, il nostro contributo è stato quello di fare in modo che dialoghi e situazioni risultassero reali. Le sceneggiature a casa di Matteo si scrivono attorno a un tavolo, quasi ad alzata di mano, ed è tutto ben pianificato. Io e Damiano dicevamo la nostra, rilanciavamo idee su personaggi che non c’erano nelle prime versioni, davamo tutto quello che potevamo offrire. Matteo ci ha fatto un regalo davvero straordinario.

D: La nostra collaborazione alla scrittura di Dogman è durata circa due mesi. Tutti i giorni lavoravamo dalle 10 alle 18. Si spegnevano i telefoni e c’era solo una piccola pausa per andare in mensa a pranzare. Lavorare con Matteo ci ha fatto capire tanto sul cinema, che non è come spesso si dice una cosa per pochi eletti o per chi ha un dono particolare ma più di ogni altra cosa presuppone impegno e lavoro quotidiano. A proposito del nostro primo incontro, ricordo che appena ci ha visto alla cena ci ha squadrato e ci ha detto che avremmo potuto fare gli italo-americani in un film. Noi gli abbiamo raccontato che stavamo preparando il nostro primo lungometraggio, lo abbiamo incuriosito e così ci ha chiesto se volevamo seguirlo in un altro locale dove stava andando. È iniziato tutto in questo modo e alla fine ci siamo ritrovati a collaborare con lui nella sua casa agli Studios della Tiburtina. Un sogno.

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Locandine d’autore: Dogman https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/locandine-dautore-dogman/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/locandine-dautore-dogman/#respond Tue, 29 May 2018 14:52:11 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10557 Andrea Gennaro Borrelli torna anche questa settimana con un’altra delle sue locandine d’autore. Il giovane artista piacentino, che potete seguire sul suo canale Facebook e Instagram, continua infatti a stupirci con nuove locandine cinematografiche create ad hoc. Dopo Call Me by Your Name, questa settimana è il turno di Dogman, piccolo gioiello di Matteo Garrone, il cui attore […]

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Andrea Gennaro Borrelli torna anche questa settimana con un’altra delle sue locandine d’autore. Il giovane artista piacentino, che potete seguire sul suo canale Facebook e Instagram, continua infatti a stupirci con nuove locandine cinematografiche create ad hoc.

Dopo Call Me by Your Name, questa settimana è il turno di Dogman, piccolo gioiello di Matteo Garrone, il cui attore protagonista Marcello Forte è stato recentemente premiato al Festival di Cannes.

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Dogman: uomini e bestie https://www.fabriqueducinema.it/festival/dogman-uomini-e-bestie/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dogman-uomini-e-bestie/#respond Fri, 18 May 2018 08:35:00 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10426 È da diciassette anni che l’Italia non vince la Palma d’Oro a Cannes. Ed è da dieci anni che non è così competitiva per ambire alla vittoria del prestigioso premio cinematografico, cioè da quel 2008 in cui Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino si aggiudicavano rispettivamente il Grand Prix e il Premio della Giuria, consacrando […]

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È da diciassette anni che l’Italia non vince la Palma d’Oro a Cannes. Ed è da dieci anni che non è così competitiva per ambire alla vittoria del prestigioso premio cinematografico, cioè da quel 2008 in cui Gomorra di Matteo Garrone e Il divo di Paolo Sorrentino si aggiudicavano rispettivamente il Grand Prix e il Premio della Giuria, consacrando definitivamente due maestri del nostro cinema contemporaneo.

Quest’anno, in concorso, dopo la commozione dell’ultimo idilliaco film di Alice Rohrwacher Lazzaro felice, ecco alla ribalta anche Garrone, con un nuovo lavoro che segna un ritorno agli elementi che gli sono cari e che ha padroneggiato con enorme estro creativo nell’arco della sua carriera, dopo l’incursione in un cinema “diverso” quale fu Il racconto dei racconti: in Dogman il regista romano torna a occuparsi di periferia, di atmosfere e contesti e personaggi borderline, di trasfigurazione della realtà che rompe gli argini del comodo realismo d’osservazione, torna ai fatti di cronaca che però con estrema libertà creativa (diciamo pure “d’autore”) maneggia a piacimento per affermare un suo sguardo sul mondo e (soprattutto) sugli uomini.

dogman di matteo garroneLa storia di Marcello (lo interpreta Marcello Fonte, che ha il volto e la parlata dei sublimi attori non professionisti di stampo neorealista), il piccolo e indifeso tolettatore di cani amato da tutto il quartiere e però anche considerato alla stregua di una mascotte dagli amici di sempre (il gestore della sala slot, il proprietario del compro oro), è ispirata, com’è noto, alla vicenda di Pietro de Negri, passato alla storia col nome di “canaro della Magliana”, macchiatosi dell’efferato omicidio del pugile dilettante Giancarlo Ricci – nel film interpretato magistralmente da Edoardo Pesce – e poi accanitosi con inedita e irripetibile efferatezza sul suo cadavere.

E già a questo punto le accuse eventuali di giustificazione e assoluzione dell’assassino de Negri possono essere rispedite al mittente, visto che Garrone con pudore rifugge dalla riproposizione pedissequa delle dinamiche per interessarsi ad altro, a qualcosa che ha rinvenuto fra le pieghe della vicenda di cronaca nera, che ha a che fare con l’uomo piuttosto che con il mostro. Come fu, dopo tutto, anche per L’imbalsamatore, pure ispirato a fatti reali e di cui Dogman sembra il controcampo più prossimo.

Dogman, nonostante questo, è davvero il film più cruento di Garrone: lo è anche più di Gomorra, che pur mostrava momenti ben noti di violenza, non permettendo mai, però, al racconto della faida di Secondigliano di sovrapporsi all’interesse per gli uomini vittima di quel sistema. “Il mio augurio è che i miei film possano emozionare e colpire il pubblico”: così disse Garrone in una intervista di dieci anni fa riferita proprio a Gomorra. E Dogman risponde con estrema coerenza a questo proposito.

dogman di matteo garrone

Garrone ambienta Dogman in una periferia che potrebbe essere tutte le periferie, è riuscito a concepire insieme al suo scenografo Dimitri Capuani una location fatta di sabbia e di costruzioni incompiute, dove degrado e dissoluzione convivono,  e poi con il nuovo direttore della fotografia Nicolaj Brüel ha studiato una trasposizione per immagini fatta di toni lividi, scegliendo non a caso di fare in modo che in cielo non splendesse mai il sole, anzi accentuando le ombre, sottoesponendo (non solo fotograficamente) i suoi personaggi.

Pure splende, comunque, il sole, nella vita di Marcello: fra le varie zone d’ombra della sua vita (la cocaina, l’amicizia con il crudele Giancarlo, la frequentazione coi pusher), c’è la piccola figlia Alida, a cui regala esplorazioni nei fondali marini e con cui sogna di andare alle Maldive. Nulla è casuale nell’impianto di Garrone, per quanto sia ben noto come i suoi film vengano costruiti per gran parte sul set, con il giusto grado di preparazione ma con una sostanziosa (e sostanziale) dose di apertura all’imprevisto e alla spontaneità: Marcello è felice solo sott’acqua, è un anfibio che quando riemerge si rattrista, e solo la figlia può accorgersi di una sfumatura del genere.

In un mondo che il regista è bravo a proporre come irrimediabilmente animalesco e bestiale, alla fine è grazie alla furbizia, è grazie all’intuito che Marcello riesce ad avere la sua rivincita/vendetta: “Ho un piano” pronuncia, fatidicamente, a un certo punto. E alla fine questo piccolo Davide raggrinzito, perseguitato, umiliato, riafferma la propria identità, e vince contro Golia.

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Le Precensioni: Dogman https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni-dogman/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/le-precensioni-dogman/#respond Thu, 17 May 2018 09:16:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10386 Dopo la puntata dedicata alla produzione Netflix Rimetti a noi i nostri debiti, le precensioni di Alabama e Chicken Broccoli tornano questa settimana con un nuovo episodio incentrato sull’attesissimo Dogman (qui il trailer ufficiale), il nuovo film di Matteo Garrone. Presentato in concorso al nuovo Festival di Cannes, il lungometraggio prodotto da Rai Cinema è distribuito nelle sale italiane dal […]

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Dopo la puntata dedicata alla produzione Netflix Rimetti a noi i nostri debiti, le precensioni di Alabama e Chicken Broccoli tornano questa settimana con un nuovo episodio incentrato sull’attesissimo Dogman (qui il trailer ufficiale), il nuovo film di Matteo Garrone. Presentato in concorso al nuovo Festival di Cannes, il lungometraggio prodotto da Rai Cinema è distribuito nelle sale italiane dal 17 maggio.

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Lina Wertmuller: “Meglio non crederci troppo” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/lina-wertmuller-meglio-non-crederci-troppo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/lina-wertmuller-meglio-non-crederci-troppo/#respond Wed, 27 Jan 2016 09:40:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2574 Incontrare Lina Wertmuller non è certo una questione da poco. In primo luogo per la sua attività artistica dallo stile fortemente personale, come gli ormai celebri occhiali bianchi, e, poi, per quel carattere volitivo che, fuori e dentro il set, ha contribuito a costruire il mito di “un osso duro” da affrontare. Il fatto è […]

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Incontrare Lina Wertmuller non è certo una questione da poco. In primo luogo per la sua attività artistica dallo stile fortemente personale, come gli ormai celebri occhiali bianchi, e, poi, per quel carattere volitivo che, fuori e dentro il set, ha contribuito a costruire il mito di “un osso duro” da affrontare.

Il fatto è che Lina (87 anni vissuti tutti con passione), restia a raccontarsi e a celebrarsi, prova molto più interesse per le vicende altrui che per le proprie. Per questo motivo, dopo avermi accolto nella sua casa a pochi passi da Piazza del Popolo tra meravigliose lampade tiffany e sotto lo sguardo vigile del gatto Nerone, sembra preferire i miei racconti ai suoi ricordi. Eppure, nonostante tanta riservatezza, qualcuno è riuscito a guadagnare la sua fiducia, tanto da convincerla a consegnargli i momenti e le sensazioni più importanti di un’intera vita, professionale e non. Si tratta di Valerio Ruiz, giovane aiuto regista della Wertmuller, che ha firmato il documentario Dietro gli occhiali bianchi. Presentato all’ultimo festival di Venezia, questo docufilm rappresenta un viaggio nei luoghi che hanno caratterizzato la carriera della prima regista a ottenere una nomination agli Oscar per Pasqualino Settebellezze.

Così, dai primi passi cinematografici accanto a Fellini, che le insegnò il valore della leggerezza e del divertimento, passando poi per l’indimenticabile coppia Giannini/Melato, con la quale è stata “travolta da un’insolito destino”, Valerio ha cercato di tratteggiare il carattere e gli elementi fondamentali di un’icona dallo stile dissacrante.

Tuttavia, da parte sua Lina Wertmuller non si riconosce come maestra di cinema. Anzi, con uno sguardo tra lo scettico e il divertito, risponde: «Il segreto è sempre stato non crederci troppo».

Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, e Federico Fellini sembrano essere stati due presenze fondamentali nella sua vita, soprattutto per quanto riguarda i primi passi nel cinema. In che modo hanno contribuito alla sua formazione?

Flora è stata l’amica per eccellenza. Ci siamo conosciute sui banchi di scuola e a lei devo il mio avvicinamento al teatro e al cinema. Inoltre, insieme a Mastroianni, mi ha introdotto a Cinecittà facendomi conoscere Fellini, tanto che ho lavorato come suo aiuto regista in 8 e 1/2. Cosa dire di Federico, poi. Lui era la vita. Una meraviglia assoluta. Grazie a lui ho appreso un segreto fondamentale, ossia l’importanza di divertirmi sempre e comunque facendo cinema. Molte sono le storie legate a lui e che possono raccontare il suo modo completamente libero di lavorare, oltre che l’uomo. Una di queste riguarda l’affetto nato tra lui e una bambina su un set mentre stavamo lavorando in Piemonte, se non sbaglio. Federico stava girando Boccaccio ’70 e con lei nacque un legame fortissimo, che io e la madre guardavamo da lontano con grande stupore.

Ha mosso i suoi primi passi professionali in televisione con Gian Burrasca, poi ha frequentato il teatro leggero di Garinei e Giovannini, quello più impegnato di Giorgio De Lullo e, infine, è approdata al grande schermo. Tutte queste esperienze, questi diversi linguaggi, come hanno influenzato il suo modo di fare cinema?

Onestamente non lo so. Non ho mai fatto alcuna differenza. Per me l’intrattenimento e l’arte hanno un valore universale e non importa in che luogo si esprimono. La mia generazione ha avuto, però, un grande vantaggio, ossia quello di poter fare riferimento a dei grandi maestri, dei capifila da seguire e da cui imparare. C’erano Fellini, Monicelli, Visconti, che seguivamo con attenzione e passione. Oggi, invece, chi sono i punti di riferimento? Ce ne sono ancora? Questo, secondo me, è il grande problema delle nuove generazioni di registi. Oltre a dei produttori che non sembrano avere il coraggio di rischiare.

Lina Wertmuller
Lina Wertmuller durante la nostra intervista (ph. Francesca Fago).

Lei è riuscita in un’impresa molto difficile. Pur non girando film di cassetta, le sue storie sono entrate nell’immaginario popolare. In sintesi ha fuso un cuore narrativo intelligente e colto con una forma diretta e facilmente riconoscibile dallo spettatore. Una strada che il cinema italiano attuale sembra non aver seguito.

E ha fatto male. In questo momento nel panorama del nostro cinema mi sembra di vedere un deserto. Apprezzo il lavoro di Matteo Garrone, mentre non amo particolarmente Paolo Sorrentino. Non ho visto La grande bellezza, ma credo che Roma, in particolare, non sia una materia adatta a lui e al suo cinema.

In anni in cui la commedia all’italiana aveva grande forza, lei si è ritagliata uno spazio del tutto personale utilizzando l’arma del grottesco. In che modo questa scelta ha definito il suo cinema? È un po’ come se avesse inventato un nuovo genere, la commedia grottesca alla Wertmuller.

Non so. In verità non mi sono mai soffermata a pensare quale fosse lo stile e la forma narrativa da impiegare. Più di una volta il mio cinema è stato definito grottesco, anche se non comprendo bene gli elementi che hanno portato a questo giudizio. Semplicemente ho fatto delle scelte. Ho scelto le storie e i personaggi che mi piacevano e mi divertivano. Lo stesso vale per lo stile, se così possiamo dire. Però non ho mai applicato delle definizioni al mio lavoro.

Il suo amore per il Sud è sempre presente. Lo troviamo nei luoghi, sicuramente nei personaggi e nel linguaggio. Per quanto riguarda il dialetto, poi, come ha lavorato per renderlo un elemento credibile e fondamentale del suo cinema? 

Senza dubbio il Sud Italia è nel mio cuore. Al Nord credo di aver lavorato veramente poco. Ho girato una parte di Mimì Metallurgico, poi Tutto a posto e niente in ordine e Metalmeccanico e parrucchiera. Il bello dell’Italia è che ci sono molte culture e il loro incontro crea sempre magia. Il dialetto, poi, è fondamentale. Quando collaboravo con il Centro Sperimentale imponevo ai ragazzi di studiarne due, uno del Nord e uno del Sud. E lo fanno ancora oggi. Vedete, non è che gli italiani parlino l’italiano. Prima viene il proprio dialetto. Per questo motivo ho sempre avuto particolare attenzione per questo linguaggio e l’ho costruito per i miei personaggi con amore. Giannini, poi, è stato un interprete meraviglioso di questa lingua.

 Il suo cinema, pur avendo questo cuore così regionale, è stato molto amato dal pubblico e dalla critica americani. Com’è il suo rapporto con i critici?

A me della critica non è mai importato nulla. Ho fatto i film che volevo. Questo è stato importante. Poi, il caso ha voluto che io sia stata molto amata da John Simon, all’epoca spietato critico cinematografico del New York Magazine. Era lo spauracchio di tutti i registi e le attrici. Le cronache delle serate mondane raccontavano dei piatti e bicchieri gettati in faccia a Simon dalle star che aveva criticato. Per questo motivo il suo amore assoluto per Pasqualino Settebellezze è risultato strano perfino al suo editore, tanto da pagargli la trasferta in Italia per venire a intervistarmi. Ricordo che suonò alla mia porta un pomeriggio ma io non lo volli incontrare. Ha provato altre volte, fino a quando è diventato molto amico di mio marito, Enrico Job.

Dopo che Pasqualino Settebellezze ricevette quattro nomination agli Oscar, i produttori americani le fecero una corte spietata. In momenti come quelli, come si resiste alle lusinghe del successo?

Quel periodo è stato intenso. Ero stata nominata come miglior regista dall’Academy e i cinema a Times Square proiettavano i miei film. L’America mi ha amato e io l’ho riamata con entusiasmo. Per quanto riguarda la pressione del successo, poi, è molto facile; basta non ascoltare. Anzi, meglio sarebbe non crederci troppo.

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Apulia Film Commission: ciak, si gira! https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/apulia-film-commission-ciak-azione/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/apulia-film-commission-ciak-azione/#respond Tue, 24 Nov 2015 14:53:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2254 Guarda la videointervista esclusiva di Fabrique al direttore dell’Apulia Film Commission, Daniele Basilio. Un dossier speciale di analisi e scoperta del territorio con interviste ai protagonisti del cambiamento.

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Guarda la videointervista esclusiva di Fabrique al direttore dell’Apulia Film Commission, Daniele Basilio.

Un dossier speciale di analisi e scoperta del territorio con interviste ai protagonisti del cambiamento.

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“Il racconto dei racconti”, una fiaba digitale https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/fiaba-digitale/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/fiaba-digitale/#respond Wed, 09 Sep 2015 14:02:46 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=1891 Bruno Albi Marini è uno dei supervisori di Makinarium, la nuova factory tutta italiana che ha dato corpo ai sogni di Matteo Garrone nel suo ultimo celebrato film tratto dalla raccolta di fiabe di Giambattista Basile. Bruno ci racconta la genesi dell’opera già diventata in pochi mesi il punto di riferimento per gli effetti visivi […]

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Bruno Albi Marini è uno dei supervisori di Makinarium, la nuova factory tutta italiana che ha dato corpo ai sogni di Matteo Garrone nel suo ultimo celebrato film tratto dalla raccolta di fiabe di Giambattista Basile. Bruno ci racconta la genesi dell’opera già diventata in pochi mesi il punto di riferimento per gli effetti visivi italiani.

Com’è nato il gruppo di lavoro che ha realizzato gli effetti visivi – davvero inusitati per una pellicola italiana – del Racconto dei racconti?

Sia io che il mio collega Leonardo Cruciano avevamo lavorato con Matteo Garrone per Reality. Lui si era occupato degli effetti speciali prostetici e io, come Wonderlab, avevo seguito quelli digitali. Quel film fu svolto con molti meno mezzi e in maniera molto più “artigianale”: realizzai tutti gli effetti in prima persona (con l’aiuto di un paio di collaboratori) in un piccolo studio nel mio appartamento. A volte capitava, quando Matteo veniva alle revisioni, che uno dei miei gatti saltasse sulla scrivania…  Era una situazione surreale ma anche piena di creatività e libertà. Ho un bel ricordo di quel percorso creativo e la soddisfazione finale, quando il film ha vinto il Grand Prix di Cannes ed è stato candidato al David per gli effetti digitali, è stata enorme.
Perciò, quando Matteo ha iniziato a ragionare su questa nuova produzione, insieme a Leonardo abbiamo pensato di creare un gruppo che fosse in grado di progettare, seguire e realizzare un film ambizioso come questo. È così che è nato Makinarium (costituito insieme a Nicola Sganga e Angelo Poggi) che, fra effetti speciali ed effetti visivi, è arrivato a contare circa 100 unità lavorative.
Per creare un team che fosse al contempo esperto ma anche giovane e motivato (sapevamo che il progetto avrebbe richiesto, oltre a grandi capacità tecniche e artistiche, anche sforzi e orari non facilmente sostenibili, e che solo l’entusiasmo di un gruppo giovane avrebbe potuto reggere tali ritmi) abbiamo radunato professionalità con importanti esperienze internazionali come Luca Bellano, Matteo Petricone, Amedeo Califano, Giuseppe Motta, che hanno al loro attivo esperienze in film del calibro di Harry Potter, I guardiani della galassia, Troy, Avatar (solo per citare alcuni nomi).
Le tempistiche inizialmente previste erano di circa sei mesi, ma strada facendo (come spesso accade) le cose si sono complicate. Abbiamo ricevuto i materiali per le lavorazioni delle tre scene più complesse girate interamente in teatro (drago, crepaccio e creatura pipistrella, per un totale di circa 120 inquadrature) a fine dicembre. La consegna era prevista per metà marzo, per permettere la candidatura al festival di Cannes. Riuscire a chiudere il film in tempo è stata una vera e propria impresa e anche se alla fine abbiamo ottenuto qualche settimana in più, siamo riusciti a concludere la lavorazione solo grazie all’enorme sforzo e amore per il progetto di ogni singola persona che ha partecipato alla post produzione digitale.

Su quali aspetti visivi del Racconto avete maggiormente lavorato?

La sfida maggiore del film dal punto di vista dei VFX è stata quella della ricostruzione delle creature digitali. Sono state realizzate quattro creature completamente digitali (due pulci di “età” differenti, il drago e la creatura pipistrella) che sono state utilizzate per full CG oppure per integrazioni parziali in tantissime inquadrature. Poi c’è stata la progettazione e realizzazione dell’environment sottomarino per la scena della battaglia col drago, le estensioni e i clean up dei paesaggi, matte painting, integrazioni di fuoco e fumo digitali, ritocchi e ripuliture nel make up e infine le lavorazioni inerenti tutte le trasformazioni, gli invecchiamenti e i ringiovanimenti che hanno richiesto integrazioni sia in 3D che in 2D (abbiamo utilizzato una tecnica mista per raggiungere il massimo realismo in ogni situazione). Le inquadrature lavorate sono state circa 300.
La cosa più interessante nel nostro approccio, e sicuramente poco consueta per l’Italia, è stata la progettazione del lavoro, fin dalla fase di pre-produzione, in maniera congiunta fra effetti speciali prostetici ed effetti digitali, per ottenere un risultato che fosse credibile, originale e con una sua personalità ben definita. La speranza è che questo film dia un segnale a tutto l’ambiente, convincendo il mondo del cinema italiano che si può osare e fare qualcosa di diverso dal solito anche nel nostro paese, confrontandosi, senza sfigurare, con le produzioni internazionali.
È bello sognare che l’intero settore dei VFX in Italia possa beneficiare di questa produzione di cartello. Credo che ci sia troppa competività nel nostro campo e che questo finisca per ritorcersi contro noi stessi. Personalmente, quando esce un film con dei VFX “importanti” faccio sempre il tifo per il team che lo ha realizzato. Credo che solo così facendo si possa crescere e arrivare prima o poi agli standard di lavorazione internazionali, in cui varie società collaborano per la realizzazione dello stesso progetto senza gelosie e invidie ma con l’unico scopo comune di realizzare un prodotto di alta qualità. Ma temo che ci sia ancora tanta strada da fare in questa direzione.

 Quali erano le richieste della committenza (ad esempio riguardo a stile, colori, luce, movimenti)? Erano molto specifiche oppure avete avuto dei margini di autonomia?
Matteo è un regista molto esigente, viene dal mondo della pittura e ha uno stile e un immaginario visivo ben precisi. Il suo gusto personale è quindi lontano anni luce dagli effetti digitali. Ama infatti le imperfezioni, la casualità della realtà laddove il digitale nasce perfetto, pulito e ordinato. In sostanza la prima richiesta era molto chiara. Il digitale non si doveva percepire e doveva, sopratutto, essere funzionale al film e non protagonista. La seconda richiesta riguardava ovviamente lo stile. Leonardo e Matteo hanno lavorato insieme per più di un anno immaginando un mondo con paesaggi, creature e personaggi ben definiti. Noi del reparto VFX dovevamo ovviamente cercare di fare in modo che ogni effetto, animazione, paesaggio, fosse coerente con questo immaginario visivo. Interagire con il gruppo di lavoro per fare sì che gli effetti non prevaricassero mai la storia è stata una delle sfide più interessanti per me. Comunque i margini di autonomia sono stati ampi e, sulla base di una falsariga stabilita a monte, abbiamo potuto esplorare varie strade per poi scegliere insieme a Matteo quella che più rispondeva alle esigenze del film. A volte abbiamo trovato subito la strada più adatta, altre volte, com’è normale, abbiamo percorso molte strade poi scartate.

Il viaggio insomma è stato molto coinvolgente, pieno di creatività, di qualche momento di sconforto e di tante soddisfazioni. Talvolta siamo inciampati ma quel che conta è che ci siamo rialzati e siamo arrivati fino in fondo. Tutti insieme. E permettetemi di ringraziare ancora una volta su queste pagine ogni singola persona del gruppo di lavoro VFX che ha reso possibile tutto ciò: Luca Bellano, Amedeo Califano, Matteo Petricone, Korinne Cammarano, Claudia Coppa, Sara Ciceroni, Miriam Pavese, Rita Torchetti, Tommaso Ragnisco, Giorgio Iovino, Luigi Nappa, Alessandro Contenta, Gabriele Chiapponi, Gian Paolo Fragale, Andrea Salvatori, Giuseppe Motta, Gianluca De Pasquale, Ubaldo Boni, Alessandro Rullo, Davide Cutrone, Andrea Schiavone, Dennis Cabella, Marcello Ercole, Soryn Voicu, Jodi Ann McNamara, Silvia Coscia, Silvia Chicoli.

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