Matilda Lutz Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 02 Sep 2021 13:22:47 +0000 it-IT hourly 1 A Classic Horror Story rimescola le regole del genere https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/classic-horror-story/ Tue, 20 Jul 2021 13:55:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15881 Una rielaborazione del termine classico nei confini del genere horror, un’azzeccatissima scelta glocal e una riflessione su quel concetto di «spettacolarizzazione della morte» che riecheggia in maniera molto forte nella nostra vita quotidiana. A Classic Horror Story (in streaming su Netflix), diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli – che con questo film hanno […]

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Una rielaborazione del termine classico nei confini del genere horror, un’azzeccatissima scelta glocal e una riflessione su quel concetto di «spettacolarizzazione della morte» che riecheggia in maniera molto forte nella nostra vita quotidiana. A Classic Horror Story (in streaming su Netflix), diretto da Roberto De Feo e Paolo Strippoli – che con questo film hanno vinto il premio per la miglior regia al Taormina film festival – guida lo spettatore nelle tortuose vie del complesso meccanismo horror, ponendolo su un piano tutto italiano e gustosamente metanarrativo.

Sud Italia, un camper, cinque persone accomunate dal desiderio di raggiungere la stessa destinazione. Purtroppo per loro, Elisa (Matilda Lutz), Fabrizio (Francesco Russo), Riccardo (Peppino Mazzotta), Mark (Will Merrick) e Sofia (Yuliia Sobol) si scontrano immediatamente con il destino; a seguito di un brutto incidente, la loro vettura rimane fuori uso e si trovano catapultati in un bosco gigantesco il cui unico rifugio è rappresentato da una piccola casa di legno.

Il lungometraggio di De Feo e Strippoli è un film visivamente ricco, i cui punti di forza risiedono nella composizione elegante e nella bella fotografia curata da Emanuele Pasquet. Boscaglie, abitazioni diroccate, culti ctonii, tutti elementi paradigmatici del genere horror classico per eccellenza che servono però come trampolino di lancio per un discorso articolato e personale.

Come ci ha raccontato il co-regista Robeo De Feo: «I riferimenti cinematografici sono stati sicuramente La casa di Sam Raimi, Non aprite quella porta e, in particolar modo per la parte finale del film, Le colline hanno gli occhi e la saga di Scream». Quello che fa la differenza in A Classic Horror Story è la capacità di legare fondamenti archetipici del genere con l’articolato processo di «creazione della tradizione» riferito, in questo caso specifico, alla leggenda di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, padri putativi delle mafie.

Per questo motivo, se nella prima parte del film ci si sofferma maggiormente sugli elementi tradizionali, cinematografici e culturali, di una narrazione gotica/horror, la seconda è dedicata allo spettatore, facendo in modo che questo possa diventare parte integrante del plot. Il meta-dialogo è in grado di rendere il pubblico quasi «il vero vilain di tutto il film», come ricordato dallo stesso De Feo, costringendolo a riflettere e a mettere in discussione le consolidate modalità di visione e fruizione rispetto al genere horror.

Tutto questo rende quindi possibile quel gioco di scatole cinesi che conduce il concetto di classico direttamente nelle mani di chi guarda e di coloro, in special modo, che sono chiamati a “giudicare” il film. Il messaggio di A Classic Horror Story è forte e chiaro: “la morte” – intesa come incapacità di saper apprezzare qualcosa di nuovo – scorre negli occhi di chi guarda e non nel sangue versato tra le assi di una fiabesca casetta di legno in mezzo al bosco. Perciò, il film ci lascia con una speranza: che si stia aprendo una nuova era e una rinnovata consapevolezza per il genere horror di stampo italiano?

 

 

 

 

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L’universale e il suo pubblico https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/luniversale-e-il-suo-pubblico/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/luniversale-e-il-suo-pubblico/#respond Wed, 14 Sep 2016 08:07:06 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3564 L’Universale, storico cinema di San Frediano, ora è un complesso di appartamentini niente male, in una bella zona piena di locali, ma è stato anche una discoteca. Prima di essere qualsiasi altra cosa, però, negli anni ’70 l’Universale era il cinema più celebre di Firenze, un cinema dove lo spettacolo era il pubblico. Federico Micali, […]

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L’Universale, storico cinema di San Frediano, ora è un complesso di appartamentini niente male, in una bella zona piena di locali, ma è stato anche una discoteca. Prima di essere qualsiasi altra cosa, però, negli anni ’70 l’Universale era il cinema più celebre di Firenze, un cinema dove lo spettacolo era il pubblico.

Federico Micali, documentarista al suo primo film di finzione, sceglie di raccontare una storia che non ha vissuto in prima persona – all’Universale ha fatto in tempo ad andarci una sola volta – e lo fa come se stesse rendendo omaggio a un grande divo scomparso e dimenticato. Nel cast i giovani Francesco Turbanti, Robin Mugnaini e Matilda Lutz, ad interpretare lo staff del cinema gli efficaci Claudio Bigagli, Paolo Hendel e Anna Meacci, e uno straordinario cameo di Vauro, fan nostalgico di John Wayne.

Al cinema Universale ci sei stato solo una volta. Eppure nel film si percepisce un’appartenenza a quel luogo, a quel periodo e a tutte le sue vicende. Come ci sei riuscito?

Forse, in realtà, proprio il fatto di non averlo vissuto mi ha aiutato a trovare il giusto distacco. Io, Serena Mannelli, con cui ho scritto il soggetto, Cosimo Calamini e Heidrun Schleef, con cui ho scritto la sceneggiatura, abbiamo studiato tanto e siamo stati molto attenti a che cosa rappresentavamo, perché passando attraverso tre decenni di storia non potevamo approfondire troppo gli argomenti, ma neanche affrontarli con superficialità. Una delle cose che più temevo era il giudizio di chi quegli anni li aveva vissuti veramente.

Da lì alla produzione?

La produzione è stata molto dura. Inizialmente andava tutto bene, il film l’abbiamo prodotto con L’occhio e la luna, una piccola casa che aveva già prodotto alcuni miei documentari. Col passare del tempo però i finanziamenti che avevamo avuto dal Ministero e dalla Regione Toscana erano sempre meno e prima di girare ci siamo trovati di fronte un bivio: andare avanti o lasciar perdere. E io mi sono preso il rischio di girare. Avevamo un budget che ci consentiva in modo molto complesso di girare per 4 settimane con una troupe ridotta, e la cosa più problematica era che stavamo facendo un film che si svolgeva in tre decenni, quindi con invecchiamenti, ringiovanimenti, cambi d’epoca all’interno della stessa giornata e con un sacco di attori e comparse.

universale1Oggi i cinema del centro vengono trasformati in centri commerciali, mentre in periferia è pieno di Multiplex.

Se c’è una cosa che mi piace che passi dal mio film è il valore della sala cinematografica inteso come luogo. Ora i cinema sono un non-luogo, invece il cinema come esperienza da condividere anche con sconosciuti è qualcosa di importante che però può avvenire solo in certi spazi, non se dopo la proiezione ti ritrovi catapultato in un parcheggio. Io mi ricordo che un tempo, quando finiva il film, si rimaneva nel cinema a guardare i manifesti e le foto di scena, a commentarle con gli altri spettatori, ci si scambiava opinioni.

Un Universale oggi. È ancora possibile?

No, e lo dico senza nostalgia, però grazie a questo film sto girando molto l’Italia e ho trovato degli spazi incredibili a Firenze, Roma, Bologna e Milano. Per la distribuzione ci hanno salvato due cose: il passaparola e la programmazione in sale che hanno un loro pubblico affezionato. Questa è un’altra riprova che il cinema indipendente ha veramente bisogno di queste realtà, sono felice di poterne parlare perché è un tema a cui tengo molto.

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