Mad Entertainment Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:24:47 +0000 it-IT hourly 1 Mariacarla Norall costruisce mondi fantastici https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/mariacarla-norall-costruisce-mondi-fantastici/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/mariacarla-norall-costruisce-mondi-fantastici/#respond Mon, 27 May 2024 09:34:36 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19145 Regista, sceneggiatrice e scenografa di animazione di origine italo-inglese, Mariacarla Norall inizia la sua carriera studiando architettura a Manchester per poi trasferirsi a Napoli e lavorare alla MAD Entertainment, la factory creativa e produttiva fondata a Napoli nel 2010 e amministrata da Luciano Stella, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella e Lorenza Stella. Alla MAD, insieme a un team fluido e […]

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Regista, sceneggiatrice e scenografa di animazione di origine italo-inglese, Mariacarla Norall inizia la sua carriera studiando architettura a Manchester per poi trasferirsi a Napoli e lavorare alla MAD Entertainment, la factory creativa e produttiva fondata a Napoli nel 2010 e amministrata da Luciano Stella, Maria Carolina Terzi, Carlo Stella e Lorenza Stella. Alla MAD, insieme a un team fluido e affiatato, lavora per vari reparti ai film Gatta Cenerentola, Yaya e Lennie – The walking Liberty e alla serie animata Food Wizards disponibile su Netflix Italia.

Mariacarla Norall diventa una costruttrice di mondi fantastici e con il suo talento si affianca a una nuova generazione di giovani donne che si stanno facendo strada nel mondo dell’animazione 2D e 3D. Il suo primo corto animato Lizzie and the Sea, prodotto da MAD e presentato nella sezione International Showcase al Cartoons on the Bay 2023, ne mostra tutta la capacità narrativa: gli sforzi che la piccola Lizzie compie per affrontare la paura del mare sono accompagnati da un lavoro compositivo pieno di grazia che fa presagire un brillante futuro.

Come sei arrivata all’animazione?

Ho studiato architettura all’università di Manchester ed è stato un percorso di laurea bellissimo. Purtroppo, ero meno interessata alle leggi della fisica e alle restrizioni delle normative di legge… insomma, a tutto ciò che rende reale e fruibile un progetto. Eppure, per come la vedo io, tutto ciò che mi ha entusiasmato della laurea in architettura, lo ritrovo nel mestiere che faccio oggi. Per me il mondo del cinema e dell’animazione, in particolare della scenografia, è un rifugio nel quale posso e devo vivere come se la mia fantasia fosse realtà. Certo, ci sono restrizioni anche qui – perché anche l’immaginario più incredibile ha bisogno di una logica per poter apparire credibile agli spettatori – ma alla fine dei conti passo le mie giornate a creare luoghi e situazioni che… in realtà non esistono! Mi piace dire che faccio l’architetto delle cose inventate.

Al centro del tuo corto di esordio, Lizzie and the Sea, c’è il tema della paura e di come rischia di bloccarci, mentre è appena l’inizio di un’incredibile avventura trasformativa.

La paura è un sentimento che conosciamo tutti. Anche se a volte ci aiuta a proteggerci dal dolore, spesso non fa che alzare un muro tra le abitudini che ci sono familiari e le nuove entusiasmanti esperienze di cui potremmo godere se solo avessimo il coraggio di affacciarci all’ignoto. L’ironia della sorte vuole che Lizzie, impaurita dell’acqua, abiti proprio in riva al mare. La sua fobia le impedisce di godersi i piccoli grandi momenti di gioia come il bagno a mare o schizzarsi in acqua con il fratello. Per affrontare la paura, suo malgrado, Lizzie deve tuffarsi letteralmente nell’ignoto, che si rivela meno terribile di quanto pensava.

“Lizzie and the Sea”.

La produzione è di Mad Entertainment: mi racconti del rapporto che hai con loro e del lavoro che hai svolto nel corso del tempo da Gatta Cenerentola fino a Lizzie and the sea?

Sono con MAD ormai da otto anni. Dopo la laurea ho lavorato in uno studio di render architettonici a Londra, ma ero alla ricerca di lavori in ambito cinematografico, pur non avendo ancora nessuna esperienza nel settore. Un amico di Napoli mi suggerì di fare domanda alla MAD, che in quel momento cercava una segretaria di produzione per il film Gatta Cenerentola. Non era il ruolo artistico a cui ambivo, ma pensai che potesse essere un buon modo per affacciarmi al mondo dell’animazione, quindi nel giro di pochissimo lasciai lavoro e casa a Londra, subaffittando la mia stanza e pensando di fare un’esperienza lavorativa a Napoli di solo pochi mesi. Otto anni dopo eccomi ancora qui! A poco a poco sono passata dalla produzione al concept e set design e infine alla regia. Con gli amici scherzo sul fatto che sono l’unica persona che ha lasciato l’Inghilterra per trovare lavoro a Napoli! Alla MAD mi sono state concesse delle libertà che non avrei trovato altrove, come sperimentare ciò che mi incuriosiva ma che non faceva parte del mio ruolo, per esempio concept art, post produzione e sceneggiatura. Così ho potuto imparare sotto l’ala dei miei colleghi, in particolare del regista Alessandro Rak che ha scelto di includermi nella squadra artistica e delle scenografe, sempre generose nel condividere con me il loro sapere.

A livello tecnico quali programmi o tecniche (digitali o meno) preferisci usare in questo momento?

Il primo passaggio di qualsiasi idea per me avviene sempre a mano, anche in forma di un incomprensibile sketch a penna bic. In un secondo momento mi aiuto a visualizzare gli spazi creando un’immagine di pittura/collage digitale in Photoshop. Oppure creando delle forme in 3D, con Blender, un software open source. Tendo però a preferire il mondo visivo dell’animazione in 2D, motivo per cui per Lizzie and the Sea siamo stati attenti a creare personaggi, set e metodi di render che potessero avere come effetto finale un risultato apparentemente in 2D.

Quali personalità del cinema tradizionale e d’animazione ti ispirano?

Apprezzo moltissimo il lavoro di Cartoon Saloon, lo studio di animazione irlandese che ha creato film come Wolfwalkers e Song of the Sea. Quest’ultimo, diretto da Tom Moore, è stato di grande ispirazione visiva per Lizzie and the Sea. Adoro sia la sua scelta di raccontare storie legate alla mitologia del luogo in cui abita, sia l’impasto visivo di colori e texture che rende corposo e fiabesco ogni frame del film. Sono poi una grande fan di Wes Anderson, in particolare del suo modo di inscenare film live action come se fossero rappresentazioni teatrali: ho sempre pensato che sarebbe divertentissimo lavorare alle scenografie per un suo film. Adoro anche il suo modo di sottolineare e valorizzare gli aspetti più strampalati dei personaggi, è un’ode all’eccentricità che rende ognuno di noi unico e umano.

C’è un aneddoto emblematico che ha segnato il tuo percorso?

Un aneddoto che mi sta molto a cuore risale a quando vincemmo il premio per i Migliori Effetti Speciali ai David di Donatello per Gatta Cenerentola. Registi e produttori del film erano nel pubblico per seguire la premiazione, mentre il nostro team artistico aveva deciso di incontrarsi quella sera e aprire lo studio in via del tutto eccezionale, per guardare tutti insieme la trasmissione. Ordinammo delle pizze e scrivemmo un messaggio a uno dei quattro registi – Marino Guarnieri – con una lunga lista dei nostri nomi per chiedergli di leggerli sul palco se avessimo vinto. Un gesto che, col senno di poi, sfidava ogni regola della scaramanzia, ma che si rivelò di buon auspicio perché poco dopo venne annunciata proprio la nostra vittoria. L’emozione e l’adrenalina nel ricevere quel premio raggiunse il suo apice quando Marino sfilò dalla tasca il cellulare e, in prima visione, ci elencò uno a uno come promesso.

Mariacarla Norall
Mariacarla Norall.

Hai partecipato a molti festival, come Giffoni e Cartoons on the Bay. Com’è interagire con il pubblico?

Non immaginavo che partecipare ai festival mi sarebbe piaciuto così tanto! Ogni volta che si conclude un festival torno a casa con un’energia rinnovata. Il Giffoni, in particolare, è un’esperienza che non mi scorderò di certo. In inglese usano l’espressione to dive in at the deep end, che letteralmente vuol dire “tuffarsi dove non si tocca”, ovvero trovarsi in una situazione completamente nuova senza nessuna preparazione, e per me il Giffoni è stato così! Alla mia prima proiezione sono entrata in un tendone pieno di migliaia di bambini, con un livello di decibel inimmaginabile, e mi chiedevo come avrebbero fatto a seguire i corti. Ma li avevo sottovalutati: al termine si è formata una lunga fila di bimbi con le domande più disparate, alle quali gli altri registi e io ci siamo divertiti moltissimo a rispondere. Negli ultimi festival è stato indubbiamente incoraggiante ricevere complimenti e approvazione da altri professionisti del settore, ma nulla mi ha entusiasmata tanto quanto vedere interesse e curiosità nei volti dei bambini che hanno visto il mio corto.

A cosa stai lavorando in questo momento e a quale target pensi di rivolgerti nei tuoi prossimi progetti?

Ho tante idee che mi frullano in testa per nuovi corto/mediometraggi, anche se credo che a questo giro il target non saranno i bambini (per loro ho in mente un libro illustrato di racconti, ho già delle bozze). Mi sento molto ispirata da ciò che mi circonda: abitare a Napoli, e più specificamente nel mio quartiere, è come avere dei biglietti in prima fila a teatro. Gli spettacoli sono quasi quotidiani, basta affacciarsi al balcone per vedere inscenate commedie, drammi e, purtroppo, anche tragedie. Ma anche la mia personale storia familiare è fonte di grande ispirazione. Crescere a cavallo di due culture, figlia di due famiglie che competono tra loro per ricchezza di aneddoti strampalati e fuori dal comune, è una ricchezza che un giorno mi piacerebbe poter raccontare attraverso il cinema. Nel frattempo sto lavorando ai concept e al set design del lungometraggio Sono ancora vivo prodotto da MAD e diretto da Roberto Saviano, presentato al Cartoon Movie 2023. In questi giorni il mio pane quotidiano sono le planimetrie, per cui si può dire che la mia laurea in architettura è tornata pienamente a dare i suoi frutti e, come mi auguravo, sono diventata architetto delle cose inventate.

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 Yaya e Lennie, in cerca di libertà in una Napoli sepolta dalla giungla https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/yaya-e-lennie-in-cerca-di-liberta-in-una-napoli-sepolta-dalla-giungla/ Fri, 05 Nov 2021 09:03:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16342 Napoli. Anche nel paese d’o sole perenne, per strano che possa sembrare, la pioggia è una eventualità possibile. E questo lo raccontano tanti film, e bellissimi, dando della città una immagine (vivaddio) finalmente non turistica: L’amore molesto, Il verificatore, L’arte della felicità. Sì, proprio il film d’esordio di Alessandro Rak, che immagina, coi suoi disegni, una metropoli piovosa, grigia, […]

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Napoli. Anche nel paese d’o sole perenne, per strano che possa sembrare, la pioggia è una eventualità possibile. E questo lo raccontano tanti film, e bellissimi, dando della città una immagine (vivaddio) finalmente non turistica: L’amore molestoIl verificatoreL’arte della felicità. Sì, proprio il film d’esordio di Alessandro Rak, che immagina, coi suoi disegni, una metropoli piovosa, grigia, sporca, anti-cartolinesca. La trasfigurazione della città diventerà una cifra stilistica del regista napoletano, il campione del cinema animato contemporaneo che l’Italia può vantare, dopo il folgorante primo film, premiato agli EFA nel 2014, e poi La gatta cenerentola, presentato a Venezia nel 2017 e vincitore di due David, e infine l’ultimo, proiettato in piazza Grande a Locarno, Yaya e Lennie -The Walking Liberty, dove Napoli pure c’è, ma sepolta dalla giungla, affiorante qua e là più come monito che come reperto. 

A piazza del Gesù il clima è più clemente quando raggiungiamo Alessandro Rak e il produttore Carlo Stella, con cui chiacchieriamo su dei divani comodissimi, ma sotto l’inquietante sguardo di un cuscino con le fattezze di Darth Vader.

Prima ancora di parlare di Yaya e Lennie, vi chiederei di svelare l’iter produttivo di un cinema di animazione. Quali differenze ci sono con il cinema live action?

A.R.: Per quanto riguarda la preparazione, secondo me non c’è un grande scarto. Direi che esistono delle libertà diverse nell’immaginare. Intendo che, ovviamente, ci si fa un’idea del budget al quale si va incontro quando si pensa la storia, ma in animazione alcune cose sono meno costose di quanto sarebbero per il cinema reale, per esempio gli effetti speciali; risultano invece estremamente faticose delle cose che nel cinema reale vengono quasi spontanee con la macchina da presa. Mi spiego meglio: se parliamo dell’animazione di un personaggio, nel caso del cinema di animazione si tratta di ricostruire fotogramma per fotogramma ogni comportamento muscolare, espressivo, o addirittura le pieghe del vestito che si muovono insieme alle articolazioni del corpo, una cosa complessissima da fare. Invece nella ripresa live ci pensa l’attore, e la macchina da presa in tempo reale riprende quello che c’è da riprendere. Quanto più si vuole rendere realistico un movimento o un sentimento, tanto più diventa difficile l’animazione. Invece fare effetti speciali, anche far precipitare un meteorite, per noi è di una banalità incredibile a fronte di quello che verrebbe a costare nel cinema live. Infine, l’animazione ha la possibilità di percorrere e ripercorrere di continuo la lavorazione di un momento del film: non è legata a un ciak, ma è un lavoro di miglioramento continuativo che poi a un certo punto va necessariamente arrestato perché da un punto di vista produttivo sarebbe una follia e io e Carlo Stella non andremmo più d’accordo. 

Venendo ora a Yaya e Lennie, come è nata questa idea?

A.R.: In realtà stavamo lavorando a un altro progetto, poi però è uscito un film Disney che aveva troppi punti di contatto con quello che stavamo facendo, si sarebbe potuto forse pensare a un plagio, e invece era un progetto ispirato a una graphic novel a cui avevo lavorato una quindicina di anni fa. Abbiamo deciso di spostarci completamente, abbiamo buttato giù dal nulla un soggetto nuovo proposto dalla produzione, e da lì in tempo brevissimo abbiamo sviluppato una sceneggiatura che ci ha permesso almeno di attivare la fase di pre-produzione del film. Lo spunto originario era Uomini e topi di Steinbeck, poi elaborato dagli altri soggettisti che sono Marino Guarnieri, Dario Sansone e Francesco Filippini, per fare in modo che fosse qualcosa di diverso, che passasse dalla Grande Depressione americana, come nel romanzo, a uno scenario di crisi più estesa, globale, un’apocalisse, con personaggi che invece di essere in difficoltà a trovare un loro posto nel mondo sono giovani ancora più in difficoltà nel trovare la loro collocazione esistenziale. 

Yaya e Lennie
“Yaya e Lennie”, Ciro Priello e Fabiola Balestriere.

I due protagonisti non sono degli eroi, hanno delle fragilità, uno di loro due è raccontato come portatore di un ritardo…

A.R.: Sono antieroi perché sono fragili, e funzionano bene perché hanno due diversi “tempi del vivere”: uno dei due ha un ritardo mentale, ma invece secondo me quello di Lennie è un tempo di vivere diverso, che per certi versi è anche più saggio, più godurioso della vita, quello di Yaya invece è più frenetico, più veloce, più ansioso nella ricerca di qualcosa, ma anche più preoccupato. Questi due personaggi, appena sono venuti fuori, ci sono piaciuti per questo scarto che ci aiutava a generare un conflitto, comunque fraterno, ma che è un filo conduttore in tutta la storia.

Tu hai citato Uomini e topi, ma a un tratto si intravede la copertina di Walden di Thoreau. È stato anche quello una fonte?

A.R.: Sì. Il mito del buon selvaggio e tutte le speculazioni di fine Ottocento e inizio Novecento sulla reinterpretazione della società e la messa in discussione delle basi della civiltà sono stati elementi di discussione e di ragionamento con gli sceneggiatori.

Una provocazione: un film come questo potrebbe far nascere il dubbio che uno sconvolgimento apocalittico del genere, più che fare paura, quasi sembrerebbe auspicabile.

A.R.: Durante la pandemia, una cosa che abbiamo tutti accolto con ammirazione sono state le immagini della natura che si riprendeva i propri spazi, la vegetazione che si faceva rigogliosa, il mare che si ripuliva, fiumi e laghi di nuovo cristallini… Questa condizione fa ingolosire, però noi siamo l’uomo, la nostra presenza la dobbiamo necessariamente manifestare non restando chiusi nei nostri appartamenti, quindi le soluzioni per cui possiamo combattere dovrebbero essere diverse da una sorta di auto-annichilimento.

Dalla vegetazione affiorano opere d’arte del passato, San Matteo e l’angelo di Caravaggio, la volta della cappella di San Gennaro…

A.R.: C’era un’idea di Napoli sotto forma di reperto, il territorio sepolto da questa giungla doveva essere la città di Napoli per come la conosciamo, o anche in una sua prospettiva più avanzata, e quindi per gli amanti della città poteva essere bello veder riemergere alcune testimonianze. Questo lo abbiamo ricercato anche dal punto di vista del sonoro, con gli accenti dei personaggi, o con qualche brano musicale che affiora dal passato.

Il film non è manicheo nel raccontare gli abitanti dei villaggi come i buoni e l’Istituzione come il cattivo assoluto. Nella scena del ricovero di Lennie sembra che si voglia creare un dialogo tra le due realtà.

A.R.: Il personaggio di André è il centro di questa contraddittorietà. L’idea non era quella di costruire buoni o cattivi, ma di costruire delle parti, che poi con l’andamento del film scoprivano i loro difetti. La differenza sostanziale tra i personaggi è che ce ne sono alcuni che hanno ben chiaro come devono andare le cose, mentre altri, come i protagonisti, questa idea non ce l’hanno, hanno curiosità o paura, ma non stabiliscono come gli altri debbano vivere.

Ci raccontate la fase del doppiaggio?

A.R.: Noi in realtà non facciamo il doppiaggio, è più corretto dire che costruiamo delle voci guida. È praticamente l’opposto. La costruzione del nostro film prevede il lavoro con l’attore che poi diventa uno stimolo e una guida e una ispirazione per tutto il processo dell’animazione. Noi ricostruiamo il labiale e tutti i comportamenti fisici e somatici partendo da una voce che sentiamo in cuffia, che è una voce, appunto, ed è stata incisa da un attore che ha lavorato al buio, senza vedere niente se non qualche immagine di storyboard, o qualche schizzo preparatorio. Un attore che a sua volta segue la voce guida del direttore del doppiaggio che gli dà le indicazioni di com’è la situazione, del suo assetto fisico, di dove si trovano gli altri personaggi sulla scena, di qual è il tempo della scena, se è affrettato oppure se è molto lento, e in base a tutto questo l’attore regola la sua voce, di fatto parlando con dei fantasmi. Da questo, poi, si arriva a un lavoro di taglia e cuci che è il nostro montaggio del sonoro, che si aggiunge al videoboard realizzato nel frattempo, e così si arriva ad avere la scena già leggibile.

Tutto questo è estremamente affascinante. La fase della registrazione delle voci potrebbe essere quella in cui maggiormente il regista compie un intervento sulla realtà, che in questo caso è l’attore, che può metterci anche del suo, nell’interpretazione, seppure solo con la voce.

A.R.: E noi vogliamo che ciò accada. Vogliamo che l’attore si appropri del personaggio, per costruire quel match che nell’arco di tre film posso dire che avviene all’improvviso. Raramente sappiamo tutto dall’inizio, e nel momento in cui avviene siamo pronti a rifare tutto da capo.

C.S.: Ci vogliono grandi prove attoriali, perché in quel momento il fisico viene escluso totalmente, non gestisci più espressione, trucco, parrucco, ma è tutto affidato solo alla voce. 

A.R.: E poi ieri, in occasione dell’anteprima, abbiamo assistito alla situazione divertente che si crea dopo: gli attori, a differenza dei film live action, quando si rivedono si trovano diversi nell’aspetto, ma con dei comportamenti fisici che rimandano a loro, perché nella ricostruzione che l’animatore fa in cuffia è come se venisse naturale creare una somiglianza del personaggio con l’attore. Quindi per l’attore rivedere il film deve essere strano, perché non si è se stessi, però poi arrivano dei lampi in cui ci si riconosce.

C.R.: Inoltre, gli attori non si sono mai incontrati quando sono state registrate le voci. 

A.R.: Infatti. Nel caso di Yaya e Lennie, Ciro Priello e Fabiola Balestriere si sono incontrati, ma nel caso di altri attori, che pure nel film interagiscono, l’interazione non è stata reale. Quindi per loro deve essere una strana emozione.  

L’intervista completa sarà sul prossimo numero di “Fabrique du Cinéma” in uscita ai primi di dicembre.

 

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