Luca Marinelli Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 20 Jul 2022 14:04:12 +0000 it-IT hourly 1 David di Donatello 2020, una premiazione ai tempi del Covid https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/david-di-donatello-vincitori/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/news/david-di-donatello-vincitori/#respond Sat, 09 May 2020 09:02:30 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13918 Una cerimonia sobria, insolita, senza pubblico e tappeti rossi, ha fatto da cornice alla proclamazione dei David di Donatello 2020. Il traditore, film del regista Marco Bellocchio con ben sedici candidature, ha fatto incetta di premi, conquistando le statuette più ambite del cinema italiano in ben sei categorie: “Miglior film dell’anno”, “Miglior regia”, “Miglior sceneggiatura […]

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Una cerimonia sobria, insolita, senza pubblico e tappeti rossi, ha fatto da cornice alla proclamazione dei David di Donatello 2020. Il traditore, film del regista Marco Bellocchio con ben sedici candidature, ha fatto incetta di premi, conquistando le statuette più ambite del cinema italiano in ben sei categorie: “Miglior film dell’anno”, “Miglior regia”, “Miglior sceneggiatura originale”, “Miglior montatore” ,  “Miglior attore non protagonista” a Luigi Lo Cascio e “Miglior attore protagonista” a Pierfrancesco Favino.

È proprio quest’ultimo, non appena proclamato vincitore e aver ricevuto un bacio in diretta da sua moglie, l’attrice Anna Ferzetti (candidata nella categoria “Miglior attrice non protagonista” per Domani è un altro giorno), a pronunciare le parole più significative della serata. L’attore, tra i più apprezzati nel panorama del cinema italiano, raccontando un aneddoto, accaduto poco prima del lockdown, ricorda una signora incontrata nell’androne di un palazzo, che aveva visto per due volte un suo film e che salutandolo gli disse: “Torni presto a trovarci”. “Sono orgoglioso di appartenere alla categoria dei lavoratori dello spettacolo e volevo dire a quella signora, che non vediamo l’ora di tornarla a trovare” ha affermato Favino.

Molti gli appelli per non dimenticare tutte le maestranze del mondo dello spettacolo, costrette a casa e senza tutele in questo periodo di stop forzato: dal video tributo realizzato dai candidati alle parole del Ministro Franceschini, intervenuto in diretta, fino al discorso di Piera Detassis (Presidente dell’Accademia del Cinema Italiano – Premi David Di Donatello) e al messaggio del Presidente Mattarella letto ad inizio serata da Conti. Il Presidente ha scritto parole di speranza molto importanti: “Il Cinema è l’arte del sogno che si realizza concretamente. Sarà necessario tornare a sognare e a far sognare, compito affidato all’arte. L’augurio e il sogno che vi affido è che la rinascita sia accompagnata da un’ esplosione di creatività, così come accadde con il neorealismo, nel dopoguerra.”

Valeria Golino si è aggiudicata il premio come “Miglior attrice non protagonista” per il film 5 è il numero perfetto, opera prima di Igort. “Miglior attrice protagonista” invece è risultata Jasmine Trinca con il film La dea fortuna di Ferzan Opzetek, un film che parla di “cos’è la famiglia: il posto del cuore e della cura. E a Fra ed Elsa va la dedica del premio” ha dichiarato l’attrice.

La dea fortuna ha trionfato anche nella sezione “Miglior canzone originale” con il brano Che vita meravigliosa, cantato dal vincitore dell’ultimo Festival di Sanremo, Diodato. Pinocchio di Matteo Garrone si è aggiudicato cinque categorie: “Migliori effetti visivi”, “Miglior acconciatore”, “Miglior costumista”, “Miglior truccatore” e “Miglior scenografo”.

Il Primo Re, film storico ambientato nell’anno di fondazione di Roma, diretto da Matteo Rovere, che ai Fabrique Awards 2019 ha vinto i premi per il “Miglior attore” (Alessio Lapice) e per il “Miglior tema musicale” (Andrea Farri), ha ottenuto tre David per “Miglior autore della fotografia” a Daniele Ciprì, “Miglior Produttore” e “Miglior suono”. Martin Eden di Pietro Marcello, con Luca Marinelli nei panni del protagonista, si è portato a casa il David per la “Miglior sceneggiatura non originale”.

Il giovane regista Phaym Bhuyan, incredulo e felice, ha ricevuto il premio come “Miglior regista esordiente” per il film Bangla. Ficarra e Picone hanno vinto il David dello Spettatore per il maggior numero di spettatori avuti nelle sale con il loro film Il primo Natale. Mio fratello rincorre i dinosauri basato sul libro di Giacomo Mazzariol, si è guadagnato il David Giovani, assegnato da una giuria nazionale di studenti degli ultimi due anni di corso delle scuole secondarie di II grado. Il premio al “Miglior cortometraggio” è andato a Inverno. Parasite, vincitore di quattro premi Oscar, ha ottenuto il riconoscimento come “Miglior film straniero”.

Non sono mancati importanti omaggi ad icone del cinema italiano: dal David speciale all’attrice Franca Valeri, che compie cento anni proprio quest’anno al ricordo del regista Federico Fellini e dell’attore Alberto Sordi a cento anni dalla loro nascita.

“Questo è un tempo di sfide in cui bisogna immaginare quello che sarà. Abbiamo voluto esserci. Il cinema c’è ancora e ci sarà; durante il lockdown ci siamo accorti che senza immagini non si sogna. Vorrei che il cinema, per dirla come Pierfrancesco Favino, tornasse presto a trovarci.” Conclude la Detassis quasi in chiusura. Anche Marco Bellocchio, grande protagonista della serata, ha confessato: “Ho ottanta anni, ma spero di poter fare ancora altri film in cui credo. Bisogna fare le cose più belle che si possono fare senza perdere tempo.”

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Venezia 76: Martin Eden, Pietro Marcello affascina ma non rende giustizia a Jack London https://www.fabriqueducinema.it/festival/venezia-76-martin-eden-pietro-marcello-affascina-ma-non-rende-giustizia-a-jack-london/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/venezia-76-martin-eden-pietro-marcello-affascina-ma-non-rende-giustizia-a-jack-london/#respond Tue, 03 Sep 2019 07:54:39 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13234 A quattro anni di distanza dal successo internazionale di critica di Bella e perduta (che vinse premi in numerosi festival in giro per il mondo, tra cui Locarno), Pietro Marcello torna con un progetto molto ambizioso: l’adattamento di uno dei più importanti romanzi dello scrittore statunitense Jack London, Martin Eden. Vista la natura anticonvenzionale e […]

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A quattro anni di distanza dal successo internazionale di critica di Bella e perduta (che vinse premi in numerosi festival in giro per il mondo, tra cui Locarno), Pietro Marcello torna con un progetto molto ambizioso: l’adattamento di uno dei più importanti romanzi dello scrittore statunitense Jack London, Martin Eden. Vista la natura anticonvenzionale e libera del suo cinema, da sempre refrattario alle standardizzazioni e difficilmente riducibile a qualsivoglia etichetta, l’attesa per questo nuovo film di finzione del quarantatreenne regista casertano era molto alta. E Marcello, anche in questo caso, si conferma un cineasta talentuoso dallo sguardo originale, che si pone fieramente al di fuori delle logiche dell’industria.

La nota storia del giovane marinaio dalle umili origini che per amore di una bella ragazza altoborghese decide di acculturarsi e lottare strenuamente per divenire uno scrittore di fama, viene trasposta dal regista e dal co-sceneggiatore Maurizio Braucci (già collaboratore di Marcello nel citato Bella e perduta) in una Napoli dove i riferimenti temporali non sono mai ben definiti e tendono a spaziare nel corso dei decenni del Novecento. Dalla California di inizio secolo scorso del romanzo, dunque, si passa a un capoluogo campano sospeso nel tempo. L’intento è quello di evidenziare come il testo di London, pubblicato integralmente per la prima volta nel 1909, abbia anticipato alcuni dei grandi temi che hanno segnato profondamente tutto il Novecento: la contrapposizione tra visione individualista e socialista del mondo, la prepotente affermazione della cultura di massa, la lotta di classe.

martin eden 2

A questo scopo, come del resto ci aveva già abituato in Bella e perduta, Pietro Marcello gioca in maniera intrigante con l’alternanza di riprese dal vivo e materiale d’archivio, rendendo così anche sul piano prettamente visivo il legame delle vicende narrate con quelle della Storia (il film si apre con alcune immagini dell’anarchico e scrittore italiano Errico Malatesta). Se questo stratagemma stilistico conduce a momenti molto stimolanti, in particolar modo sul piano strettamente formale (ogni singola inquadratura è una gioia per gli occhi di chi guarda), a deludere è l’assenza di una struttura drammaturgica sufficientemente forte e del necessario approfondimento dei complessi temi introdotti.

Nel suo libero adattamento del lavoro di London, Marcello decide di isolare solo pochi momenti-chiave del romanzo. In questo modo, però, diversi importanti passaggi narrativi risultato troppo veloci (ad esempio, la nascita in Martin Eden dell’ardente passione per la cultura e dell’interesse per la politica, le incomprensioni con la donna di cui si innamora a prima vista e con il marito della sorella) e alcuni rapporti tra i personaggi, fondamentali per lo sviluppo della storia, rimangono in superficie (su tutti, quello tra il protagonista e l’intellettuale Russ Brissenden).

Di conseguenza il film non si dimostra in grado di sfruttare il notevole potenziale drammatico e melodrammatico che risiede nella pagine dello scrittore statunitense e finisce anche per non stimolare un’adeguata riflessione sui nodali temi che vorrebbe mettere in risalto. Nonostante la rara eleganza formale, le buone prove di tutti gli attori principali (Luca Marinelli è una conferma, la giovane Jessica Cressy una piacevole sorpresa) e l’assai lodevole volontà di seguire sentieri poco battuti nel panorama cinematografico italiano, dunque, Martin Eden fallisce nel suo obiettivo primario: portare sul grande schermo la consistenza e l’acutezza dell’opera di Jack London. 

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Giornate degli Autori: Ricordi? La memoria sentimentale di Luca Marinelli https://www.fabriqueducinema.it/festival/giornate-degli-autori-ricordi-la-memoria-sentimentale-di-luca-marinelli/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/giornate-degli-autori-ricordi-la-memoria-sentimentale-di-luca-marinelli/#respond Tue, 04 Sep 2018 13:00:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11238 «Il passato è passato. Lasciamolo un po’ in pace ché se no si consuma». Se lo ripromettono i protagonisti di Ricordi? film in Concorso nella sezione Giornate degli Autori sul Lido veneziano. Un ragazzo e una ragazza s’incontrano, si piacciono, hanno una laison. Il loro amore attraversa il tempo, i filtri della memoria e le loro […]

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«Il passato è passato. Lasciamolo un po’ in pace ché se no si consuma». Se lo ripromettono i protagonisti di Ricordi? film in Concorso nella sezione Giornate degli Autori sul Lido veneziano. Un ragazzo e una ragazza s’incontrano, si piacciono, hanno una laison. Il loro amore attraversa il tempo, i filtri della memoria e le loro singole sensibilità, accende i ricordi, manipola i contrasti. I due si dividono, si rincontrano, metabolizzano il passato e lo virano ognuno del proprio punto di vista.

La coppia è formata da Luca Marinelli e Linda Caridi. Lei potrebbe essere la nostra Rooney Mara: solida eppure fragile la sua parte come la sua energia a due fasi. Fruscello o frustino per un Marinelli molto fedele a sé stesso, non trasformato ma declinato a innamorato etereo. Si parte come se vivessimo in un vecchio film di Rohmer, sembra che si stia bagnando tutto di Nouvelle Vague quando i viraggi mnemonici dei protagonisti si materializzano su piani narrativi e percettivi differenti e mescolati come carte da gioco. Il ritmo del montaggio è morbido e flessuoso, l’estetica trionfatrice, così si passa da tagli alla Bertolucci d’annata fino all’approdo su ambizioni pensiero/immagine á la Terrence Malick.

ricordi

C’è molta ricchezza in questo lavoro scritto e diretto da Valerio Mieli, alla sua seconda regia. Torna a nove anni dall’avvolgente Dieci inverni con Isabella Ragonese, e, guarda caso, Michele Riondino, che quest’anno presenta i gala d’apertura e chiusura della Mostra del Cinema di Venezia. I piani tra passato e presente sembrano incrociarsi ironicamente anche fuori da Ricordi? Mieli li muta adattandoli ai suoi innamorati. Il presente si caratterizza vivido di sfumature, mentre i passati traghettano visioni ovattate o vivide, a seconda del mood del personaggio che li filtra col suo sentire. Amore, incomprensione, ripicca, tradimento, perdono.

La stessa scena ha versioni diverse montate a incastro come fosse un Cubo di Rubik. Da questo punto di vista, l’elegia del passato utilizzata si configura come una ricerca visiva di un trattato psicologico sul plasmare ricordi. Sposta le sue energie più preziose non banalmente nella caratterizzazione del personaggio ma in quella del suo sentire. Ogni sensazione diventa mondo, ogni ricordo un viaggio. Un sospeso tra malinconia e vitalità costella queste due ore di romanticismo esistenziale 2.0.

ricordi

A fianco di Marinelli e Caridi troviamo Giovanni Anzaldo e Camilla Diana. Il primo amico della coppia, la seconda, ragazza dei primi ricordi amorosi di lui. Traghettatori o amanti? Testimoni di una lunga relazione, pacieri o distruttori? Anche qui Mieli gioca le sue carte senza troppe scontatezze, ma si concentra nelle proiezioni mentali dei protagonisti. Conta più la sensazione del fatto. È un tipo di cinema ardito questo. Molto più di Dieci inverni. La narrazione scavalca ogni linearità per approdare a un doppio flusso di coscienza incrociato. Molte volte ci si perde, forza e debolezza del film, ma caratteristica fondante. L’autore ha il coraggio di mettere tutto in mano allo spettatore, di seguire e soprattutto di sentire quelle due anime. Guardato a mente aperta il viaggio di Ricordi? offre la possibilità di vivere un’esperienza profonda e complessa, rischiosamente empatica e a volte piacevolmente oltre i confini della logica, ma immersa nel territorio del sentire ben oltre la storia sullo schermo.

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Torino Film Festival 2016: Fertility Wave https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/torino-film-festival-2016-fertility-wave/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/torino-film-festival-2016-fertility-wave/#respond Mon, 21 Nov 2016 10:09:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3802 Prima considerazione: gli italiani tornano a fare figli. Da giovani, da giovanissimi, anzi da minorenni. Se la realtà ci parla di un paese demograficamente in panne, con la morsa della precarietà a soffocare ogni desiderio (incluso quello di riprodursi), il cinema italiano risponde raccontandoci tutta un’altra storia. E così, dopo gli adolescenti incinti di Piuma, […]

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Prima considerazione: gli italiani tornano a fare figli. Da giovani, da giovanissimi, anzi da minorenni. Se la realtà ci parla di un paese demograficamente in panne, con la morsa della precarietà a soffocare ogni desiderio (incluso quello di riprodursi), il cinema italiano risponde raccontandoci tutta un’altra storia. E così, dopo gli adolescenti incinti di Piuma, ecco che il festival di Torino presenta in questi giorni SLAM – Tutto per una ragazza di Andrea Molaioli, storia di due sedicenni allegramente alle prese con una gravidanza inaspettata. Anche in questo caso, come nel film di Roan Johnson, la direzione imboccata dai ragazzi è a un senso solo: il bambino si terrà, punto e basta, contro la volontà della famiglia e il parere degli amici. E anche in questo caso, come per Piuma, la chiave scelta è quella della commedia, con un ricorso puntuale al registro del surreale (là erano sequenze oniriche, qui veri e propri sogni, anzi incubi del protagonista). In entrambi i casi, la scelta dei nostri autori è in controtendenza con la realtà: che sia indice di un fantozziano scollamento del cinema dal paese reale, o di un ribelle e legittimo slancio di fantasia autoriale, è forse troppo presto per dirlo. Ma la fertility wave imboccata di recente è un segnale da ascoltare. Un allarme, probabilmente.

Seconda considerazione: nel nostro cinema le donne, se fanno un figlio, smettono di ridere. Ammesso che l’abbiano mai fatto prima. Succede in Piuma, succede nel film di Molaioli (dove pure la brava Jasmine Trinca, nel ruolo della giovanissima madre del protagonista, ha spazio e corpo in scena), e la recidiva diventa irritante: il motore comico in entrambi i film è affidato interamente ai maschi, immaturi e sognatori, terrorizzati dalla responsabilità, incerti sulla direzione da far imboccare alla propria vita. Umani, perciò simpatici, capaci di catturare le simpatie dello spettatore. Le donne no. Granitiche, bidimensionali, dritte come panzer alla meta: riprodursi, diventare o essere mamme, come (unica) missione di vita. Schiacciate nel ruolo del contraltare drammatico alla vitale voglia di vivere del maschio, le donne sono la parte più debole di questi due film: sono lo scalino su cui è inciampato Piuma un passo prima di atterrare in vetta, sono il muro su cui si schianta SLAM prima ancora del decollo.

Terza considerazione: SLAM, a differenza di Piuma, non è un soggetto originale. È tratto dall’omonimo romanzo di Nick Hornby, adattato per l’occasione alla realtà di Roma, e dalla pagina scritta “ruba” giustamente personaggi, battute, situazioni. Ma dimentica, ed è forse il difetto più grave del film, di sfruttarne – visivamente, narrativamente – una parte importante. La cultura dello skate, di cui il protagonista Samuele è appassionato, resta una cornice superflua, scollata dalla trama, un dettaglio di colore che non aggiunge nulla alla vicenda. Samuele è uno skater, il suo amico Lepre anche, ma di quel mondo (che poi è un universo, con le sue regole e i suoi riti) nel film non resta nulla più di qualche scena su un half-pipe. Peccato. È come aver messo una pistola nel film e non averla fatta sparare. Non si fa. Soprattutto se la voce fuori campo è quella di Tony Hawk.

Al netto delle considerazioni, SLAM delude nel contesto di un festival che ci aveva abituati meglio. Un film commerciale che non fa il suo dovere, con musiche piacione per un target over trenta (Eels, Cake, Pixies), e una storia di poche ambizioni, scarsa cura, tirata via come a liberarsene in fretta. Come dice la filosofia dello skate: l’importante non è riuscire a fare il trick, ma provarci. Aspettiamo in pista Molaioli, in attesa che gli riesca di nuovo un forward flip.

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“Jeeg Robot”: il cinema di genere risorge e combatte https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/jeeg-robot/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/jeeg-robot/#respond Mon, 09 May 2016 14:25:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3109 Il romano Gabriele Mainetti ha esordito nel lungometraggio con un film bizzarro e originale, capace di intrattenere fondendo felicemente generi e toni. E ha sorpreso un po’ tutti. In l’Italia il cinema di genere e d’intrattenimento è il più delle volte sinonimo di commedie nazional-popolari che, più o meno riuscite a seconda dei casi, sono […]

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Il romano Gabriele Mainetti ha esordito nel lungometraggio con un film bizzarro e originale, capace di intrattenere fondendo felicemente generi e toni. E ha sorpreso un po’ tutti.

In l’Italia il cinema di genere e d’intrattenimento è il più delle volte sinonimo di commedie nazional-popolari che, più o meno riuscite a seconda dei casi, sono troppo spesso molto simili tra loro. In questo contesto, dopo il fortunato caso del 2014 di Smetto quando voglio (trovate l’intervista a Sibilia nel numero 6 di Fabrique), Lo chiamavano Jeeg Robot rappresenta un altro importante elemento di discontinuità. Al suo primo lavoro dietro la macchina da presa, infatti, Gabriele Mainetti ha realizzato un film di supereroi molto sui generis ambientato in una Tor Bella Monaca dominata dalla malavita. L’operazione è coraggiosa e risulta strettamente legata alla poetica portata avanti dal regista sin dai pluripremiati cortometraggi Basette (2006) e Tiger Boy (2012) . Con Gabriele, in passato anche attore per il cinema e per la televisione, abbiamo parlato della particolarità del suo progetto, delle sue passioni cinematografiche e di molto altro ancora.

 Come nasce l’idea alla base di Lo chiamavano Jeeg Robot e qual è il legame, per alcuni aspetti molto evidente, con i tuoi lavori precedenti da regista?

La mia collaborazione con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone va avanti da diverso tempo. Lui infatti, prima di scrivere insieme a Menotti Jeeg, si era occupato del soggetto e della sceneggiatura sia di Basette che di Tiger Boy. Entrambi siamo cresciuti con Bim Bum Bam, che è stato per noi una sorta di baby sitter, e ci piace spesso far riferimento al mondo dell’anime giapponese perché è come se ci offrisse l’opportunità di entrare di nuovo in contatto con i miti della nostra infanzia. Fin dai corti è nata così una formula che consiste nel contaminare la realtà quotidiana romana con l’immaginario e i protagonisti di alcuni anime molto noti. In Jeeg però abbiamo introdotto per la prima volta l’elemento “supereroico” (il Lupin di Basette e l’Uomo Tigre di Tiger Boy non lo erano): in questo modo abbiamo voluto proporre la nostra personale visione di un filone cinematografico con il quale gli americani negli ultimi anni ci stanno in qualche modo lobotomizzando.

Il protagonista del tuo film in effetti è molto diverso dai supereroi che siamo abituati a vedere nel cinema statunitense. In che modo se ne differenzia?

Enzo Ceccotti, oltre a essere associato a Jeeg Robot esclusivamente dalla fantasia della protagonista femminile Alessia (non a caso indosserà la maschera del supereroe, fatta a maglia, solo nel finale), non vuole aiutare gli altri perché li detesta. È un delinquente di periferia che decide di accettare le responsabilità legate ai propri poteri dopo un lungo arco di trasformazione, grazie allo svilupparsi del rapporto con lei. Stiamo quindi parlando di tutto un altro contesto rispetto a quello di celebri supereroi come Batman, Superman o Spiderman.

Uno degli elementi in assoluto più riusciti del film è l’alternanza dei toni drammatici e comici. In alcuni momenti i passaggi sono anche repentini ma, grazie all’apporto della sceneggiatura, della regia e delle interpretazioni, funzionano sempre.

In effetti quella di fondere i registri della commedia e del dramma è un’idea che ho sempre perseguito. Per raggiungere il risultato che si vede nel film è stato fondamentale il lavoro sui personaggi. Affinché tutto funzioni è molto importante che risultino veri, anche nel caso abbiano tratti marcatamente surreali o fantasiosi. All’inizio ero preoccupato dal dover trovare il giusto equilibrio tra i due toni, ma poi tutto si è risolto ancorandomi alla semplicità della storia e alla verità dei personaggi. Gli attori hanno svolto un ruolo essenziale, in particolare i tre straordinari interpreti Claudio Santamaria, Luca Marinelli e l’esordiente Ilenia Pastorelli. Abbiamo lavorato davvero tanto insieme per ottenere quello che cercavamo. Claudio è un attore incredibile, oltre che un mio grandissimo amico, e ha preso venti chili per interpretare un personaggio che gli ha pemesso di fare qualcosa di completamente diverso. Luca, più di ogni altra cosa, mi ha sorpreso per la capacità di far evolvere in continuazione il personaggio, anche sul set. Ilenia invece, pur non avendo mai recitato prima, ha dimostrato uno straordinario talento naturale sul quale poter continuare a lavorare.

In altre occasioni hai affermato di essere interessato al cinema di intrattenimento e di genere più che a quello squisitamente d’autore. Ci puoi chiarire il tuo pensiero a riguardo?

Alla base, la mia è una concezione del cinema come intrattenimento. Non ho nulla contro il cinema d’autore, anzi, ma non condivido l’atteggiamento di chi parte con l’idea di fare film d’autore. A mio avviso il vero autore, prima che qualcuno glielo faccia notare, non è neppure consapevole di esserlo. Personalmente non nutro particolari ambizioni di far riflettere lo spettatore. Quello che mi interessa è giocare con la commistione di più generi tentando di essere sensibile al contemporaneo, al mondo che ci circonda. Vedo quindi il genere come uno strumento con il quale raccontare la contemporaneità.

Qual è il cinema a cui ti senti più vicino? Le tue principali ispirazioni cinematografiche?

Da piccolo guardavo a ripetizione, insieme a mio padre, i film di Indiana Jones, 007 e quelli di Monicelli come L’armata Brancaleone, I soliti ignoti, Il marchese del Grillo e Amici miei. Poi, nel momento in cui ho iniziato a studiare storia e critica del cinema all’università, ho cominciato ad avere una conoscenza più ampia della settima arte. In più ho senz’altro una passione sfrenata per il cinema asiatico e, in particolare, per il cinema di Takashi Miike, Takeshi Kitano e Park Chan-wook. Se di Miike mi diverte molto la modalità di messa in scena della violenza e Kitano in qualche modo mi ha proprio educato al cinema, Old Boy di Park Chan-wook è forse il mio film preferito in assoluto. Amo lo sguardo proposto dal cinema asiatico, contraddistinto da una messa in scena potente ed elegante, e la capacità di questi film di essere drammatici e comici allo stesso tempo.

Hai già qualche idea sul tuo prossimo progetto?

Sicuramente voglio continuare a lavorare sulla contaminazione di diversi generi. Attualmente ho due soggetti già pronti e un soggetto in via di sviluppo. Ne ho già parlato con alcuni possibili collaboratori e co-produttori. Una volta che tornerò con i piedi per terra dopo l’incredibile accoglienza ricevuta per Jeeg, sceglierò il progetto dei tre che mi stimolerà di più, anche se dovesse trattarsi di una cosa piccola e semplice.

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Perché tu, tu sei Jeeg https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/perche-tu-tu-sei-jeeg/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/perche-tu-tu-sei-jeeg/#respond Thu, 25 Feb 2016 13:10:30 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2766 Comincia come una puntata di “Gomorra” e finisce come “Il cavaliere oscuro”. Un connubio impossibile? No, se si ha il coraggio di osare e offrire al pubblico una storia avvincente, vecchia e nuova allo stesso tempo, capace di far dimenticare e perdonare un po’ di quella artigianalità che inevitabilmente sostituisce i budget a otto zeri […]

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Comincia come una puntata di Gomorra” e finisce come “Il cavaliere oscuro”. Un connubio impossibile? No, se si ha il coraggio di osare e offrire al pubblico una storia avvincente, vecchia e nuova allo stesso tempo, capace di far dimenticare e perdonare un po’ di quella artigianalità che inevitabilmente sostituisce i budget a otto zeri dei film di Hollywood.

Con una premessa del genere stiamo parlando ovviamente di Lo chiamavano Jeeg Robot, sorprendente opera prima di Gabriele Mainetti da oggi nelle sale, che vede Claudio Santamaria nei panni di un supereroe con tutti i crismi. Un piccolo criminale della periferia romana che entra per caso in possesso di doti sovraumane e all’inizio non sa cosa farsene, se non rapinare banche per continuare a vivere nella sua topaia. Questo almeno finché sul suo cammino non incontra Alessia (Ilenia Pastorelli), una ragazza instabile e naïve, convinta che lui sia realmente un supereroe come quello del suo cartone animato preferito, Jeeg Robot d’Acciaio, e che il suo dono possa fare del bene a tanti, a partire proprio dal suo cuore irrigidito da anni di miseria e degrado.

Su Fabrique non potevamo perdere l’occasione di parlare di un esordio così insolito, tanto che al regista abbiamo dedicato una lunga intervista in uscita sul prossimo numero di marzo. Ma una scommessa di tale portata merita qualche parola anche in occasione del suo arrivo sul grande schermo, trattandosi di un esperimento che il nostro cinema non faceva da tempo immemorabile, o almeno non in modo convincente.  Mainetti ha è riuscito infatti a rimescolare tutti i generi di cui i nostri occhi si sono nutriti negli ultimi anni, ma allo stesso tempo con la capacità di personalizzare ogni dettaglio con un’impronta nuova e profondamente radicata nella realtà.ruota

Jeeg ricorda i primi cinecomic americani, quelli più genuini, da Batman Begins allo Spiderman di Sam Raimi, e grazie a una scrittura oculata accompagna lo spettatore alla scoperta della storia del supereroe per caso Enzo Ceccotti, riesce a farci immaginare il suo pesante background senza bisogno di psicologismi e grandi spiegoni. Lo stesso vale per il personaggio di Alessia e del cattivo, perfettamente impersonato da un grande Luca Marinelli (che fosse un ottimo attore lo sapevamo da La solitudine dei numeri primi, ma qui nessun dubbio è ormai possibile): tutti i profili sono caratterizzati non solo attraverso l’esposizione del loro passato ma da piccoli particolari che ce li fanno comprendere in modo istintivo e li rendono vivi, palpabili e coinvolgenti. I DVD porno nella casa del supereroe, gli acquisti infantili, la passione per la musica nazionalpopolare trash dell’antagonista (ma dov’è che lo avevamo già visto? Ah sì… Inizia con la B…). Nonostante la lunga durata, quasi nessun elemento del film è inessenziale; appare solo poco efficace il tentativo in sottofondo di parlare di uno Stato ostaggio delle mafie e di una cittadinanza in preda al terrore, ma visto l’epoca storica forse anche questo piccolo excursus non è poi così fuori luogo.

Quando abbiamo incontrato Claudio Santamaria, in occasione della presentazione del film alla stampa, ci ha descritto il personaggio come: «Un uomo chiuso in se stesso, lontano dagli altri, che si considera una nullità, un perdente, e che vede il mondo come una massa indistinta di corpi che gli ruotano intorno, di persone tutte uguali che per lui non hanno nessun valore. Solo il personaggio di Alessia, nonostante l’immensa ferita interna che porta con sé, gli fa vedere che il mondo non è un unico blocco di persone tutte grigie, che ci sono dei colori e che tutti hanno una storia personale che vale la pena di conoscere e probabilmente anche di aiutare. Lo riapre alla vita, gli fa toccare qualcosa di intimo, di profondo, capace di fargli riscoprire la bellezza di stare con gli altri».

In poche parole un viaggio di rinascita dalla rassegnazione verso la speranza di un futuro possibile, non solo e non tanto per se stessi ma per tutto il mondo circostante. Un tema vecchio come il mondo ma sempre attuale, al centro di tanti film più “grandi” che hanno tentato di incarnare questo spirito del nostro tempo, come Kingsmen o Interstellar o appunto i Batman di Nolan. E come direbbe il buon Wayne, insomma, Jeeg Robot non è forse l’eroe che il nostro cinema si merita, ma quello di cui il nostro cinema aveva bisogno.

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 Jeeg conquista Roma https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/jeeg-conquista-roma/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/jeeg-conquista-roma/#respond Sun, 18 Oct 2015 14:40:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2075  Gabriele Mainetti firma un esordio  inedito per il panorama italiano in cui fonde il cinema di genere alla Tarantino con le avventure Marvel. Il tutto arricchito da un inequivocabile tocco italico. Antonio Monda, direttore de La festa del Cinema, aveva preannunciato che Lo chiamavano Jeeg Robot avrebbe colpito al cuore. E così è stato. Proiettato durante […]

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 Gabriele Mainetti firma un esordio  inedito per il panorama italiano in cui fonde il cinema di genere alla Tarantino con le avventure Marvel. Il tutto arricchito da un inequivocabile tocco italico.
Antonio Monda, direttore de La festa del Cinema, aveva preannunciato che Lo chiamavano Jeeg Robot avrebbe colpito al cuore. E così è stato. Proiettato durante la seconda giornata della manifestazione romana, l’opera prima dell’attore Gabriele Mainetti, e primo film italiano della selezione ufficiale, ha infiammato la platea composta dalla stampa, aggiudicandosi ottime possibilità di diventare il caso straordinario del festival.
Ma quali sono gli elementi che rendono quest’opera, scritta a quattro mani da Nicola Guaglianone e Roberto Marchionni, eccezionale?  Dopo il cortometraggio Tiger Boy, in cui il regista si era già confrontato con la costruzione di un eroe e della sua maschera, Mainetti  ha impiegato cinque anni per portare nel cuore dell’Auditorium un film innovativo per il panorama italiano, capace di unire il cinema di genere alla Tarantino con gli elementi del miglior blockbuster targato Marvel, senza rinunciare all’ironia territoriale, nello specifico quella romana, e nutrendosi costantemente della cultura anni Settanta con chiari riferimenti televisivi e musicali. “Per molto tempo ho cercato di trovare un produttore avventuroso, ma nessuno ha avuto il coraggio di innamorarsi di questa vicenda immersa profondamente nel genere. Così, ho deciso di fare da solo e auto produrmi: è stato un viaggio lungo e stancante, ma ho avuto la possibilità di imparare molto. Spero, onestamente, che le cose cambino nel nostro paese”.
La vicenda si incentra sulla figura di Enzo Ceccotti, piccolo criminale di periferia con la bizzarra passione per i budini che, dopo un inseguimento e un involontario bagno nel Tevere, scopre di avere a  disposizione dei poteri eccezionali.  Interpretato da Claudio Santamaria, il personaggio sembra proprio non essere dotato delle qualità morali per diventare un eroe senza macchia ma, come la miglior tradizione ci ha insegnato, per diventare un cavaliere al servizio della giustizia è inevitabile combattere con il proprio lato oscuro. Ed è proprio su questo confronto che Mainetti concentra attenzione e talento, dando vita a un percorso che, pur traendo ispirazione da molte fonti diverse e riconoscibili, ha originalità e una personalità inedita.
Il film, interpretato anche da Luca Marinelli e Ilenia Pastorelli, sarà distribuito a marzo 2016 da Lucky Red.

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Italiani a Venezia https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/italiani-a-venezia/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/italiani-a-venezia/#respond Sun, 02 Aug 2015 11:02:15 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=1786 A capitanare le fila degli italiani a venezia è Piero Messina, il giovane autore che con la sua opera prima L’attesa è già in concorso al festival del cinema più ambito in Italia. Piero Messina è stato intervistato sul primo numero della nostra rivista proprio all’interno del dossier sui festival del cinema. Altro giovanissimo nella […]

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A capitanare le fila degli italiani a venezia è Piero Messina, il giovane autore che con la sua opera prima L’attesa è già in concorso al festival del cinema più ambito in Italia. Piero Messina è stato intervistato sul primo numero della nostra rivista proprio all’interno del dossier sui festival del cinema.

Altro giovanissimo nella sezione Orizzonti è Alberto Caviglia con Pecore in erba.

In concorso ufficiale insieme a Messina, Marco Bellocchio (leggi intervista su Fabrique 2) con Sangue del mio sangue e il più “estero” di tutti ma sempre italiano, Luca Guadagnino, che dai fasti internazionali di Io sono l’amore si presenta con la sua attrice feticcio Tilda Swinton (già in due suoi film precedenti) nel film A bigger splash.

E al suo secondo film di finzione, Per amore vostro, Beppe Gaudino: un film prodotto da una fucina di talenti napoletani tra cui I Figli del Bronx (Produttori di Là-Bas, recensito su Fabrique 0), con Valeria Golino e Adriano Giannini.

Il documentario Italiano è presente con Renato De Maria, Franco Maresco e Gianfranco Pannone.

Film evento fuori concorso l’opera postuma di Claudio Caligari Non essere cattivo, pellicola molto interessante per Fabrique perché vede per protagonisti quattro giovani attori che a nostro avviso segneranno il futuro del cinema italiano:  Luca MarinelliAlessandro BorghiSilvia DAmico, Roberta Mattei. Il film è stato coprodotto da Kimera Film (Fabrique 3), Valerio Mastandrea e Andrea Leone.

Nelle sezioni parallele: in Settimana della critica Antonio Capuano con Bagnoli Jungle  (evento di chiusura) e Adriano Valerio con il suo Banat, il viaggio. In Giornate degli autori una parte rilevante è dedicata all’Italia con Andrea Segre I sogni del lago salato, Carlo Lavagna Arianna, ancora Ascanio Celestini con Viva la Sposa e Vincenzo  Marra con Prima luce.

Evento Speciale di questa sezione AA.VV. – MILANO 2015 il film documentario diretto a sei mani da Elio, Walter Veltroni, Riccardo Bolle, Cristiana Capotondi, Giorgio Diritti e Silvio Soldini, 6 episodi che ritraggono Milano e la sua evoluzione nel 2015, prodotto dalla Lumière del produttore “illuminato” Lionello Cerri.

Il festival di Venezia ha la bandiera italiana che sventola forte, c’è finalmente una rinascita per il nostro cinema?

Per noi di Fabrique sicuramente sì.

See you soon in Venice 2015.

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