Luca Bigazzi Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 10 Sep 2021 07:01:08 +0000 it-IT hourly 1 Ariaferma, il carcere (metaforico) di Servillo e Orlando https://www.fabriqueducinema.it/festival/ariaferma-il-carcere-metaforico-di-servillo-e-orlando/ Mon, 06 Sep 2021 15:34:59 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15970 È sempre una gioia quando vede la luce delle sale un nuovo film di Leonardo Di Costanzo, autore poliedrico, mente dai vasti orizzonti che per il cinema cosiddetto di finzione ha sempre attinto alla lunga e fruttuosa esperienza da documentarista, e ha portato avanti un percorso coerente, come se si fosse prefissato fin dall’esordio di […]

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È sempre una gioia quando vede la luce delle sale un nuovo film di Leonardo Di Costanzo, autore poliedrico, mente dai vasti orizzonti che per il cinema cosiddetto di finzione ha sempre attinto alla lunga e fruttuosa esperienza da documentarista, e ha portato avanti un percorso coerente, come se si fosse prefissato fin dall’esordio di imporsi come il regista degli spazi chiusi, dei microcosmi, dell’isolamento, delle fughe surreali dai luoghi reali. Ariaferma, scritto dal regista insieme a Valia Santella e Bruno Oliviero (una sceneggiatura che non ha un solo cedimento, né nella struttura, né nei dialoghi), racconta un momento critico all’interno di un carcere situato in un luogo imprecisato, come sempre in Di Costanzo la geografia si dirada e perde via via la sua connotazione, e il teatro dell’azione diventa come sospeso in una nube: la casa circondariale chiude, ma i trasferimenti vengono bloccati per problemi burocratici, e dodici detenuti devono restare lì, in un luogo abbandonato e spettrale, e con loro tutto il personale di guardia, a capo del quale c’è Toni Servillo, che per schematizzare come si fa nei polizieschi americani fa lo sbirro buono, in coppia con lo sbirro cattivo che invece è Fabrizio Ferracane.

I dodici ospiti del carcere sono tutti molto diversi fra loro, ognuno a rappresentare un “tipo”: c’è il giovane con istinti suicidi, ci sono gli extracomunitari, c’è il pedofilo da tutti messo al bando, e c’è quello misterioso, il più mite, che però – viene detto a un certo punto, senza rivelare pienamente il mistero – è anche il più pericoloso di tutti: si chiama Carmine Lagioia (interpretato magistralmente e in sottrazione da Silvio Orlando), e gli viene successivamente conferito l’incarico di chef, diventando di conseguenza un po’ il “sindaco” del carcere, da tutti rispettato, e l’unico con l’autorità di trattare con il Gaetano Gargiulo di Servillo.

È questo incontro a generare la tensione narrativa che dà l’acqua della vita alla storia, con Gargiulo che prova a porre le distanze fra sé e il detenuto, ma col passare del tempo i due trovano i punti d’incontro: il culmine è uno scambio di battute che potrebbe fare da epigrafe a tutto il film, che suona tipo “Lagioia, sei tu che sei in carcere”, e il detenuto ribatte “E perché, voi no?”. Non potrebbe avere più ragione.

Ariaferma segna un po’ una svolta, un’evoluzione, e perché no una summa nel cinema di Di Costanzo: c’è una regia solidissima, splendida somma non algebrica di direzione degli attori e gusto figurativo, coadiuvato dalla fotografia di Luca Bigazzi che con Di Costanzo riesce a esprimersi sempre ad altissimi livelli, come già ne L’intervallo. Importante anche il sonoro di Xavier Lavorel, che ha il suo momento trionfale a chiusura della scena più importante del film e anche una delle più belle e memorabili di questo festival: la cena, di notte, a lume di torce elettriche a causa della mancanza di elettricità, con detenuti e agenti che siedono al tavolo insieme, annullando l’effetto del carcere diventando quello che sono: esseri umani.

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Fotografi di scena/6: Antonello&Montesi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/macro/fotografi-di-scena-6-antonellomontesi/ Fri, 14 May 2021 08:25:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15554 Antonello&Montesi (Philippe Antonello e Stefano Montesi) sono senza ombra di dubbio il duo più prolifico e affascinante fra i fotografi ora in circolazione in Italia. Dal ritratto al posato e alle foto sul set, i loro scatti sono inconfondibili per ricchezza creativa e qualità artistica. Con due storie completamente diverse alle spalle e con due […]

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Antonello&Montesi (Philippe Antonello e Stefano Montesi) sono senza ombra di dubbio il duo più prolifico e affascinante fra i fotografi ora in circolazione in Italia. Dal ritratto al posato e alle foto sul set, i loro scatti sono inconfondibili per ricchezza creativa e qualità artistica. Con due storie completamente diverse alle spalle e con due stili molto differenti tra loro, sono riusciti a trovare una miscela esplosiva di visione fotografica. I migliori scatti e i migliori poster di film italiani e stranieri provengono dalla loro officina creative: George Clooney, Woody Allen, Jude Law, Jeremy Irons e tante altre star di Hollywood sono state immortalate da loro. L’estro e la passione spingono Antonello&Montesi a studiare sempre e a evolversi, sperimentando nell’arte della fotografia 3D ed esponendo le loro opere in Italia e all’estero; tra le loro collaborazioni più proficue e longeve c’è sicuramente quella con lo studio di grafica BigJellyFish.

Qual è stata la vostra prima macchina fotografica?

Philippe. La mia prima macchina fotografica copiava il marchio Nikon ed era una Top Con, degli anni ’70. Apparteneva a mio padre, che mi aveva vietato di usarla. Avevo 12 o 13 anni quando mi sono incuriosito e l’ho presa di nascosto per fotografare. Posso dire che è iniziato tutto come una trasgressione del divieto di papà. Sia io che Stefano apparteniamo all’era dell’analogico: erano altri tempi, fotograficamente parlando. Come diceva Giovanni Gastel, parlando della differenza tra analogico e digitale, nel caso del digitale lo scatto è la fase iniziale del processo. Sono due modalità diverse.

Stefano. Una Yashica FX2, ci sono voluti due anni per decidermi tra quelle che erano alla portata del mio portafoglio. Ricordo che un’alternativa all’epoca era la Praktica B200, un vero e proprio mattoncino… Comprai la mia prima reflex dopo aver sfogliato decine e decine di riviste fotografiche dove i test degli apparecchi erano all’ordine del giorno. Alle medie avevo fatto un corso di fotografia e camera oscura, ma sinceramente non era la mia passione, non avrei mai pensato di farne una professione.

Qual è stato il vostro primo film? Potete raccontarci qualche aneddoto?

Philippe. Il mio primissimo film è stato Un’anima divisa in due di Silvio Soldini, conosciuto tramite l’Istituto Europeo di Design: alla fine dell’anno, avevano visionato il portfolio di vari studenti e avevano scelto il mio di street photography in bianco e nero su Milano. Silvio lo aveva visto su una rivista e mi propose di andare sul set del suo lungometraggio con Fabrizio Bentivoglio. Ho iniziato con criteri molto basici, usavo la Leica o la Canon. Mi son ritrovato a lavorare con il colore. Allora, a fine anni ’90, si lavorava con le diapositive. È stata un’esperienza molto difficile, ma anche formativa. L’esperienza sul campo cambia inevitabilmente le tue coordinate, ti ritrovi a fare cose differenti da ciò che ti eri prefissato. D’altronde, è proprio questo il bello dei set cinematografici e devo dire che preferisco l’esperienza alla preparazione scolastica. In genere, poi, il mestiere del fotografo è considerato indipendente e solitario; invece il nostro è un lavoro di squadra a tutti gli effetti. Per quanto riguarda la post-produzione, ad esempio, ho dovuto imparare alcuni aspetti prettamente tecnici dai ragazzi più bravi al PC rispetto al fotografare. 

Stefano. La prima volta su un set fu un piccolo special che realizzai su Ama il tuo nemico di Damiano Damiani: mi presentai sprovvisto della necessaria esperienza e, alla prima scena girata di notte in un interno troppo buio per me, tirai fuori il flash e scattai… Non aggiungo altro. Il primo vero film fu L’odore della notte di Claudio Caligari. All’epoca lavoravo con le macchine analogiche, due Nikon F90X utilizzando il Sound Blimp per non fare rumore.  Il produttore voleva cacciarmi dal set perché le foto erano spesso mosse, per me era difficilissimo seguire il direttore della fotografia Maurizio Calvesi nelle sue peripezie, non esisteva il digitale e io usavo gli spezzoni di pellicola cinematografica ribobinata nei rullini vuoti, che mi facevo dare dai laboratori di sviluppo e stampa da un’ora. Era la 500 Asa della Fuji, che tiravo di uno stop, ma la poca luce sul set e le azioni rapide richieste agli attori non mi consentivano di fare le foto nitide. Così chiesi agli attori (Mastandrea, Giallini, Tirabassi) di posare per me facendo finta di recitare come si faceva in passato. Ne uscii vivo.

Antonello&Montesi
Antonello&Montesi, “Freaks out.”

Curate voi la post-produzione delle vostre foto? Per color e il fotoritocco siete autonomi o preferite affidarvi a collaboratori esterni?

Philippe + Stefano. Per quanto riguarda l’aspetto visivo delle immagini che produciamo durante il set, ce ne occupiamo noi: pasta, grana, contrasto, profili cromatici. La vera capacità durante la post-produzione è quella di adattarsi: il risultato finale deve essere la somma di tanti punti di vista, a partire ovviamente dal tuo. Per quanto riguarda gli scatti per i poster cinematografici, a volte abbiamo delle indicazioni da seguire: ci facciamo sempre una bella chiacchierata col grafico, col dipartimento marketing, con la produzione e il regista. Anche la locandina può cambiare. Proprio per questo motivo, saper coinvolgere quanta più gente possibile è un aspetto essenziale nel nostro lavoro.

Che macchina fotografica usate ora e perché è la più adatta?

Philippe + Stefano. Abbiamo scelto Fujifilm per i set. Le mirrorless ci hanno permesso di non utilizzare più il Sound Blimp per attutire il rumore dello scatto, con la funzione otturatore elettronico sono diventate macchine completamente silenziose. Usiamo anche Canon 5Dsr per quanto riguarda i posati in studio e il medio formato. Oggi si sceglie una macchina per il sensore; prima, invece, si valutavano le sue ottiche o la maneggevolezza. Negli anni, abbiamo notato che il sensore di Fujifilm soddisfa meglio il nostro gusto. Il suo risultato è molto analogico. 

Gli obbiettivi: quali lenti preferite nel vostro lavoro sul set o per i posati in studio?

Philippe + Stefano. Per quanto riguarda le ottiche sul set, usiamo quelle fisse in condizione di scarsa luminosità: dal 23 mm f.1,4 al 56mm f.1,2. In studio usiamo quasi sempre invece lo zoom EF 70-200 mm f / 2.8L IS II USM della Canon. Sui set non possiamo muoverci troppo. Il fotografo, davanti al set, è l’unica figura che non contribuisce a fare il film, partecipa alle riprese come spettatore passivo. L’aiuto attrezzista, ad esempio, sposta delle cose che poi appariranno nel film. Il fotografo invece deve essere discreto e il meno visibile possibile. Nello studio, per i posati, è il contrario: il fotografo è il protagonista assoluto in quanto deve dirigere gli attori.  Insomma, c’è una sorta di schizofrenia in questo mestiere…

Preferite lavorare solo con la luce naturale o con diverse luci artificiali?

Philippe. Il fotografo deve essere capace di maneggiare tanto la luce naturale quanto quella artificiale, soprattutto nel cinema. Per quanto riguarda le attività commerciali, al 99% si lavora con luce artificiale. Quando siamo sul set, dobbiamo adeguarci alle luci di un altro professionista, ossia il direttore della fotografia. Lavoriamo dunque in base alla sua attività. Di solito, il regista e il suo operatore hanno concordato la luce in base al tipo di immagini che si vuole ottenere. Bisogna sposare la scelta del direttore della fotografia. Noi non possiamo assolutamente avere le stesse angolazioni della macchina da presa: la luce va dunque interpretata. Il punto di vista è per forza differente.

Stefano. La mia storia di fotografo si è formata lavorando come assistente con dei mostri sacri della fotografia e quasi tutti prediligevano le luci flash e il lavoro in studio. Parlo di Giuseppe Pino, Elisabetta Catalano, Gianpaolo Barbieri, Guido Harari fra gli altri. Sono state esperienze che hanno segnato il mio cammino e non solo da un punto di vista tecnico.  Comunque non disdegno mischiare le diverse fonti di luce tra loro.

Antonello e Montesi
Antonello e Montesi, “Catch 22”.

Ci potete dire qual è stato il primo vero e importante rimprovero ricevuto durante un lavoro, ma che vi ha insegnato qualcosa di fondamentale sul mestiere?

Philippe. È stato sul primo film, ho ricevuto una bella tirata d’orecchie dal direttore della fotografia Luca Bigazzi, che poi mi ha dato una mano. Venendo da una formazione di street photography, non ero abituato al colore: ha le sue dinamiche e i suoi equilibri, così come per il bianco e nero si lavora sul contrasto. All’epoca, con l’analogico, si sviluppava il diapositivo della Kodak in laboratorio, e lì ho notato subito i miei errori. Ma, essendo la mia prima esperienza, ho ricevuto una grande comprensione. Ovviamente, ho tentato di apprendere quanto più possibile per metterlo poi in pratica. Luca è stato il mio maestro di bottega; in Italia specialmente si crea una realtà da bottega sui set.

Stefano. Un giorno il dop Roberto Forza, vedendo le mie foto mi disse: “Devi osare!”. Quella frase, a metà tra un rimprovero e un consiglio, me la ripeto ogni volta che comincio un nuovo set.

Chi fa cinema spesso non pensa ad altro e non ha il tempo di godersi altro. Ci dite tre cose che preferite allo stare sul set?

Philippe. Appartengo a quella categoria di fotografi che scattano anche al di fuori del set. Per me la fotografia non è semplicemente un lavoro: sicuramente ho avuto la fortuna di guadagnare a partire da questa mia passione, ma resta sempre un divertimento. Non ho la passione delle automobili o delle moto di grossa cilindrata, ho la passione della fotografia e del cinema. Un articolo di giornale, un libro o un film sono fonte di ispirazione per la creazione visiva. Se cresco come persona, anche la mia fotografia crescerà. Bisogna nutrirsi di tutto. Ogni volta che fotografo, sento che una parte di me scompare, è una sensazione difficile da descrivere. Per me è insopportabile ritornare a vedere vecchie foto. Tutto ciò che ami, odi, vivi, si deposita dentro di te e si intravede poi nelle tue foto. Diversamente, sarebbe solo estetica.

Stefano. Tre cose che adoro fare quando non sono immerso nel mio lavoro sono: cucinare, leggere saggi di arte, andare a vedere mostre e musei.

Ci dite il nome di un collega che “odiate”, scherzosamente, per bravura?

Philippe. In questo caso la risposta è facile, si tratta di Stefano Montesi, il mio socio. Noi siamo un duo di persone completamente differenti, sia come persone che come fotografi. Non c’è nulla di più contrapposto. Tutte queste distinzioni sono il nostro punto forte. Se fossimo stati uguali, sarebbe stato un bel problema. È la ben nota legge degli opposti: la ricchezza proviene dal contrasto delle nostre personalità.

Stefano. Il collega che “odio” di più è Philippe Antonello, perché ogni volta che lavoriamo sugli stessi film non riesco mai a fare una foto di scena migliore della sua. Ha un occhio e una sensibilità che sono impossibili da replicare.

 

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Luca Bigazzi. La sala? Ha un valore politico https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/luca-bigazzi-la-sala-ha-un-valore-politico/ Tue, 08 Oct 2019 11:00:38 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13325 Rivoluzione digitale, eclissi della pellicola, affermazione della serialità, crisi delle sale, necessità di ristabilire la centralità di una fruizione cinematografica collettiva. Fabrique ha affrontato tutti questi temi cruciali per il futuro della settima arte con il grande direttore della fotografia italiano Luca Bigazzi. Uno come Bigazzi non avrebbe bisogno di presentazioni. In oltre tre decenni di […]

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Rivoluzione digitale, eclissi della pellicola, affermazione della serialità, crisi delle sale, necessità di ristabilire la centralità di una fruizione cinematografica collettiva. Fabrique ha affrontato tutti questi temi cruciali per il futuro della settima arte con il grande direttore della fotografia italiano Luca Bigazzi.

Uno come Bigazzi non avrebbe bisogno di presentazioni. In oltre tre decenni di carriera ha lavorato con alcuni dei più importanti cineasti italiani (tra i tanti, Gianni Amelio, Paolo Virzì, Mario Martone, Carlo Mazzacurati, Silvio Soldini) e detiene il record di vittorie di David di Donatello per la migliore fotografia, ben sette. Inoltre, a partire da Le conseguenze dell’amore del 2004, il nostro è fido collaboratore di Paolo Sorrentino e nel 2017 per The Young Pope è stato anche il primo dop italiano ad essere nominato agli Emmy. Insomma, stiamo parlando di uno degli autori italiani della fotografia per il cinema in assoluto di maggior rilievo dagli anni Ottanta a oggi. Ciò che colpisce fin da subito di Luca Bigazzi quando si ha l’opportunità di conversare con lui sono la lucidità, la consapevolezza e la notevole capacità di articolare discorsi assai stimolanti in maniera chiara e diretta. L’intervista che segue ne è un’evidente conferma.

luca bigazzi 1

[questionIcon] Com’è cambiato il lavoro del direttore della fotografia con il passaggio dalla pellicola al digitale? Quali sono dal tuo punto di vista i vantaggi offerti da quest’ultimo?

[answerIcon] La fotografia digitale è ormai lo standard su cui lavoriamo tutti, a eccezione di alcune rare produzioni che usano ancora la pellicola. Paradossalmente, però, quando vado a vedere al cinema film girati in pellicola non riesco a capire se davvero sono stati realizzati in pellicola o in digitale. Eppure, facendo il mio mestiere da tanti anni, dovrei avere gli strumenti per capirlo al volo. La verità è che, dal punto di vista tecnico, il digitale è superiore su ogni piano perché è più elastico, manovrabile, leggero e offre un’infinità di possibilità creative, con innumerevoli opzioni di variazioni cromatiche. Girare in digitale oggi è non solo una necessità morale ed ecologica in quanto meno inquinante, ma rappresenta anche un grandissimo vantaggio sul piano squisitamente formale, toglie freni alla creatività e dà la possibilità di democratizzare il nostro lavoro aprendo ai giovani.

[questionIcon] Uno dei grandi punti di forza del digitale, in effetti, risiede nella sua economicità.

[answerIcon] Senz’altro, ma ci tengo a specificare una cosa a riguardo. Spesso sento dire che con il digitale si gira distrattamente, senza farsi tanti problemi, perché non bisogna stare attenti ad evitare di sprecare metri di costosa pellicola. Questo non è affatto vero. Il problema centrale del fare cinema non è mai stato davvero il costo della pellicola, ma il tempo, in assoluto la cosa più preziosa che si ha durante la lavorazione di un film. È il tempo il vero costo di una produzione cinematografica. Per cui non ha alcun fondamento il discorso secondo il quale se si gira in digitale allora ci si può permettere di ripetere la stessa inquadratura cinquanta volte, perché in questo modo i costi aumenterebbero vertiginosamente. Con il digitale, inoltre, oggi mi sento molto più libero di quando lavoravo con la pellicola poiché non sono più condizionato da evidenti limitazioni tecniche dovute al supporto.

[questionIcon] Perché in tanti ancora, tra registi di fama internazionale, addetti ai lavori e cinefili, rimpiangono la pellicola? La celluloide continuerà a convivere con il digitale?

[answerIcon] Dal mio punto di vista per la pellicola non c’è alcun futuro e il rimpianto per essa lo trovo abbastanza ridicolo. Si tratta di una scelta romantica, tecnicamente ingiustificata e retrograda: è come se oggi rimpiangessimo i motori a scoppio, il telefono a gettoni rispetto al cellulare o il fax rispetto alla mail. La rivoluzione digitale nel cinema è già arrivata e personalmente non ho alcun rammarico per questo: se mi facessero un’offerta obbligandomi a girare un film in pellicola, ringrazierei e rifiuterei. La scomparsa della celluloide non mi preoccupa per niente. Ciò che mi allarma, piuttosto, è un altro aspetto.

luca bigazzi 3

[questionIcon] Quale? Ha forse a che fare con la fruizione cinematografica?

[answerIcon] Esattamente. Sono molto preoccupato dall’idea che i film o le serie TV vengano visti sempre più in maniera individuale. Credo fermamente nell’importanza della visione collettiva delle opere audiovisive: solo in una sala insieme ad altri spettatori che non conosciamo, nel passaggio delle emozioni, delle vibrazioni, delle risate o del disappunto, può davvero avvenire la comprensione cinematografica. Tutto ciò ha anche un valore politico, nel senso che una comunità di persone isolate davanti ai propri computer, smartphone o schermi televisivi è molto più controllabile politicamente rispetto a una comunità che si riunisce, discute, che vede, pensa e sente collettivamente. In generale, sono convinto che l’empatia e la comunicazione non verbale tra le persone siano uno strumento fondamentale di conoscenza. In quanto forma creativa d’arte collettiva, il cinema va fruito collettivamente. Jean-Luc Godard diceva che per guardare lo schermo cinematografico bisogna alzare la testa. Se ci pensi, invece, per vedere un film in uno smartphone o in un tablet il capo lo devi abbassare. Quindi, alziamo la testa e vediamo i film insieme.

[questionIcon] Cosa pensi della prepotente affermazione della serialità televisiva? Qual è la strada da percorrere per restituire centralità alla sala cinematografica?

[answerIcon] Quella della serie mi sembra una forma espressiva molto interessante, perché permette agli autori di sfuggire alla rigidità dell’ora e mezza/due ore di durata, che alcune volte rappresenta un problema. Sono felice che ci sia la serialità. In questo contesto, bisogna concepire una nuova idea di sala cinematografica che si apra anche alle serie. Sono certo che molte serie potrebbero avere un grandissimo successo al cinema. Quando ad esempio alla Cineteca di Milano è stato proiettato tutto The Young Pope, la sala ogni sera era piena. I cinema devono essere concepiti come spazi di aggregazione sociale e devono offrire luoghi di ritrovo dove incontrarsi prima e dopo la proiezioni. Alla crisi delle vendite dei biglietti non si può rispondere aumentando i prezzi o creando il deserto culturale intorno alle sale, negando ad esempio la possibilità di organizzare iniziative pubbliche gratuite. Molti distributori ed esercenti purtroppo non si rendono conto che è anche grazie a queste ultime che si possono convincere persone ormai disinteressate all’esperienza della sala a tornare al cinema.

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Mario Martone, Elena Ferrante e la Morte di un matematico napoletano https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/mario-martone-elena-ferrante-e-la-morte-di-un-matematico-napoletano/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/mario-martone-elena-ferrante-e-la-morte-di-un-matematico-napoletano/#respond Wed, 10 Oct 2018 08:09:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11536 Mario Martone ha concluso quest’anno la trilogia iniziata da Noi credevamo e Il giovane favoloso con Capri-Revolution, presentato alla 75° Mostra del Cinema di Venezia, un film corale con una bravissima Marianna Fontana come protagonista. Il regista napoletano incarna poco lo stereotipo dell’artista: intellettuale ma senza esibizionismi, sognatore ma concreto artigiano della sua arte, decisamente […]

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Mario Martone ha concluso quest’anno la trilogia iniziata da Noi credevamo e Il giovane favoloso con Capri-Revolution, presentato alla 75° Mostra del Cinema di Venezia, un film corale con una bravissima Marianna Fontana come protagonista.

Il regista napoletano incarna poco lo stereotipo dell’artista: intellettuale ma senza esibizionismi, sognatore ma concreto artigiano della sua arte, decisamente un uomo di teatro con la vocazione per il cinema. Fa parte di quella corrente che viene chiamata il risorgimento napoletano: quell’affacciarsi del cinema come una vrenzola dal balcone, quello sguardo sulle cose che trasforma il privato in pubblico. La poetica di Martone è tutta lì, nella ricerca di una verità nascosta sotto la pelle quando si fa sottile, insieme a quel mescolarsi continuo e perfetto tra letteratura e cinema.

Uno dei film più famosi di Martone è la sua opera seconda, L’amore molesto (1995), tratto dal romanzo d’esordio di Elena Ferrante, la sua tetralogia pubblicata dalle Edizioni E/O è stata portata di recente sul grande schermo dai primi due episodi de L’Amica Geniale, la serie diretta da Saverio Costanzo e realizzata dall’inedita alleanza tra HBO, Wildside, RAI, Tim Vision e Fandango .

mario martone

L’opera prima di Mario Martone è meno famosa, nonostante la vittoria ai David e ai Nastri d’argento per il miglior esordio: Morte di un matematico napoletano (1992) è la storia del luminare Renato Caccioppoli, uno scienziato talentuoso ma tormentato, consumato da un logorio interiore che l’ha portato al suicidio. La pellicola mostra l’ultima settimana di vita di Renato (Carlo Cecchi), a partire dalla stazione in cui viene fermato dalla polizia per ubriachezza, per passare poi alle lunghe passeggiate e agli incontri con il fratello Luigi (Renato Carpentieri), l’ex moglie (Anna Bonaiuto), i compagni del PCI e gli studenti; soprattutto Pietro, interpretato da Toni Servillo in una delle sue prime apparizioni cinematografiche.

Martone dipinge, in un modo un po’ naïf, un uomo disilluso e stordito dall’alcol, ma soprattutto ne tratteggia il rapporto conflittuale con Napoli, che accoglie ma prosciuga e sa negarsi come la più crudele delle madri. La regia è aspra e secca e la macchina da presa, con l’ottima direzione della fotografia di Luca Bigazzi, segue Renato tra le viscere di una Napoli crepuscolare. E pensare che il film, Martone, lo voleva girare in bianco e nero, ma poi Bigazzi gli ha fatto cambiare idea, colpito dal giallognolo della luce napoletana. Morte di un matematico napoletano è una pellicola realizzata camminando a lungo, un po’ come Caccioppoli, che si spostava solo a piedi. Nel film quasi non compaiono automobili e, dopotutto, sono proprio le lunghe passeggiate del matematico ad averlo reso un personaggio impresso nella memoria collettiva: genio errante, emaciato e dall’impermeabile logoro.

morte di un matematico

Caccioppoli diceva «Quelli che si limitano saggiamente a ciò che pare loro possibile non avanzeranno mai di un passo», così Martone lo gira lo stesso, questo film quasi senza budget, e riesce a realizzare una pellicola ambientata nel ’59 riprendendo la Napoli del ’91. Mancavano i soldi per fare il film, trovare i costumi e ricostruire le scenografie con la cartapesta, allora ha cercato la Napoli del passato in quella presente. Non è un’operazione che sarebbe riuscita ovunque, perché Napoli è tante città in una e quello di Martone è un lavoro quasi archeologico, uno scavare. Un po’ come cercarsi dentro e trovare un dolore che ci somiglia e che ricorda il passato, come quella Facoltà di Matematica abbandonata, ancora con le tribune e i palchi a restituire quel senso di soggezione, distanza e spettacolo accademico.

Caccioppoli e Martone non avevano in comune solo la città, il matematico aveva abitato proprio nel palazzo dove Martone aveva vissuto in adolescenza «un grande palazzo napoletano, di quelli che sono più che altro delle piccole città» e allora, forse, questa storia ha scelto Martone e non il contrario. Ed è un po’ tutto lì, quel senso ancestrale di cinema, quell’esorcizzare i propri fantasmi sul grande schermo per lasciarseli alle spalle.

Per Martone, il cinema è fatale, accade e non si può cambiare mai più, lo paragona al tirare frecce: c’è tutta una preparazione ma a scagliarle basta un attimo. Vi sfido a dimenticarla, una volta vista, la morte di quel matematico napoletano, il funerale profondo e ipocrita insieme, quella mano che non afferra il polso e quella luce gialla che illumina ogni cosa ma non salva nessuno.

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Luca Bigazzi e “Young Pope”: “sono vivo per miracolo” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/luca-bigazzi-e-young-pope-sono-vivo-per-miracolo/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/luca-bigazzi-e-young-pope-sono-vivo-per-miracolo/#respond Mon, 16 Jan 2017 10:47:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3975 È già un cult. Dapprima, tutti noi, abbiamo temuto il gelido papa dagli occhi blu interpretato da Jude Law, non capendo mai le sue intenzioni. Poi, lo abbiamo odiato, una volta compreso di cosa fosse capace e, infine, lo abbiamo amato, quando ci ha aperto il suo cuore. Il premio Oscar Paolo Sorrentino ancora una […]

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È già un cult. Dapprima, tutti noi, abbiamo temuto il gelido papa dagli occhi blu interpretato da Jude Law, non capendo mai le sue intenzioni. Poi, lo abbiamo odiato, una volta compreso di cosa fosse capace e, infine, lo abbiamo amato, quando ci ha aperto il suo cuore. Il premio Oscar Paolo Sorrentino ancora una volta parla di amori mancati, e lo fa attraverso un personaggio magnetico, una sorta di angelo mostruoso (o mostro angelico) incorruttibile e allo stesso tempo pieno di contraddizioni.

Distribuito da Sky Atlantic, Young Pope in Italia ha ottenuto da subito un record di ascolti, e in questi giorni sta debuttando in America. La Cineteca Italiana di Milano è stata la prima a pensare a una piccola distribuzione su grande schermo, e non è stata una brutta idea, perché in dieci minuti la sala di Spazio Oberdan era già sold out.

Photo by Gianni Fiorito © 2015 Twentieth Century Fox Film Corporation All Rights Reserved

Anche perché a incontrare il pubblico c’era uno dei più celebri direttori della fotografia italiani vincitore di 7 David di Donatello – di cui 4 vinti sotto la regia di Sorrentino – Luca Bigazzi, che si dice entusiasta di questa iniziativa: «Il cinema e tutte le opere cinematografiche vanno viste collettivamente, non singolarmente nelle proprie case. Se noi perdiamo il senso della sala cinematografica, il cinema non ha più senso di esistere perché la comunicazione non verbale che si stabilisce fra voi e il vostro vicino restituisce il senso vero del film, impossibile da trovare nella visione singola, isolata, al computer, in casa. Ne impedisce la comprensione».

Altra cosa importante, sottolinea Bigazzi, è vedere la serie in lingue originale, perché «il doppiaggio è uno scandalo» e, oltretutto, quando c’è un napoletano doc come Silvio Orlando che si destreggia con l’inglese, non se ne può proprio fare a meno. E poi la versione originale è l’unico modo per vedere la vera recitazione di Jude Law, «il più grande attore con cui io abbia mai lavorato».

Dieci puntate da un’ora ciascuna, eppure sembra di avere a che fare con un film molto lungo, più che con una serie TV. Anche il modo in cui è stata realizzata assomiglia più a quello di un film: «È stata una fatica mostruosa» racconta ancora il direttore della fotografia «abbiamo lavorato per 24 settimane,  con dei ritmi massacranti, ogni settimana realizzavamo mezz’ora di montato. Numeri insostenibili per degli essere umani. Sono vivo per miracolo».

Per non parlare delle ricostruzioni dei luoghi papali: «Non abbiamo potuto girare in nessun luogo reale, il Vaticano e le chiese erano interdette. Quindi ci rimanevano solo chiese sconsacrate o teatri di posa, e qualche palazzo meraviglioso di Roma che abbiamo spacciato per stanze papali. La scenografa ha fatto un lavoro incredibile».

E proprio in un periodo in cui sembra che ci sia una grande sfiducia nel pubblico – e si tenta di riportarlo in sala promuovendo iniziative come Cinema2Day – Bigazzi conclude il suo incontro ponendosi una domanda e riflettendo sul fatto che forse, se dallo Spazio Oberdan sono state mandate via oltre cento persone e i posti erano già esauriti un’ora prima dell’inizio della proiezione, perché non si è pensato a una distribuzione non solo televisiva, ma anche cinematografica? Dopotutto, si sa che il papa mobilita le folle…

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