Lovely Boy Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:16:26 +0000 it-IT hourly 1 Enrico Borello, ogni volta una pelle nuova https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/enrico-borello-ogni-volta-una-pelle-nuova/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/enrico-borello-ogni-volta-una-pelle-nuova/#respond Tue, 02 Jul 2024 07:21:40 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19175 Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista.  Mi saluta citando Toro scatenato di Scorsese, una scena in particolare che maneggia come una […]

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Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista.

 Mi saluta citando Toro scatenato di Scorsese, una scena in particolare che maneggia come una bussola: «Robert De Niro rivela l’essenza del suo personaggio ma è completamente al buio. È in prigione, prende a pugni il muro, ripete “Io non sono cattivo”, ma non si vede mai in faccia». Per lui c’entra qualcosa con la forza di un attore che lavora in ombra, senza cercare a ogni costo la luce (in scena, nei ruoli, nella fama). Enrico Borello – una laurea in riabilitazione psichiatrica – ha iniziato a recitare tardi e di nascosto dagli amici di sempre, che avrebbero pensato «o sei un coglione o sei Billy Elliot». Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista. Ha odiato il sistema, sta imparando a gestirlo e la vive come una partita a poker: «Io non bluffo mai, il punto lo dichiaro sempre. Poi la verità si vede in scena, quando siamo tutti sulla stessa barca e parliamo la stessa lingua».

Partiamo dalla fine: Gabriele Mainetti, una storia di kung fu ambientata a Roma, nel cast Ferilli, Zingaretti e Giallini, ma il vero protagonista sarai tu.

Sarò io insieme all’attrice Liu Yaxi. Di kung fu non ne capisco nulla, un film d’azione solo con me sarebbe stato troppo goffo. Per me la romanità è un fattore centrale, e me la sono giocata nella misura in cui Gabriele mi ha inserito nel contesto in cui sono cresciuto. Sono di Santa Croce in Gerusalemme e il film è ambientato a Piazza Vittorio, l’Esquilino è casa mia.

E se ogni attore porta in scena anche un po’ della sua storia, tu cosa ti porti dietro?

Elio Germano ha detto in un’intervista che la cosa migliore che può succedere a un attore è smettere di provare ad essere qualcun altro e imparare ad essere se stesso nel modo più potente possibile. Al momento mi accorgo che c’è una grande voglia di esprimermi e camuffarmi, senza nascondermi, ma cercando di trovare ogni volta una pelle nuova.

È il motivo per cui hai iniziato a fare l’attore?

Un po’ sì. Volevo vivere una vita che nella realtà mi costerebbe delle scelte da cui non si torna indietro. Volevo fare il maggior numero di esperienze possibili, però a rischio zero.

Quindi fino a che punto spingersi?

A volte mi è successo di rischiarmela. Psicologicamente ti puoi frammentare, nel nostro mestiere questo esiste e mi attrae. Per Lovely Boy sono stato quel personaggio dalla mattina alla sera, scrivevo canzoni, le registravo, per me il gioco era su tre livelli: non essere Enrico che interpretava il personaggio del film, ma essere un trapper che faceva un film sulla trap. Poi è stato problematico, ho capito che ci sono degli orari per fare certe cose, che la sera devi recuperare il tuo ritmo. Non sono Heath Ledger che sta facendo Joker, ma è vero che ti vesti dei panni di qualcun altro e certi vestiti te li porti dietro tutta la vita.

Questa è scuola Volonté o scuola Borello?

Macché Volonté! [ride] Queste sono esperienze collezionate. Per me non c’è scuola, maestro o persona che possa insegnarti a recitare. Quando sono entrato alla Volonté mi sono spaccato in quattro e alla fine ho capito che l’unica vera esperienza che si fa in un’accademia di recitazione è quella di misurarsi con l’altro: la lezione più importante, il banco di prova più utile. Ma se si tratta di stare in scena, io provo sempre a ricordarmi: cosa facevi quella volta che volevi essere il più bullo del quartiere? O quando pensavi che saresti diventato un medico psichiatra? Come ti comportavi, come hai cambiato pelle per stare all’interno di un ambiente?

Sei laureato in riabilitazione psichiatrica. Appartiene a un altro Enrico, oppure?

La pelle te la porti sempre dietro. Non credo a quello che dicono i Jedi, che devi disimparare ciò che hai imparato. Quando ho lavorato con le realtà più fragili dell’essere umano ho imparato a conoscere l’altro, anche negli aspetti che definiamo folli. L’esperienza di una psicosi è inafferrabile e incomprensibile, puoi simularla con delle sostanze stupefacenti ma non saprai mai che cazzo è.

Ti piace o ti spaventa l’idea di interpretare una psicosi che eri pronto a curare?

A un ruolo del genere mi affezionerei tanto, ma mi spaventa tutto. Io amo i ruoli morbidi, se potessi starei solo comodo. Quando interpreto personaggi violenti campo male, non sto bene, perché la violenza lavora dentro di te. Fare uno psicotico significherebbe fare i conti con un mare di violenza percepita.

Quando ti sei iscritto al primo corso di teatro lo hai nascosto a tutti: perché ti imbarazzava?

A ventidue anni era difficile raccontarlo agli amici. Sono sempre stato immerso nella Roma di tutti i giorni, che non è borgata ma è anche quella di chi lavora nelle officine o nei ristoranti, la cocaina la sera, le birre, e se dici che vuoi fare l’attore o sei un coglione oppure sei Billy Elliot. Quando ho iniziato a lavorare sul corpo e muovermi in modo strano, pensavo: “Mo’ sbuca l’amico mio Paoletto dalla finestra, me guarda e me fa: Enriche’, ma che cazzo stai a fa’?”

Hai raccontato che su Supersex Borghi ha sbloccato qualcosa dentro di te.

Ho sempre visto Borghi come una figura lontana, mitologica. Poi Alessandro mi ha sbloccato un processo umano: da lui mi sono sentito accolto, e sentirsi accolti in quelle situazioni non è una cosa da poco. Saper mettere l’altro a proprio agio richiede una grande forza, e questo mi ha fatto capire che davanti non avevo solo un grande attore che faceva parte del sistema.

Verso il sistema sei diffidente?

L’ho giudicato per tantissimo tempo. Poi Alessandro ha  rimosso una reticenza verso una realtà che per me era solo tossica. Quando “slivelli” ti accorgi che contano gli esseri umani e incontrarne uno del genere, nonostante il potere che il sistema gli riconosce, non è scontato. Mi capita di incontrarne altri e pensare: “Meno male che te vedo oggi e poi non te vedo più”.

Invece Gabriele Mainetti ti ha fatto capire cosa significa trasformare delle sensazioni in azioni. Vale a dire?

Che il mestiere dell’attore non è necessariamente sentire l’esperienza, ma a volte agirla, quando ti capita di non sentirla. Poter raggiungere la sensazione attraverso l’azione. Con Gabriele i take erano tanti, le scene difficili, le giornate lunghe. Lì se ti affidi solo alla sensazione, il corpo ti saluta. Deve subentrare l’aspetto atletico dell’attore.

L’attore che non è solo atleta delle emozioni.

Esatto. Con Gabriele ho trovato chiavi che aprono nuovi elementi del mio corpo. Ecco perché dico che la recitazione non te la può insegnare nessuno: arriva un momento in cui devi sopravvivere a quella scena. Ed è nell’urgenza che impari sempre qualcosa, il tuo corpo ti regala delle verità su se stesso e allora dici: “Questo farà parte del mio repertorio. Oggi ho capito che non so soltanto camminare, posso anche correre”.

Te lo sei meritato questo ruolo?

Me lo so’ faticato. Ho lottato, tanto. Per me è come una partita a poker, e io il punto ce l’ho. Non bluffo, non prometto cose che non ho in mano, il punto lo dichiaro sempre. Poi vediamo chi viene a vedere.

Credi che nella tua carriera stia per succedere qualcosa di grosso?

Io voglio crescere. Non faccio questo mestiere per la fama, anche perché, una volta ottenuta, che farei? A me piace il gioco, fare le foto per questa nostra cover, esprimermi. E quando la rivedrò tra qualche anno penserò: “Quante cazzate ho detto”.

Fotografa @robertakrasnig assistente @_davide.valente_

Stylist @flavialiberatori_ assistente @carlottagallina_

Hair @adriare

Makeup @idlmakeup

Abiti: @paulsmithdesign, calvinklein, @fendi @seafarer_since1900

 

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Lovely Boy con Andrea Carpenzano, ascesa e caduta di una star trap https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/lovely-boy-con-andrea-carpenzano-ascesa-e-caduta-di-una-star-trap/ Fri, 08 Oct 2021 08:44:02 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16224 Ci sono dei gesti, delle scene che alle volte rimangono impresse sulla pelle, arrivando dritti all’interiorità di chi le guarda. Uscito da poco su Sky, dopo aver chiuso fuori concorso le Giornate degli Autori alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il nuovo film di Francesco Lettieri Lovely Boy ha la capacità di sostare nella […]

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Ci sono dei gesti, delle scene che alle volte rimangono impresse sulla pelle, arrivando dritti all’interiorità di chi le guarda. Uscito da poco su Sky, dopo aver chiuso fuori concorso le Giornate degli Autori alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il nuovo film di Francesco Lettieri Lovely Boy ha la capacità di sostare nella mente degli spettatori, catturandone l’attenzione nonostante evidenti difetti complessivi.

Un anno dopo Ultras, Lettieri decide di filmare la storia di Nick, in arte “Lovely Boy”, personaggio finzionale del mondo della trap. Della trap, però, al regista e sceneggiatore napoletano interessa poco e nulla. Lettieri riprende il filo da dove lo aveva lasciato nel suo film precedente. Continua a tessere la storia delle anime perse, quelle anime che popolavano “La collina” di De André, rendendole più contemporanee. È il sapore della contemporaneità, infatti, a interessare lo sguardo del regista e non l’ambiente musicale in sé.

Nick, interpretato magistralmente da Andrea Carpenzano (La terra dell’abbastanza), artista romano, è un astro nascente della trap. Pian piano entra in un mondo che lo isola sempre di più, facendogli perdere il controllo. Travolto in un giro di lusso e dipendenze, finisce così in un rehab in Trentino, evento che divide esattamente in due il film. Già da questa breve sinossi si può capire come nella sua totalità, Lovely Boy sia un film visto e rivisto (qui, infatti, l’enorme difetto dell’opera), ma il graffio di Lettieri è nel modo in cui decide di riprendere la vicenda.

Nel concentrarsi su piccoli gesti quotidiani, come la semplice apertura di una bottiglia, il regista cattura lo spettatore dentro la fragilità di chi ormai non ha neanche più il controllo del proprio corpo. La macchina di presa si sofferma su inquadrature che allontanano il protagonista dal contesto, cogliendolo proprio mentre è al centro della spirale di solitudine tipica non soltanto dei cantanti o degli artisti, ma dell’uomo contemporaneo, immerso in un mondo narcisista che lo vorrebbe superiore a tutto e tutti, ma che invece svuota le proprie vittime.

È interessante, in quest’ottica, notare come in un vortice di comparse e di situazioni, Lettieri isoli sempre il suo protagonista, rendendo quasi tattile la sensazione di vuoto che egli prova in scene che si imprimono con potenza: finita la visione, gli spettatori continueranno a ripensare alla familiarità di quei dettagli.

Lovely Boy è dunque un film che nel suo complesso è stato già mangiato e digerito diverse volte, ma che ha nel suo tocco qualcosa in grado di far andare lo spettatore oltre il già noto. Lettieri segna così, nel suo percorso registico, una nuova tappa, dopo la quale, dopo “il matto” e il “suonatore Jones”, attendiamo la visita delle altre anime perse, che ancora dormono sulla collina, ma che attendono di essere indagate nella loro contemporaneità.

 

 

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