La terra dell'abbastanza Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 01 Apr 2022 17:49:49 +0000 it-IT hourly 1 Lovely Boy con Andrea Carpenzano, ascesa e caduta di una star trap https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/lovely-boy-con-andrea-carpenzano-ascesa-e-caduta-di-una-star-trap/ Fri, 08 Oct 2021 08:44:02 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16224 Ci sono dei gesti, delle scene che alle volte rimangono impresse sulla pelle, arrivando dritti all’interiorità di chi le guarda. Uscito da poco su Sky, dopo aver chiuso fuori concorso le Giornate degli Autori alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il nuovo film di Francesco Lettieri Lovely Boy ha la capacità di sostare nella […]

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Ci sono dei gesti, delle scene che alle volte rimangono impresse sulla pelle, arrivando dritti all’interiorità di chi le guarda. Uscito da poco su Sky, dopo aver chiuso fuori concorso le Giornate degli Autori alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, il nuovo film di Francesco Lettieri Lovely Boy ha la capacità di sostare nella mente degli spettatori, catturandone l’attenzione nonostante evidenti difetti complessivi.

Un anno dopo Ultras, Lettieri decide di filmare la storia di Nick, in arte “Lovely Boy”, personaggio finzionale del mondo della trap. Della trap, però, al regista e sceneggiatore napoletano interessa poco e nulla. Lettieri riprende il filo da dove lo aveva lasciato nel suo film precedente. Continua a tessere la storia delle anime perse, quelle anime che popolavano “La collina” di De André, rendendole più contemporanee. È il sapore della contemporaneità, infatti, a interessare lo sguardo del regista e non l’ambiente musicale in sé.

Nick, interpretato magistralmente da Andrea Carpenzano (La terra dell’abbastanza), artista romano, è un astro nascente della trap. Pian piano entra in un mondo che lo isola sempre di più, facendogli perdere il controllo. Travolto in un giro di lusso e dipendenze, finisce così in un rehab in Trentino, evento che divide esattamente in due il film. Già da questa breve sinossi si può capire come nella sua totalità, Lovely Boy sia un film visto e rivisto (qui, infatti, l’enorme difetto dell’opera), ma il graffio di Lettieri è nel modo in cui decide di riprendere la vicenda.

Nel concentrarsi su piccoli gesti quotidiani, come la semplice apertura di una bottiglia, il regista cattura lo spettatore dentro la fragilità di chi ormai non ha neanche più il controllo del proprio corpo. La macchina di presa si sofferma su inquadrature che allontanano il protagonista dal contesto, cogliendolo proprio mentre è al centro della spirale di solitudine tipica non soltanto dei cantanti o degli artisti, ma dell’uomo contemporaneo, immerso in un mondo narcisista che lo vorrebbe superiore a tutto e tutti, ma che invece svuota le proprie vittime.

È interessante, in quest’ottica, notare come in un vortice di comparse e di situazioni, Lettieri isoli sempre il suo protagonista, rendendo quasi tattile la sensazione di vuoto che egli prova in scene che si imprimono con potenza: finita la visione, gli spettatori continueranno a ripensare alla familiarità di quei dettagli.

Lovely Boy è dunque un film che nel suo complesso è stato già mangiato e digerito diverse volte, ma che ha nel suo tocco qualcosa in grado di far andare lo spettatore oltre il già noto. Lettieri segna così, nel suo percorso registico, una nuova tappa, dopo la quale, dopo “il matto” e il “suonatore Jones”, attendiamo la visita delle altre anime perse, che ancora dormono sulla collina, ma che attendono di essere indagate nella loro contemporaneità.

 

 

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La terra dell’abbastanza: vivere o morire con i fratelli D’Innocenzo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/la-terra-dellabbastanza-vivere-o-morire-con-i-fratelli-dinnocenzo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/la-terra-dellabbastanza-vivere-o-morire-con-i-fratelli-dinnocenzo/#respond Wed, 08 Aug 2018 08:00:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11094 l percorso dei fratelli D’Innocenzo, gemelli ventinovenni provenienti da Tor Bella Monaca, ha poco a che fare con quelli più tradizionali che generalmente conducono i giovani registi a esordire nel lungometraggio. Sembra incredibile, infatti, ma senza una scuola di cinema o un solo corto alle spalle, Damiano e Fabio sono riusciti nell’impresa di realizzare il […]

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l percorso dei fratelli D’Innocenzo, gemelli ventinovenni provenienti da Tor Bella Monaca, ha poco a che fare con quelli più tradizionali che generalmente conducono i giovani registi a esordire nel lungometraggio. Sembra incredibile, infatti, ma senza una scuola di cinema o un solo corto alle spalle, Damiano e Fabio sono riusciti nell’impresa di realizzare il loro primo film, presentato con successo qualche mese fa al Festival di Berlino nella sezione Panorama. La terra dell’abbastanza (qui il trailer ufficiale), nei cinema italiani a partire dal 7 giugno e già venduto in diversi paesi stranieri, racconta una storia molto dura attraverso un approccio antiretorico e sorprendentemente autentico, che permette un’immersione completa dello spettatore nelle vicende narrate. Per approfondire il lavoro fatto sul film e la loro visione della settima arte, abbiamo conversato a lungo con i generosi e instancabili fratelli, che oltre ad aver recentemente collaborato con Garrone per Dogman, hanno già pronta la prima stesura della sceneggiatura del prossimo progetto: un western sui generis che affronterà il tema archetipico del rapporto tra uomo e donna, le cui riprese sono previste per maggio dell’anno prossimo.

Del neorealismo il teorico Christian Metz sottolineava la capacità di far emergere «istanti di verità», riconducibili a una «verità di un atteggiamento, di un’in essione di voce, di un gesto, di un tono». Mi sembra che La terra dell’abbastanza abbia intimamente a che fare con questo concetto e sia in grado così di sprigionare un notevole grado di realismo.

Damiano: Cogli un aspetto importante. Per ricreare un forte effetto di realismo abbiamo puntato molto su componenti che forse non saltano immediatamente all’occhio, come la scenografia di Paolo Bonfini, la fotografia di Paolo Carnera e i costumi di Massimo Cantini Parrini. Si è trattato di un grande lavoro di squadra. L’obiettivo era quello di raccontare la nostra storia evitando tanto le edulcorazioni quanto, come ad esempio si è visto di recente in qualche film italiano, l’elogio al contrario di una periferia brutta e sciatta mostrata solo attraverso colori grigi e mancanza di linee prospettiche.

Fabio: C’è una profonda differenza tra il reale, che è una cosa che non mi piace per nulla al cinema, e il realistico, che invece è una cosa che adoro. Il film, anche dal punto di vista figurativo, ha degli elementi non puramente reali ma trasfigurati, dei primi piani e delle luci particolari che sono più sensoriali che reali. Cos’è veramente realistico, in fondo? L’emozione. E l’emozione spesso si lega al ricordo, che a propria volta si lega a pochissimi elementi che ci restituiscono un evento non in maniera nitida e oggettiva, ma attraverso il filtro del nostro stato d’animo connesso a quel particolare momento. Fare cinema nella nostra visione è proprio cercare di filmare il realismo, laddove però per realismo si intende una sorta di realismo antropologico, delle emozioni e delle percezioni.

La regia si alimenta soprattutto di primi piani e inquadrature ravvicinate, a cui si aggiungono inquadrature larghe sul contesto della periferia. Come avete lavorato sullo stile per ottenere un coinvolgimento così potente dello spettatore?

Fabio: È stato il film stesso a suggerirci la linea da seguire dal punto di vista estetico. Avendo scritto una storia che viaggia in parallelo con il protagonista e ha la carica immersiva molto forte di cui parli, era naturale andare a scavare sui primi piani per cercare di leggere quello che i personaggi stavano vivendo. Più che i fatti che si succedono, ci interessava mettere in luce come essi vengono percepiti dai personaggi. L’intento era di indagare il loro pensiero, la loro emotività, il loro senso di colpa e questa cosa era possibile farla solo standogli fisicamente addosso con la macchina da presa.

Damiano: Il nostro approccio alla regia è stato anche istintivo e lo vedo molto legato alla grande passione che abbiamo per il disegno. Disegnando entrambi da moltissimi anni ed essendo abituati a selezionare velocemente ciò che deve essere visibile o meno su carta, generalmente abbiamo un’idea piuttosto chiara di cosa vogliamo o non vogliamo mostrare in un’inquadratura. A proposito del contesto della periferia cui accennavi rispetto ai campi lunghi presenti nel film, ci tengo a dire che per noi La terra dell’abbastanza è un film che tratta essenzialmente il tema dell’amicizia, in maniera credo profonda e spero anche un po’ contraddittoria. Abbiamo deciso di ambientarlo in periferia perché è un mondo che conosciamo bene, ma si tratta semplicemente di uno sfondo.

Le interpretazioni di Matteo Olivetti e Andrea Carpenzano sono sorprendenti, così convincenti da sembrare quasi che i due attori interpretino se stessi. Come li avete guidati in questo percorso di immedesimazione?

Fabio: Il nostro copione, per il modo in cui descriveva odori, sensazioni ed emozioni dei personaggi, più che una sceneggiatura sembrava un romanzo. Sapevamo che diverse delle cose scritte non sarebbero state materialmente filmabili, ma hanno rappresentato un punto di riferimento importante tanto per gli attori quanto per i vari caporeparto. Matteo e Andrea non provengono dalla periferia ma conoscono benissimo la vita, hanno una grande curiosità nei confronti delle persone e dei loro mondi. Da questo punto di vista li vedo quasi come due antropologi: possiedono una sensibilità estrema e una capacità di capire l’animo umano che è veramente ammirevole.

Damiano: Io e Fabio abbiamo avuto diverse esperienze nel mondo del teatro collaborando con personaggi come Valerio Binasco ed Elena Arvigo. Tante figure del teatro contemporaneo conosciute nel corso degli anni ci hanno in influenzato per quanto riguarda la direzione degli attori. La cosa che non mi sarei mai aspettato lavorando con due ragazzi giovani come Matteo e Andrea era riuscire con una tale naturalezza e facilità a creare un dialogo così profondo e stimolante. Sicuramente in futuro continueremo a lavorare con entrambi, perché è stata un’esperienza molto bella.

Il film è prodotto da Pepito Produzioni con RAI Cinema e con il sostegno del MIBACT e della Regione Lazio. Come è nata invece la collaborazione con Matteo Garrone per Dogman? Come siete entrati in contatto con un regista del suo calibro?

Fabio: Ci siamo incontrati per caso una sera a cena, abbiamo avuto l’opportunità di parlare molto di cinema e fra noi è emersa subito un’affinità. Matteo proprio in quel momento stava scegliendo il nuovo progetto a cui dedicarsi. Dogman lo portava avanti da dieci anni, da prima di Gomorra. Ci ha fatto leggere le differenti stesure del film, e con lui e con i suoi sceneggiatori Massimo Gaudioso e Ugo Chiti ci siamo messi a lavorare su quel materiale. Essendo la storia ambientata in una periferia, che poi in realtà è andata progressivamente trasformandosi in una periferia dell’anima, una sorta di non-luogo, il nostro contributo è stato quello di fare in modo che dialoghi e situazioni risultassero reali. Le sceneggiature a casa di Matteo si scrivono attorno a un tavolo, quasi ad alzata di mano, ed è tutto ben pianificato. Io e Damiano dicevamo la nostra, rilanciavamo idee su personaggi che non c’erano nelle prime versioni, davamo tutto quello che potevamo offrire. Matteo ci ha fatto un regalo davvero straordinario.

Damiano: La nostra collaborazione alla scrittura di Dogman è durata circa due mesi. Tutti i giorni lavoravamo dalle 10 alle 18. Si spegnevano i telefoni e c’era solo una piccola pausa per andare in mensa a pranzare. Lavorare con Matteo ci ha fatto capire tanto sul cinema, che non è come spesso si dice una cosa per pochi eletti o per chi ha un dono particolare, ma più di ogni altra cosa presuppone impegno e lavoro quotidiano. A proposito del nostro primo incontro, ricordo che appena ci ha visto alla cena ci ha squadrato e ci ha detto che avremmo potuto fare gli italo-americani in un film. Noi gli abbiamo raccontato che stavamo preparando il nostro primo lungometraggio, lo abbiamo incuriosito e così ci ha chiesto se volevamo seguirlo in un altro locale dove stava andando. È iniziato tutto in questo modo e alla fine ci siamo ritrovati a collaborare con lui nella sua casa agli Studios della Tiburtina. Un sogno.

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Tito e gli alieni, Rabbia furiosa, Jurassic World e gli altri film della settimana https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/tito-e-gli-alieni-rabbia-furiosa-jurassic-world-e-gli-altri-film-della-settimana/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/tito-e-gli-alieni-rabbia-furiosa-jurassic-world-e-gli-altri-film-della-settimana/#respond Fri, 08 Jun 2018 06:16:30 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10661 Tra offerte di diverso genere, i nuovi film in sala portano tre ottime sorprese tutte italiane. La prima è Rabbia furiosa. Saziati dai fasti favolosi di Dogman di Garrone ci giunge la terza regia di Sergio Stivaletti, allievo di Dario Argento. Er canaro secondo Stivaletti ha le sembianze dolenti e sottomesse di Riccardo De Filippis. […]

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Tra offerte di diverso genere, i nuovi film in sala portano tre ottime sorprese tutte italiane. La prima è Rabbia furiosa. Saziati dai fasti favolosi di Dogman di Garrone ci giunge la terza regia di Sergio Stivaletti, allievo di Dario Argento. Er canaro secondo Stivaletti ha le sembianze dolenti e sottomesse di Riccardo De Filippis. Il suo toelettatore tosa cagnolini e rattoppa molossi con Le nozze di Figaro in sottofondo. Appena uscito dal carcere, è continuamente tirato al guinzaglio dal falso amico criminale con il volto quadrato e spaventoso di Virgilio Olivari e rinnega ogni dignità fino all’esplosione. Fedele alla truculenza della cronaca originale (non ci si aspettava altrimenti da un maestro di trucco ed effetti speciali), le scene più spietate puntellano la storia nel dualismo tutto psicologico tra i due protagonisti. Una mano che raccoglie un mazzo di chiavi schiacciata con forza con uno scarpone in primo piano, la fronte canuta e impotente di De Filippis e quelle musiche dall’essenzialità western di Maurizio Abeni sanno scioccare più del sangue finale.

Una storia di espiazione disturbante che tocca anche sentimenti inaspettati, un film a basso budget girato in gran parte nei laboratori e sui terreni di Stivaletti, la Roma periferica del Mandrione brulla e senza speranza ma a volte incantevole, un poliziotto buono e uno malfidato, una moglie, Romina Mondello, che porta in seno vitalità, speranze e drammaticità della periferia sono elementi che fanno di questo film un possibile cult. Seppur con piccole sbavature, i rimandi stilistici al cinema di Lenzi, Bava, ai poliziotteschi più brutali e a quella Roma dei ’70 assolata e senza traffico di cui si è persa memoria ne fanno un ottimo lungometraggio di genere.

Dal genere è partito anche il regista esordiente Alfredo Fiorillo. Il suo Respiri è un’operazione sempre low budget, con un Alessio Boni protagonista e promotore appassionato. L’ambizione di costruire in una casa sul lago la duplice identità del protagonista non riesce benissimo per via di una narrazione che nel suo gioco di specchi finisce spesso per perdersi. Il thriller psicologico intorno a un uomo enigmatico e agli strani eventi che circondano lui e la figlioletta è retto con stile da Boni, che però gestisce come può i momenti più accartocciati del racconto.

Due gemelli romani alla prima esperienza registica e un film che brilla di luce propria sia stilisticamente che emotivamente. Ecco la seconda sorpresa di casa nostra, il piccolo miracolo di Fabio e Damiano D’Innocenzo. Il loro La terra dell’abbastanza è stato applaudito al Festival di Berlino e ora tocca al pubblico il responso. Ci sono il racconto urbano spietato e la storia di amicizia e crimine; abbondano in maniera sempre asciutta violenza e sesso da una parte e possibilità di redenzione familiare dall’altra. La via più facile è la svolta fuorilegge per i giovinastri Mirko e Manolo. Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti sono semplicemente veri, impressionanti, e i loro caronti interpretati da Luca Zingaretti e Giordano De Plano non sono da meno. Se questi due gemelli alle prime armi (peraltro assistenti alla sceneggiatura di Dogman) dovessero continuare a far cinema con la stessa potenza visiva e narrativa dell’esordio ci troveremo di fronte a due nuovi Taviani pulp o comunque con due splendidi autori in più.

La terza felice sorpresa ha il volto di Valerio Mastandrea e dei giovani attori, tenerissime macchiette, che interpretano i nipotini ritrovati di questo nostalgico ingegnere italiano nell’Area 51. Tito e gli alieni si potrebbe definire un pizza-sci-fi in forma di commedia, vista l’italianità partenopea infusa a scenari desertici animati dalla caccia all’ufo. Il film di Paola Randi diverte, intrattiene, intriga e commuove. Ha tutte le carte per piacere anche lontano. True Colors, costola esterofila di Lucky Red, lo distribuirà infatti anche fuori dall’Italia, mentre intanto, nelle nostre sale, ha già iniziato a brillare come film per tutta la famiglia. Altro che Disney, questa piccola meraviglia ruba il cuore.

E giungiamo al blockbuster della settimana. Jurassic World – Il regno distrutto è il secondo capitolo del nuovo franchise prodotto da Steven Spielberg. I risvolti narrativi sullo sfruttamento economico dei dinosauri e la rapacità non proprio etica della ricerca genetica lo rendono concettualmente più dark del primo. Anche le scene meno solari e le reazioni piangenti dei bambini all’anteprima lo confermano. Non avrà probabilmente il successo straordinario del suo predecessore ma porterà a casa il risultato. La coppia Chris PrattBryce Dallas Howard funziona sempre, ma stavolta il copione a disposizione non li fa esprimere al massimo. Due ore d’intrattenimento da grosso cinema luna park e il gioco è fatto.

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