Jacopo Olmo Antinori Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 21 Jun 2021 17:11:41 +0000 it-IT hourly 1 Un “Weekend” che non si dimentica: Riccardo Grandi racconta il suo film in uscita su Amazon Prime https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/weekend-riccardo-grandi/ Wed, 16 Dec 2020 08:09:34 +0000 https://www.fabriqueducinema.com/?p=14610 L’eterno scontro fra presente e passato, ambientazioni sospese e non-luoghi: sono una parte dei numerosi tasselli di Weekend, film che conta tra i produttori Roberto Cipullo di Camaleo e Giovanni Amico di Twister, che il regista Riccardo Grandi ha deciso di raccontare a Fabrique in occasione dell’uscita del film su Amazon Prime domani 17 dicembre. […]

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L’eterno scontro fra presente e passato, ambientazioni sospese e non-luoghi: sono una parte dei numerosi tasselli di Weekend, film che conta tra i produttori Roberto Cipullo di Camaleo e Giovanni Amico di Twister, che il regista Riccardo Grandi ha deciso di raccontare a Fabrique in occasione dell’uscita del film su Amazon Prime domani 17 dicembre. I protagonisti sono alcune delle giovani leve che si sono fatte più notare nel cinema italiano degli ultimi anni: Alessio Lapice, Filippo Scicchitano, Jacopo Olmo Antinori, Lorenzo Zurzolo, Eugenio Franceschini.

Ci racconti il progetto creativo che sta dietro il film?

Weekend nasce due anni fa, figlio di lunghe chiacchierate fra colleghi destinate, come spesso succede, a rimanere chiuse in un cassetto finché non si trova l’occasione giusta. E in seguito, a causa della pandemia, il lavoro è stato necessariamente sospeso e abbiamo potuto ricominciare solamente durante il periodo estivo. Dato che si tratta di un film ambientato sotto la neve, abbiamo dovuto ricreare gran parte del set in studio e lavorare molto in post-produzione, questo grazie alla Frame by Frame nella persona di Davide Luchetti. In generale posso dire che è stata una bella prova di coesione del gruppo di lavoro essere in grado di riprendere le fila di un lungometraggio dopo molto tempo di sospensione. Per quanto mi riguarda, prima di Weekend la mia esperienza era legata alla miniserie Passeggeri notturni, tratta dai racconti di Gianrico Carofiglio. Per questo motivo ho sentito l’esigenza di portare sullo schermo qualcosa che provenisse più “da me”. Devo dire che amo lavorare in gruppo e non mi ritrovo affatto nella figura del regista autarchico. Adoro lavorare con grandi autori – l’esperienza con Carofiglio è stata bellissima – e in special modo cerco di creare dei veri e propri gruppi di scrittura perché penso che sia il modo migliore per far nascere un film.

Weekend potrebbe definirsi un lungometraggio cross-genered, ma con un approccio visivo legato molto al classico. Come ti sei mosso in questa direzione?

I rimandi al passato ci sono inevitabilmente, in particolare ad autori cui sono molto legato, come Hitchcock e Polanski – Nodo alla gola e Cul de Sac – maestri nel girare in ambientazioni circoscritte. Inoltre, l’esperimento che abbiamo tentato è stato quello di creare un “nowhere”. Il cinema italiano è spesso un cinema fortemente caratterizzato da una determinata provenienza, in questo caso abbiamo cercato di creare un non-luogo, cercando di essere meno local. Come ha sempre sostenuto Stephen King: «I miei romanzi sono tutti ambientati a Castle Rock» e alla domanda su dove sia questo posto, lui risponde: «Sulla mia scrivania, vicino alla mia macchina da scrivere». Ho anche portato avanti una ricerca visiva molto approfondita con il direttore della fotografia Timoty Aliprandi per ricreare le atmosfere vitali per il film.

Qual è stato l’approccio degli attori nel creare questa sospensione?

Gli attori sono arrivati sul set dopo un lungo periodo di prove, in cui sono stati chiamati a vivere davvero l’ambiente del film ricreato dal production designer Biagio Fersini. Quindi in qualche modo sono riusciti a toccare con mano la sensazione di reclusione in cui è avvolto Weekend. Alla base di tutto c’è stata la loro disponibilità verso il testo e verso i personaggi.

weekend-Lapice-Scicchitano
“Weekend”, Alessio Lapice e Filippo Scicchitano

Protagonista in Weekend è la continua lotta tra passato e presente. Cosa scaturisce da questa contrapposizione?

Uno dei grandi temi del film è effettivamente questo: il passato che torna ripetutamente e con forza, riproponendo gli errori incancellabili dei protagonisti. Questa lotta fa perno sul concetto di giustizia, un tema che mi è stato sempre molto a cuore. La giustizia ha mille sfaccettature e credo che sia anche alla base dell’essenza stessa del cinema. Lo spettatore va al cinema per emozionarsi ma anche perché, in qualche modo, vuole ricevere giustizia: che sia una commedia o una storia d’amore o qualsiasi altro genere, quando inizia a vedere un film lo spettatore vuole che succeda ciò che è giusto che succeda.

A proposito di futuro, invece: quali saranno i tuoi prossimi progetti?

Al momento ho un progetto che è in fase di scrittura, un thriller ambientato a New York, città che amo molto. Ammetto che il mio sogno è proprio quello di poterlo realizzare lì. L’augurio per il futuro rimane quello di continuare a creare dei gruppi di scrittura e di lavoro, per far sì che il ruolo del regista seguiti a essere quello del coach di una bella squadra capace di coordinare il talento degli altri.

 

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Featuring: i giovani attori che animano Fabrique n. 23 https://www.fabriqueducinema.it/magazine/attori/featuring-i-giovani-attori-che-animano-fabrique-n-23/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/attori/featuring-i-giovani-attori-che-animano-fabrique-n-23/#respond Fri, 21 Dec 2018 14:12:02 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=12101 Spazi grandi e vuoti, pronti per contenere tutta la volontà, l’ambizione e la concretezza dei sei giovani attori che animano il dossier di Fabrique, in attesa di farsi apprezzare al meglio sul piccolo e grande schermo. Marco Todisco Studi Attualmente studio Lettere Moderne alla Sapienza, dopo cinque anni di liceo classico superati più che discretamente. […]

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Spazi grandi e vuoti, pronti per contenere tutta la volontà, l’ambizione e la concretezza dei sei giovani attori che animano il dossier di Fabrique, in attesa di farsi apprezzare al meglio sul piccolo e grande schermo.

Marco Todisco

Studi Attualmente studio Lettere Moderne alla Sapienza, dopo cinque anni di liceo classico superati più che discretamente. I miei studi “artistici” sono stati gli insegnamenti di Mario Scaletta, Massimiliano Giovanetti e soprattutto di Enrico Brignano.

Mi avete visto esordire a cinque anni su RAI 1 con la fiction Medicina generale, quindi ho preso parte a Fratelli detective su Canale 5. Ho partecipato anche alle serie I Cesaroni, RIS, Distretto di polizia, Ho sposato uno sbirro. Per quanto riguarda i film, ho recitato in Questione di cuore, Febbre da fieno, Al posto tuo, Non c’è campo.

Mi vedrete nel film Moschettieri del re per la regia di Giovanni Veronesi, in uscita il 27 dicembre. Sui progetti futuri, ci stiamo lavorando.

Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Sul set dei Moschettieri del re mi sono trovato a fianco di Attori con la A maiuscola quali Favino, Mastandrea, Papaleo e Rubini. Da loro ho imparato molto, soprattutto come si debba stare su un set. Sono dei veri signori, sia davanti che dietro la telecamera. «Se non hai il rispetto reciproco di chi lavora con te tutti i giorni, tornerai a casa stanco e affaticato. Se lo ottieni, andrai a casa ugualmente stanco, ma con la voglia, l’indomani, di tornare». Queste sono le parole di Favino.

Ludovica Coscione

Studi All’età di circa sedici anni ho preso parte con successo al provino di Non dirlo al mio capo e, finite le riprese, durante gli ultimi anni del liceo, mi sono iscritta a una scuola di cinema dove ho approfondito i miei studi di dizione e recitazione.

Mi avete visto in Non dirlo al mio capo in cui ho indossato i panni di Mia Marcelli, la figlia adolescente e un po’ ribelle di Lisa, interpretata da Vanessa Incontrada. Nella fiction Che Dio ci aiuti 4, ero Agata, una ragazza con problemi cardiaci e in fin di vita. Sono molto legata a entrambi questi personaggi perché mi hanno insegnato molto, sia a livello tecnico che umano.

Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Dal set porto tanti bei ricordi, in particolare uno riguardante i miei primi giorni di lavoro. Credevo di non essere all’altezza, mi sentivo come un pesce fuor d’acqua a lavorare con attori di un certo calibro, e Vanessa, con cui ho avuto da subito un bel feeling e che è in grado di capire i miei pensieri soltanto guardandomi negli occhi, un giorno mi ha fatto trovare in camerino una collana a forma di cuore con su scritto “You can do it”. Da quel giorno, la porto a ogni provino per ricordare a me stessa che c’è qualcuno che crede in me ed è giusto che io faccia lo stesso.

Maria Vera Ratti

Studi Ho studiato Scienze Politiche e Studi Russi e dell’Asia Centrale a Leiden, in Olanda. All’università mi ero unita a un gruppo di teatro e, dopo la laurea, per la gioia dei miei genitori, ho capito che volevo solo fare l’attrice. Vivevo a Berlino, ho preso il primo volo Ryanair che potevo permettermi, ho fatto il provino per il Centro Sperimentale e mi hanno preso. Adesso sono al secondo anno ed è forse l’unica scelta veramente sensata che abbia mai fatto in vita mia.

Mi vedrete nella seconda stagione di Rosy Abate, ed è il mio primo lavoro!

Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Appena iniziate le riprese, dovevo fare una scena che mi stava molto a cuore. In preparazione avevo lavorato sulla dinamica, fissandomi degli appuntamenti emotivi come salvagente; erano i miei primi giorni sul set e, come si dice a Napoli, stavo tutta“imballata”, troppo per aprirmi alla scena come volevo. Lo avvertivo e, una volta battuto il ciak, ho smesso di pensare e ho capito: mi sono buttata e ho imparato una concentrazione diversa. Mi sono fidata del lavoro che avevo fatto, tanto da lasciarlo andare per guadagnare quella libertà, quell’ascolto e quella sintonia che fanno fermare il mondo mentre reciti. È come se avessi aperto un tappo, e da lì è iniziata la magia.

Roberto Oliveri

Studi A Napoli, facendo vari corsi di cinema. A 22 anni decido di trasferirmi a Roma, dove mi mi diplomo presso un’accademia di arti drammatiche, ma che non citerò perché non la consiglio. Dopodiché ho frequentato vari corsi e seminari di recitazione con Michael Margotta, Francesca Viscardi, Edoardo De Angelis, Massimiliano Bruno, Danilo Nigrelli e altri. Un seminario che mi ha insegnato tanto è stato quello di commedia dell’arte… Io amo le maschere!

Mi avete visto a teatro, in cui ho lavorato tanto e con vari registi. Adoro il palco, piedi scalzi e pelle d’oca. Nel 2016, dopo varie esperienze indipendenti e non nell’audiovisivo, vesto i panni di Ronni in Gomorra
3 ‒ La serie
, esperienza molto bella e forte, su un set internazionale, tra Bulgaria e Napoli, diretto da Claudio Cupellini e Francesca Comencini.

Mi vedrete in Gomorra, quarta stagione, dove sono diretto da cinque registi diversi, tra cui Marco D’Amore al suo esordio in questo ruolo. Ho avuto la fortuna di lavorare nel film The Pope in una scena con Jonathan Price che interpreta Papa Bergoglio. Mi vedrete anche nella nuova serie Devil, in uscita su Sky, in cui sono un ragazzo argentino (ma non posso svelare altro).

Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Di ricordi ne ho veramente tanti, ma quello che mi fa sorridere di più è stato quando sul set di Gomorra ero in posizione sul mio scooter in attesa dell’azione e mi ha fermato una macchina dell’antidroga convinta che stessi lì per qualche malaffare, mentre sentivo: «Azione, Ronni, Azione!». Regista e costumista sono rimaste entusiaste per la credibilità del mio personaggio.

Valeria Bono

Studi Ho studiato alla Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano e ho approfondito la mia recitazione in Inglese con alcuni insegnanti della Guildhall School of Music and Drama.

Mi avete visto come prima esperienza su un set importante, nella serie TV Romanzo famigliare con la regia di Francesca Archibugi.

Mi vedrete nel 2019 nel cortometraggio in concorso ai David di Donatello Dorothy con la regia di Federico Lagna, scritto da Federico Lagna e Marco Ponti. Nel 2019 uscirà, inoltre, Panoptes, opera prima indipendente del regista Marcello Mosca, di cui sono protagonista.

Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set L’esperienza di set più incredibile per me è stata sicuramente quella di Romanzo famigliare. Lavorare con Francesca Archibugi è stato bellissimo. Ricordo che, quando mi guardava, con quel suo cerchietto e la sigaretta elettronica, sentivo come se mi vedesse dentro! Interpretavo un’allieva
della Marina Militare e per un mese io e gli altri attori abbiamo fatto addestramento quasi tutti i giorni con i militari veri. È stato utile dal punto di vista umano e artistico. E inoltre, su quel set, grazie a Guido Caprino, ho imparato l’importanza dell’ascolto. Guido era sempre concentratissimo, trasformava ogni tua azione in qualcosa di utile per la scena.

Jacopo Olmo Antinori

Studi Non ho mai avuto l’occasione di studiare in una scuola a tempo pieno. Avendo iniziato a fare questo lavoro all’età di 14 anni, non ne avevo né il modo né l’età. Poi, quando finito il liceo e si è presentata la possibilità di studiare in una scuola, ho scelto di privilegiare il percorso lavorativo che avevo già avviato. Mi sono comunque sempre sforzato di ampliare i miei orizzonti in materia di recitazione: le estati dei miei anni di liceo sono state costellate da continui viaggi in Inghilterra, dove ho frequentato scuole anche importanti, come Central School of Speech and Drama. Nelle mie continue peregrinazioni, sono anche capitato a Los Angeles, dove ho studiato tecnica Meisner. A oggi, studio Letteratura Inglese all’università e continuo a portare avanti le mie esplorazioni nella recitazione. Sono sempre stato un tipo curioso, mai attaccato a un singolo modo di lavorare.

Mi avete visto dopo qualche piccola esperienza a teatro quando ero ancora bambino, in Io e te di Bernardo Bertolucci. Successivamente ho lavorato ne I nostri ragazzi di Ivano de Matteo, Zeta di Cosimo Alemà, La ragazza nella nebbia di Donato Carrisi e Una questione privata dei fratelli Taviani. Negli anni mi è anche capitato di lavorare su alcuni set internazionali: nello specifico, in Maria Maddalena e nella serie The Alienist, I Medici.

Mi vedrete in Medici 3, che uscirà nel 2019.

Racconta un episodio significativo legato alla tua esperienza del set Ricordo il mio ultimo giorno sul set di Io e te come uno dei più belli della mia vita. Dopo cinquanta giorni di lavorazione, la maggior parte dei quali spesi in interni, giravamo una sequenza in tram. All’inizio della giornata abbiamo fatto una foto di gruppo con tutta la troupe, che ormai per me era diventata a tutti gli effetti una seconda famiglia. Quando abbiamo chiuso l’ultimo ciak, ho sentito la profondità del legame che avevo stabilito con quelle persone. Ho pianto per un po’ di giorni di seguito. Non scorderò mai quella troupe e conserverò sempre una profonda gratitudine per ognuno di loro.

producer TOMMASO AGNESE
fotografa BRUNELLA IORIO
testi raccolti da MONICA VAGNUCCI
stylist ALLEGRA PALLONI
assistente fotografa ALICE CICCOLA
hair GIADA UDOVISI@HARUMI
makeup ELEONORA DEFELICIS@HARUMI
total look uomini DAVID NAMAN
special thanks DISTRETTOQUATTRO
Thanks: Federica Lanari (abiti donne)

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“Zeta” – il rap è la risposta https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/zeta-il-rap-e-la-risposta/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/zeta-il-rap-e-la-risposta/#respond Tue, 26 Apr 2016 12:04:27 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3053 Arriva nelle sale “Zeta”, diretto da Cosimo Alemà, una strepitosa carriera di regista di videoclip e due lungometraggi all’attivo (At the end of the day, La Santa). La storia, ambientata nella periferia romana, narra le vicende di un ragazzo, Alex in arte Zeta, che ha come obiettivo fare del rap, la sua passione, il mezzo per sfondare […]

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Arriva nelle sale Zeta”, diretto da Cosimo Alemà, una strepitosa carriera di regista di videoclip e due lungometraggi all’attivo (At the end of the day, La Santa).

La storia, ambientata nella periferia romana, narra le vicende di un ragazzo, Alex in arte Zeta, che ha come obiettivo fare del rap, la sua passione, il mezzo per sfondare e fuggire da un ambiente che gli sta stretto. Insieme all’amico Marco forma un duo, gli Anti, ma è solo come solista che riesce a farsi notare. Alex deve andare avanti da solo e lasciare Marco e l’amica Gaia: scoprirà, però, che è soltanto non dimenticando da dove viene e restando fedele ai suoi affetti che potrà diventare un uomo ed essere davvero felice.

Nel cast oltre ai tre protagonisti Diego Germini, Irene Vetere e Jacopo Olmo Antinori, brillano le rap star italiane: Clementino, Rocco Hunt, Fedez, J-Ax, Salmo, Ensi, Briga, Baby K, Lowlow, Tormento, Rancore, Shade, Noyz Narcos, Shablo e Metal Carter.

Zeta è un film che racchiude in sé tante storie, tanti filoni di intreccio: è la vicenda di un ragazzo che non sopporta il luogo in cui vive, si sente soffocare dalla realtà che lo circonda e che non lo rappresenta; è un racconto di amicizia leale e sincera come sempre più si incontrano solo nei film e, difficilmente, nella realtà; è una favola d’amore profondo e tormentato tra due ragazzi; è, soprattutto, una storia di passione per il rap, un sentimento viscerale che si rivela come l’unico modo per riuscire a sentirsi libero e appagato.

Ma la pellicola di Alemà è anche la fotografia impietosa di una realtà di periferia, che è ambientata a Roma ma potrebbe essere dovunque, di una situazione di disagio e di povertà che porta spesso i ragazzi a compiere scelte sbagliate, a mettersi in guai molto più grandi di loro. E allora il rap diventa l’unico modo per fuggire da questo squallore: mettersi le cuffie aiuta a isolarsi, a distaccarsi dalla miseria umana e culturale che circonda questa generazione di giovani. La musica, per il protagonista, è anche il mezzo per cercare di scappare materialmente dal suo quartiere: cercherà di farsi notare nel mondo del rap che conta, quello delle case discografiche e dei club frequentati dagli artisti.

Questo racconto di borgata, che si va a sommare a quelli che abbiamo visto recentemente sullo schermo, si pensi a Lo chiamavano Jeeg Robot o a Non essere cattivo, non ha forse la profondità descrittiva e la capacità di analisi impietosa di Claudio Caligari o l’ironia graffiante e l’originalità di Gabriele Mainetti. Si prefigge però uno scopo diverso: raccontare, sopra ogni cosa, il rap e il suo impatto sulle nuove generazioni, soprattutto quelle di periferia, e in questo riesce senz’altro a raggiungere il suo obiettivo.

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