Irene Vetere Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 18 Mar 2022 09:44:03 +0000 it-IT hourly 1 Intervista a Beatrice Baldacci: “Vi porto nella mia Tana” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/intervista-a-beatrice-baldacci-vi-porto-nella-mia-tana/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/intervista-a-beatrice-baldacci-vi-porto-nella-mia-tana/#respond Thu, 10 Feb 2022 09:24:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16768 Uscirà a maggio La tana, opera prima di Beatrice Baldacci. Intanto, dopo la sua prima alla Biennale Cinema alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso anno, a Roma sono già iniziate le prime proiezioni d’anteprima, come quella d’inizio febbraio al Cinema Aquila dove c’è stato un sorprendente doppio sold out. Bello riempire due sale […]

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Uscirà a maggio La tana, opera prima di Beatrice Baldacci. Intanto, dopo la sua prima alla Biennale Cinema alla Mostra del Cinema di Venezia lo scorso anno, a Roma sono già iniziate le prime proiezioni d’anteprima, come quella d’inizio febbraio al Cinema Aquila dove c’è stato un sorprendente doppio sold out. Bello riempire due sale anziché una, soprattutto in questo periodo.

Il film racconta l’incontro/scontro di Lorenzo, ragazzo che lavora la campagna dei genitori durante un’estate assolata, e Lia, nuova e misteriosa vicina di casa che scatenerà in lui sentimenti inaspettati. L’ambientazione bucolica estiva in un casale nella provincia laziale ricostruisce uno spazio-tempo silenzioso e pieno di possibilità in un periodo di non lavoro e non studio, l’estate, dove può succedere qualsiasi cosa.  Ma l’autrice, attingendo forse inconsapevolmente a una certa Nouvelle Vague, scava più a fondo, dietro e oltre i suoi personaggi e soprattutto intorno alla sua Lia, portando a galla una difficile e inaspettata situazione familiare. Irene Vetere, che per questa interpretazione ha vinto i Fabrique du Cinéma Awards 2021, e Lorenzo Aloi sono i protagonisti scelti dalla regista che abbiamo incontrato per un’intervista, poi diventata una ricca conversazione sul suo cinema e il suo lavoro sul set.

La tana è il tuo film d’esordio, potremmo definirlo un coming of age alla Eric Rohmer per questo incontro brusco e non romantico tra due giovani. Da quanto ti ronzava in testa questa storia, e quando hai deciso che doveva diventare un film?

Quando scrivo una storia le prime cose alle quali penso e mi affeziono sono i personaggi e luoghi. Avevo in testa già da tempo le figure di Lia e Giulio. M’interessavano molto questa contrapposizione di spiriti – uno più innocente, l’altra più problematica e brusca all’apparenza – e i luoghi del film, ispirati a quelli della mia infanzia. Mia nonna aveva una casa in campagna e di fronte c’era un’altra casa semiabbandonata che per me è sempre stata un mistero. Poi volevo portare avanti una tematica che avevo sviluppato nel corto precedente, Supereroi senza superpoteri, così mi è venuto tutto in modo abbastanza naturale. L’occasione si è presentata con Lumen Film, che mi ha chiesto se, avendo una storia, volessi partecipare alla Biennale College. E la mia era molto adatta ad uno sviluppo di micro-budget. C’erano poche location, pochi attori, quindi ho proposto La tana.

Come hai vissuto questo set e come hai scelto la location?

Inizialmente l’idea era quella di girare in Umbria, nei luoghi che conosco. Ma a causa del budget, e avendo lavorato durante la pandemia in zona rossa, era complicato. Non siamo riusciti a portare il set in Umbria e abbiamo iniziato la ricerca nelle campagne romane. All’apparenza sembra facile trovare due case una di fronte all’altra, in campagna. Però dovevano avere caratteristiche specifiche: dovevano essere abbastanza vicine, guardarsi una con l’altra, e una delle due doveva sembrare quasi abbandonata. La ricerca delle location è stata la cosa più complessa forse, ed è arrivata alla fine della preparazione al set. Ma abbiamo avuto fortuna perché le case trovate erano molto adeguate all’immaginario che avevo in testa. Poi è stato fatto un grande lavoro di scenografia, soprattutto per invecchiare la scasa di Lia. Riguardo alle riprese, il periodo del set per me è stato quello più rilassante di tutto il percorso del film. Pur con tempi strettissimi. Abbiamo girato solo in diciotto giorni, riuscendo a ultimare fino a tredici scene al giorno. Con tempi così stretti hai pochi momenti per pensare o andare nel panico. Il set dunque l’ho trovato molto naturale, il peggio invece è stato prima, durante il percorso con Biennale, che richiedeva più nervi saldi e l’esser messi spesso alla prova, oltre alla preparazione con gli attori.

Nel tuo lavoro precedente, il corto di montaggio Supereroi senza superpoteri, hai lavorato prevalentemente sul montaggio di materiali video provenienti dal tuo passato familiare. Ora invece hai messo in scena importanti dinamiche familiari con gli attori. Continuerai questa indagine emotiva sulle relazioni più strette o pensi di aver chiuso un cerchio e guardi ad altre tematiche?

Ne La tana ci sono diverse tematiche che mi sono portata dietro dal corto. Il tema dei ricordi, della nostalgia per i tempi passati sono cose entrate inconsciamente nel film perché mi appartengono. Quindi l’indagine familiare m’interessa molto, soprattutto tutto quello che ci si nasconde dietro, e come influenza la vita di figli e genitori. Staccarmene completamente non credo ci riuscirei, ma non voglio rifare lo stesso film per tutta la vita.

Forse la nostalgia di cui parli visivamente l’hai inserita in questi 4:3, formato sia del film che del corto, e in alcuni dettagli che metti della natura. Fiori e foglie in inquadrature molto strette, quasi pixelate. Credo rivelino molto della tua sensibilità, anche se sono immagini di raccordo.

La ricerca che faccio sull’immagine riguarda l’emotività: cerco ciò che apparentemente si lega a un’immagine, magari non c’entra niente, ma può suscitare emozione nello spettatore. Avevo fatto lo stesso con Supereroi utilizzando immagini amatoriali. Qui invece si tratta di immagini fatte con il cellulare per dare una sensazione di vicinanza. Più che narrativa, hanno funzione di suggestione. E quella nostalgia ho cercato di restituirla anche dall’interno della casa della protagonista, perché rappresenta tutto quello che è stato e che ora non c’è più. Quindi di un passato che in qualche modo sopravvive.

Invece per quanto riguarda i protagonisti, che vivono in un certo qual modo un’iniziazione sentimentale immersi nella natura, un po’ come accade in Chiamami col tuo nome, o in Io ballo da sola, come hai lavorato con gli attori?

Il periodo estivo, soprattutto quando si è giovani, è quello in cui tutto può accadere. Le cose magiche accadono sempre d’estate, c’è una strana atmosfera. Io intanto volevo che le due case fossero quasi due personaggi del film perché rappresentano i protagonisti stessi. Dovevano rispecchiare la relazione che Giulio ha poi con Lia. Sia attraverso le finestre che in tutte le scene, una cosa molto importante era per me il gioco continuo tra il dentro e il fuori. Quindi con Irene e Lorenzo abbiamo preparato il film con quasi due mesi di prove. Ci vedevamo regolarmente due volte a settimana, ma io volevo che si creasse un rapporto sia tra loro due, che tra me e loro. Inizialmente non abbiamo lavorato sulle scene del film, ma facevamo esercizi slegati dal contesto, esercizi di fiducia e di rimozione delle barriere d’imbarazzo che stanno tra persone sconosciute. Per esempio, andavamo al ristorante e facevo loro interpretare Giulio e Lia in quella situazione. Solo successivamente siamo passati alle prove del film vere e proprie, perché poi sul set non ci sarebbe stato tempo di provare o improvvisare. Era importante impostare tutto il lavoro da prima.

Irene Vetere
Irene Vetere vince i Fabrique du Cinéma Awards 2021 per “La tana”.

Hai scritto la sceneggiatura insieme a Edoardo Puma. È piena di silenzi e sfumature non facili da rendere. I due attori, rispetto anche alle prove, cosa hanno apportato in termini personali a La tana? Hanno tirato fuori dal cappello a cilindro qualcosa d’inaspettato che ti ha sorpresa?

Alcune scene sono cambiate durante le prove perché la sceneggiatura originale, nei dialoghi, era ancora più scarna del film come lo vedi ora. Così in prova aggiungevamo delle “sporcature” per rendere più naturale la scena, grazie ai suggerimenti di Lorenzo e Irene che mi aiutavano a renderla più adeguata in certi punti. Irene mi ha stupita molto perché ha sciolto tutta l’emotività che tratteneva nei take per esigenza di copione: è andata oltre il suo 100% dandosi completamente al film. Infatti dopo mi ha confessato che durante le prove preservava il suo lato più emotivo per farlo uscire completamente davanti alla macchina da presa. Tanto che in alcune scene, dopo lo stop, scoppiava in un pianto liberatorio.

Hai appena iniziato il tuo cammino da regista, ma qual è il genere di film che non vorresti mai girare? E quello dove invece ti piacerebbe cimentarti in futuro?

Che non vorrei mai fare perché non lo sento nelle mie corde? Sicuramente qualcosa tra azione e fantascienza. Perché sono cose troppo lontane da me. In verità ti avrei risposto inizialmente l’horror, perché non lo guardo, ma girarlo potrebbe essere divertente. Un genere che mi piacerebbe fare invece è il comico. Anzi, il tragicomico, il grottesco.

Mai come oggi il cinema in sala è minacciato da quello digitale, da salotto. Secondo te perché la sala è il posto migliore per guardare un film?

Prima di essere regista nasco spettatrice. Andare al cinema è sempre stata una mia buona abitudine. Per me è un rituale, un’esperienza collettiva: uno dei motivi che mi spinge a fare i film è sentire l’energia che scorre tra le persone. Mentre giro o scrivo un film finalizzo tutto alla sola esperienza di sala. Lo stare insieme davanti a un grande schermo porta anche dibattito. Se un film divide e fa discutere significa che qualcosa si è smosso e il film è riuscito. Invece guardare un film nella solitudine di un salotto annienta le possibilità di scambio di riflessioni e appiattisce l’esperienza cinematografica. Da qualche parte ho letto che Cronenberg, alla sua prima volta in un cinema, da bambino, chiese a suo padre dove vivessero quelle persone sullo schermo. E il papà, girandosi indietro e indicando il proiettore, gli rispose che vivevano tutte in quella luce lì. Secondo me è esattamente questa la magia che si crea quando si sta in sala.

 

 

 

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Irene Vetere, la nuova musa di Paolo Virzì si racconta https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/irene-vetere-la-nuova-musa-di-paolo-virzi-si-racconta/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/irene-vetere-la-nuova-musa-di-paolo-virzi-si-racconta/#respond Wed, 11 Jul 2018 10:00:11 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10888 Irene ha soltanto diciotto anni ma riesce a stupire con la saggezza di chi sa già il fatto suo. E si racconta con la spontanea incredulità di chi ha visto la propria vita trasformarsi da un momento all’altro in un sogno a occhi aperti. L’amore per la recitazione, tuttavia, l’accompagna da sempre: «Avevo solo otto […]

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Irene ha soltanto diciotto anni ma riesce a stupire con la saggezza di chi sa già il fatto suo. E si racconta con la spontanea incredulità di chi ha visto la propria vita trasformarsi da un momento all’altro in un sogno a occhi aperti. L’amore per la recitazione, tuttavia, l’accompagna da sempre: «Avevo solo otto anni quando l’attore Bernardo Casertano si presentò nella mia scuola elementare come insegnante di teatro e mi regalò il mio primo ruolo: la perfida regina di Biancaneve! Dopo quell’esperienza ho cominciato a frequentare una scuola di teatro e, qualche anno più tardi, Bernardo mi ha ricontattata su Facebook per chiedermi se volessi cominciare a fare qualche provino ed entrare nell’agenzia di Luisa Mancinelli. Mi sono detta “perché no?”. Di lì a poco, a quindici anni, ho vissuto il mio primo, brevissimo set: un episodio di Don Matteo 10».

Ecco che ti si è aperto un mondo completamente nuovo…

Esatto: sconosciuto ma elettrizzante! Non molto tempo dopo ho conquistato il mio primo ruolo da protagonista in Zeta di Cosimo Alemà, ed è stato allora che ho sperimentato la maestria di un regista nel guidare l’attore verso il percorso giusto. Cosimo arriva a ripetere un ciak anche cinquanta volte se non è soddisfatto, ma si è sempre mostrato aperto al confronto, al dialogo e attento a me come persona. Mi ha persino concesso di cambiare la sceneggiatura, se trovavo innaturali alcune battute. Abbiamo lavorato per rendere Gaia (la protagonista di Zeta) credibile sulle mie labbra.

Dopo Zeta sono arrivate proposte importanti. Gaia ti ha portato fortuna!

Ci tengo a fare una precisazione. Dopo Zeta ho intrapreso per due anni un percorso di studio con il regista, attore e sceneggiatore Luciano Melchionna. Grazie a lui ho superato alcune paure, è stato molto faticoso ma ha rappresentato un punto di svolta. È naturale mostrare resistenza quando ci viene chiesto di fare qualcosa di “innaturale”. Tuttavia, quando riesci a lasciar emergere la tua naturalezza, superando ogni blocco, inizi a credere di poter recitare davvero. Questo per dire che non credo molto nel “talento innato” e nei doni dal cielo. Certamente c’è di mezzo un pizzico di fortuna, ma si tratta della spinta iniziale. Il resto è tutto lavoro sodo.

Che differenze hai notato nel lavoro sull’attore di Alemà, Silvestrini e Virzì?

Cosimo e Paolo hanno in comune l’essere anche sceneggiatori dei film a cui ho preso parte. L’occhio sull’attore è necessariamente diverso in questi casi: hanno scritto di proprio pugno i personaggi e puntano a tirar fuori l’idea che loro stessi ne hanno. Ivan Silvestrini, invece, in Arrivano i prof mi ha affidato il ruolo di Camilla, la classica “secchiona”, molto lontana dal mio modo di essere. In quella circostanza ho cominciato da zero, cercando tutte le differenze tra me e lei e lavorando su quelle. Credo che sia proprio la ricerca la parte migliore di questo lavoro.

Eugenia (la protagonista di Notti magiche), invece, che tipo è?

Con Eugenia il gioco si è fatto duro: è una ragazza profondamente tormentata e io mi sentivo spaesata, nonostante Paolo sia geniale nell’indirizzare gli attori e capirli a fondo. Io, però, sono sempre stata una ragazza fondamentalmente serena e spensierata, quindi non sapevo da dove cominciare per portare in scena le complesse emozioni di Eugenia. Il caso ha voluto che, pochissimi giorni prima dell’inizio delle riprese, il ragazzo con cui stavo da quattro anni mi ha lasciata. Per me è stato uno shock, ma ricordo bene che ero nella mia stanza e mi sono detta: “Questo può essere un punto di partenza per esplorare il mondo interiore di Eugenia”. Ho deciso di trasformare in creatività l’ansia e il dolore che provavo.

Virzì è uno dei più importanti registi italiani viventi. Che effetto fa essere la sua nuova musa?

All’inizio sentivo molto il peso della responsabilità, l’ansia da prestazione… Ma avevo accanto Paolo stesso e due co-protagonisti in gamba con cui lasciarmi andare. Paolo ci teneva che vivessimo il più possibile questi ruoli e li facessimo nostri così come aveva fatto lui mentre li scriveva. È finita che questi personaggi così estranei a noi ci hanno preso al punto che girare non era più recitare, ma vivere. È stata un’esperienza completamente immersiva. Ti faccio un esempio: Notti magiche è ambientato a luglio ma le riprese si sono tenute a dicembre. Giravamo gli esterni a Trastevere in canottiera con una temperatura di 4°! Ci chiedevamo come avremmo fatto a non tremare eppure, appena sentivo il ciak, il gelo spariva. A quanto pare la passione può superare anche qualcosa di oggettivo come il freddo.

Il cinema italiano, oggi, vanta tra i suoi volti una serie di giovani donne emergenti, come Matilda De Angelis o le gemelle Fontana. Cosa pensi di questo segnale di cambiamento?

È assolutamente positivo. Lo spazio che ci è dato è come una prova di fiducia in un momento di rinascita del cinema italiano. È segno che si vuole ripartire dalle giovani promesse, e questa apertura mi sprona ancora di più a crescere come artista e a lavorare per dimostrare che la speranza è stata ben riposta. Perché se l’occasione è un atto di fiducia, il set è a tutti gli effetti un percorso di formazione, non un punto di arrivo.

E tu, con che cinema sei cresciuta?

I cento passi e La meglio gioventù sono i film che non mi stanco mai di rivedere. Adoro il cinema di Miyazaki e credo che La città incantata racconti come nessuno è mai riuscito a fare le sensazioni di un bambino che, giocando, ha di fronte a sé un universo inesplorato che per lui è molto più reale di ciò che gli accade intorno. È molto vicino alla magia che sto vivendo adesso con questo lavoro, perché stare sul set è come entrare in una dimensione parallela.

La prospettiva di diventare un’attrice conosciuta, come probabilmente accadrà dopo l’uscita di Notti magiche, ti spaventa?

Per adesso non me ne preoccupo. Sto vivendo tutto come un gioco eccitante, senza immaginare il futuro. Ci penso come a qualcosa di assurdo che è capitato nella mia vita, ma ci sto così tanto dentro che non riesco a proiettarmi troppo in là. Attualmente penso all’esame di maturità, a iscrivermi all’università: voglio lasciare che la vita mi sorprenda e faccia il suo corso.

Creative producer: Tommaso Agnese; Direttore di produzione: Massimo Rossetti; Foto: Roberta Krasnig; Stylist: Stefania Sciortino; Assistenti fotografa: Giulia Terenzi, Michela Merenda; Hair: adrianococciarelli @harumi; Trucco: Sara Bruschini e Daria Nucci per Rea Academy; Thanks to: Equipment, Normakamali, Mantù.

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“Zeta” – il rap è la risposta https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/zeta-il-rap-e-la-risposta/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/zeta-il-rap-e-la-risposta/#respond Tue, 26 Apr 2016 12:04:27 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3053 Arriva nelle sale “Zeta”, diretto da Cosimo Alemà, una strepitosa carriera di regista di videoclip e due lungometraggi all’attivo (At the end of the day, La Santa). La storia, ambientata nella periferia romana, narra le vicende di un ragazzo, Alex in arte Zeta, che ha come obiettivo fare del rap, la sua passione, il mezzo per sfondare […]

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Arriva nelle sale Zeta”, diretto da Cosimo Alemà, una strepitosa carriera di regista di videoclip e due lungometraggi all’attivo (At the end of the day, La Santa).

La storia, ambientata nella periferia romana, narra le vicende di un ragazzo, Alex in arte Zeta, che ha come obiettivo fare del rap, la sua passione, il mezzo per sfondare e fuggire da un ambiente che gli sta stretto. Insieme all’amico Marco forma un duo, gli Anti, ma è solo come solista che riesce a farsi notare. Alex deve andare avanti da solo e lasciare Marco e l’amica Gaia: scoprirà, però, che è soltanto non dimenticando da dove viene e restando fedele ai suoi affetti che potrà diventare un uomo ed essere davvero felice.

Nel cast oltre ai tre protagonisti Diego Germini, Irene Vetere e Jacopo Olmo Antinori, brillano le rap star italiane: Clementino, Rocco Hunt, Fedez, J-Ax, Salmo, Ensi, Briga, Baby K, Lowlow, Tormento, Rancore, Shade, Noyz Narcos, Shablo e Metal Carter.

Zeta è un film che racchiude in sé tante storie, tanti filoni di intreccio: è la vicenda di un ragazzo che non sopporta il luogo in cui vive, si sente soffocare dalla realtà che lo circonda e che non lo rappresenta; è un racconto di amicizia leale e sincera come sempre più si incontrano solo nei film e, difficilmente, nella realtà; è una favola d’amore profondo e tormentato tra due ragazzi; è, soprattutto, una storia di passione per il rap, un sentimento viscerale che si rivela come l’unico modo per riuscire a sentirsi libero e appagato.

Ma la pellicola di Alemà è anche la fotografia impietosa di una realtà di periferia, che è ambientata a Roma ma potrebbe essere dovunque, di una situazione di disagio e di povertà che porta spesso i ragazzi a compiere scelte sbagliate, a mettersi in guai molto più grandi di loro. E allora il rap diventa l’unico modo per fuggire da questo squallore: mettersi le cuffie aiuta a isolarsi, a distaccarsi dalla miseria umana e culturale che circonda questa generazione di giovani. La musica, per il protagonista, è anche il mezzo per cercare di scappare materialmente dal suo quartiere: cercherà di farsi notare nel mondo del rap che conta, quello delle case discografiche e dei club frequentati dagli artisti.

Questo racconto di borgata, che si va a sommare a quelli che abbiamo visto recentemente sullo schermo, si pensi a Lo chiamavano Jeeg Robot o a Non essere cattivo, non ha forse la profondità descrittiva e la capacità di analisi impietosa di Claudio Caligari o l’ironia graffiante e l’originalità di Gabriele Mainetti. Si prefigge però uno scopo diverso: raccontare, sopra ogni cosa, il rap e il suo impatto sulle nuove generazioni, soprattutto quelle di periferia, e in questo riesce senz’altro a raggiungere il suo obiettivo.

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