intervista Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 28 Nov 2022 09:30:48 +0000 it-IT hourly 1 “Le formiche della città morta” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/le-formiche-della-citta-morta/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/le-formiche-della-citta-morta/#respond Fri, 10 Oct 2014 17:49:59 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=953 Scritto, diretto e persino prodotto da Simone Bartolini, il duro e teso Le formiche della città morta racconta la parabola di un piccolo spacciatore sperduto in una Roma senza pietà, come il sound che ritma la sua caduta. Fin dal potente titolo che rimane subito impresso, il lungometraggio d’esordio del trentenne Simone Bartolini evoca un […]

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Scritto, diretto e persino prodotto da Simone Bartolini, il duro e teso Le formiche della città morta racconta la parabola di un piccolo spacciatore sperduto in una Roma senza pietà, come il sound che ritma la sua caduta.

Fin dal potente titolo che rimane subito impresso, il lungometraggio d’esordio del trentenne Simone Bartolini evoca un mondo cupo che non lascia nessuno spazio a possibilità di redenzione: «privo di luce», come dichiara senza giri di parole lo stesso regista. D’altronde, se si vuole raccontare il dramma della tossicodipendenza, non è possibile scegliere un approccio consolatorio.

Girato quasi completamente con macchina a mano e interpretato in gran parte da attori non professionisti (con le sole eccezioni di Nina Torresi e Danilo Nigrelli), Le formiche della città morta narra la metaforica discesa negli inferi di uno spacciatore di eroina che, nell’arco di 24 angoscianti ore, deve disperatamente trovare i soldi necessari a saldare un debito.

Ciò che più di ogni altra cosa colpisce dell’opera prima – ambientata in una Roma indifferente alle sofferenze dei personaggi che la abitano e assai lontana da quella abitualmente mostrata al cinema – è la capacità di mettere in campo uno sguardo oggettivo in grado di mostrare la vita del protagonista senza mai giudicarlo, riuscendo al contempo a metterne in risalto la profonda umanità.

Abbiamo incontrato Simone Bartolini, accompagnato dal sorprendente interprete Simon Pietro Manzari, in una sera d’inizio estate sul Tevere.

Come nasce il progetto del film e cosa ti ha spinto a raccontare una storia così tragica in cui è assente qualsiasi elemento di speranza?

Il film nasce sostanzialmente dal mio vissuto. Il mio quartiere, Città Giardino, è quasi un’isola felice. Frequentando alcune zone vicine come il Tufello, San Basilio e Talenti, però, negli anni sono entrato in contatto con situazioni come quelle che si vedono nel film. Non ne ho semplicemente sentito parlare, ma le ho proprio esperite sulla mia pelle avendo perso diversi amici a causa dell’eroina. Anche se ho deciso di non inserire nei titoli di testa un riferimento esplicito a queste persone, idealmente Le formiche della città morta è dedicato a loro. Il mio lavoro tratta il tema della dipendenza dalla droga, che considero in realtà una dipendenza dall’astrazione e dalla magia. Come diceva Pasolini, infatti, l’uso delle droghe comporta un annullamento della sfera culturale, conoscitiva e intellettuale, in favore di un ritorno al rito magico e al primitivismo. Ci tengo a dire che questo film l’ho sempre pensato all’interno di un progetto più ampio: quello di una trilogia attraverso la quale in qualche modo raccontare me stesso e, nello specifico, tre diverse dipendenze che mi rappresentano. Il secondo capitolo si incentrerà sul tema della violenza e, più in generale, sulla dipendenza dell’uomo dall’istinto animale. La sceneggiatura la sto ancora scrivendo, ma posso dire che attraverso i tre personaggi principali vorrei evidenziare tre differenti dinamiche della violenza: la violenza che porta ad altra violenza, la violenza necessaria e la violenza gratuita. Il terzo film sarà invece dedicato alla dipendenza dal sesso.

A proposito di sceneggiatura, ci puoi raccontare come si è evoluta la fase di scrittura del tuo esordio?

Devo dire che il film finito si è rivelato piuttosto diverso rispetto a quanto avevo originariamente scritto. Sin dall’inizio ho concepito questo mio primo lungometraggio come contrassegnato dalla presenza continua del numero tre (la divisione in tre atti, il protagonista che torna a casa per tre volte e che si fa di eroina per tre volte, le tre ragazze con cui ha rapporti e così via). Secondo questa logica, Le formiche della città morta doveva dunque avere tre personaggi principali: due donne e un uomo, che avrebbe rappresentato l’elemento di rottura tra le figure femminili. Nel momento in cui una delle due attrici protagoniste non ha potuto più prendere parte al film, ho deciso di cambiare la struttura della storia, concentrandomi con maggiore decisione sulla vita del personaggio maschile e su quella che è la sua personale parabola cristologica. Credo che in ogni mio futuro lavoro ci sarà almeno un personaggio che seguirà una traiettoria simile. Tutti gli uomini nella loro vita portano una croce e porre l’accento su questo aspetto è una cosa che mi interessa molto.

Interviene Simon Pietro, che si sofferma sulla lavorazione del film, svoltasi all’insegna del work in progress: «Credo sia importante sottolineare come l’opera abbia davvero preso forma via via. Le modifiche e le integrazioni apportate alla sceneggiatura durante le riprese sono state molte. Non c’era un vero e proprio copione precostituito da seguire alla lettera e in più occasioni, ad esempio, mi è capitato di suggerire i dialoghi. Il tutto naturalmente sotto la supervisione di Simone, con cui ci consultavamo di continuo mentre giravamo e al quale spettava sempre l’ultima parola». Pur essendo il sesto di sette figli di un uomo con alle spalle una decennale esperienza teatrale, Simon Pietro fa il rapper con il gruppo Quarto Blocco e prima di Le formiche della città morta non aveva avuto esperienze professionali in ambito teatrale o cinematografico. Eppure, fin dalle prime inquadrature del film, offre un’interpretazione intensa e convincente. «Non è stato difficile», ammette: «Simone ha costruito buona parte del suo lavoro e del personaggio principale su di me. Il protagonista lo sentivo vicino e ciò mi ha senz’altro facilitato il compito, anche se il film non è la storia della mia vita e sarebbe alquanto riduttivo dire che mi sia limitato a interpretare me stesso».

L’uso delle musiche ha un ruolo molto importante. Hai pensato fin da subito a un forte legame tra il mondo che volevi tratteggiare e il rap underground romano? Oppure anche questa scelta è stata presa in un momento successivo?

Uno dei miei principali punti di riferimento per il film è stato Accattone di Pasolini e quindi inizialmente, per sottolineare la drammaticità degli eventi messi in scena, volevo utilizzare la musica classica. Tra i compositori a cui in un primo momento ho fatto ricorso c’erano Bach, Mozart, Debussy e Sciarrino. Nel montare il film, mi sono però reso conto che questo tipo di soluzione non mi soddisfaceva. Così ho pensato ad alcuni brani di musica elettronica e solo più avanti è arrivato il rap. Prima di selezionare le musiche definitive ci sono voluti dodici montaggi differenti. Cambiando le musiche, mi veniva naturale modificare anche il ritmo e l’alternanza delle immagini ed è per questo che il montaggio, di cui mi sono occupato con il direttore della fotografia Raoul Torresi, è durato ben sette mesi e mezzo. Nella colonna sonora finale sono presenti diversi artisti rap romani che hanno accettato di regalarmi alcuni loro pezzi. Anche Federico Zampaglione mi ha offerto una sua canzone, L’inquietudine di esistere, eseguita dai Tiromancino in collaborazione con Fabri Fibra.

Non deve essere stato semplice trovare i finanziamenti necessari per un film del genere, sebbene si tratti di una produzione a basso costo. Come sei riuscito a realizzare la prima parte della tua trilogia sulla dipendenza?

Pur non avendo una produzione alle spalle disposta a finanziare il progetto, ho deciso ugualmente di provare a imbarcarmi in questa avventura. In pratica, mi sono tuffato di testa senza vedere se c’era l’acqua sotto. Ho investito nel film i pochi soldi che avevo da parte e ho chiesto a chiunque conoscevo dei prestiti, riuscendo a ripagare tutti lavorando per due anni mentre mi dedicavo al film. Poi, a fase di montaggio già avviata da qualche mese, in un momento in cui avevo terminato la disponibilità economica, fortunatamente è arrivato il produttore Gregory J. Rossi della NeroFilm, che mi ha permesso di terminare la post-produzione e con cui in questi mesi sto cercando tra molte difficoltà di organizzare una distribuzione autonoma.

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Abel Ferrara, Pasolini e il dobermann https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/abel-ferrara-pasolini-e-il-dobermann/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/abel-ferrara-pasolini-e-il-dobermann/#respond Thu, 25 Sep 2014 17:37:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=944 Cerchiamo di mantenere la calma. Siamo col fiato sospeso, immobili, sotto al tendone di Café Fabrique, in attesa che si plachi l’uragano. È una tempesta metaforica, s’intende. Perché il sole brilla alto, l’Isola Tiberina è un’oasi rovente e il Tevere fa quel che può per rinfrescare una giornata torrida e afosa. Abel Ferrara ci ha […]

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Cerchiamo di mantenere la calma. Siamo col fiato sospeso, immobili, sotto al tendone di Café Fabrique, in attesa che si plachi l’uragano. È una tempesta metaforica, s’intende.

Perché il sole brilla alto, l’Isola Tiberina è un’oasi rovente e il Tevere fa quel che può per rinfrescare una giornata torrida e afosa.

Abel Ferrara ci ha raggiunto da qualche minuto, ma pare non vederci. È inquieto, nervoso, non si lascia avvicinare. Ringhia un saluto, s’arrabbia, ispeziona il posto, prende alcune decisioni. Poi le cambia. Si siede e schianta via una borsa, spazza le bottiglie dal tavolino, rifiutando ferocemente qualsiasi contatto. Le fotografie non adesso, nemmeno dopo, forse mai: «Non sono un modello del cazzo». L’intervista forse, dipende, chissà. Vola una parola, bitch, lanciata contro qualsiasi persona a caso nel gruppo che lo circonda: noi, l’assistente personale, l’ufficio stampa. Impossibile individuare con chi ce l’abbia.

L’unica cosa da fare è aspettare. Oppure sforzarsi di intuire.

Ferrara pare un mastino. Uno di quelli lasciati a guardia delle ville, implacabile nella sua missione: difendere il territorio, proteggere il padrone. E in questo momento, evidentemente, sta custodendo qualcosa di molto caro: il suo film. Pasolini, in concorso a Venezia, è un progetto per cui ha speso ogni energia. Ha intervistato e conquistato amici e parenti, guardato tutti i film e letto qualsiasi cosa Pier Paolo Pasolini abbia prodotto, fino ad arrivare a un livello di profondità estremo. In questi giorni ne sta finendo il montaggio. Ed è facile immaginare che tutto vorrebbe tranne che essere qui, davanti a noi, per parlarne.

Dunque mi siedo di fronte a lui esattamente come se mi stessi avvicinando a un dobermann. Gli porgo la rivista. La scruta. Spiego: «È per i ragazzi che oggi vogliono fare cinema in Italia». Sfoglia il giornale. «Quindi finisco qua dentro». Silenzio. «Ok».

Mezz’ora dopo l’intervista finirà con un abbraccio e una consapevolezza: Ferrara stava proteggendo davvero qualcosa di prezioso.

Partiamo dal suo film. Pasolini. Perché?

Quello che mi fa muovere, da sempre, è il desiderio di esprimermi. Faccio film per seguire una visione. Pasolini mi interessava come giornalista, poeta, scrittore, artista, rivoluzionario. Era una personalità complessa. Ho cercato di studiarla a fondo e francamente non smetterei mai.

Il film però racconta solo una giornata nella vita di questa personalità. L’ultima.

Su Pasolini si potrebbe fare un milione di film. Io ho scelto di concentrarmi su un solo giorno e me ne fotto di chi vivrà questo film come se fosse un’indagine. È un film e non me ne frega niente di chi ha ammazzato Pasolini e come. Io mi occupo della tragedia, di quello che abbiamo perduto quando è morto.

In Italia il ricordo di Pasolini è ancora molto vivo.

Cazzate. Non è vero. Tutti qui dicono che lo conoscono, la gente si riempie la bocca di sue citazioni. Ma in realtà ho l’impressione che il suo valore sia riconosciuto molto di più fuori dall’Italia.

In ogni caso gli italiani guarderanno il suo film “americano” con sospetto. Se le aspetta le critiche?

Non me ne frega nulla, non mi pongo il problema. Le aspettative che mi interessano, e che non voglio tradire, sono le mie. Per il resto a me basta avere un cinema, con un tetto sulla testa, nel quale mostrare il mio film a un pubblico. Trovo presuntuoso avere qualsiasi genere di aspettativa.

Nel ruolo di Pasolini non ha scelto un attore italiano, ma Willem Dafoe. Perché?

Prima di tutto perché io sono americano e non parlo l’italiano. E poi per me Pasolini non è italiano. Mi spiego: sto facendo un film su un uomo che è essenzialmente un poeta. Anche quando fa le interviste lui è un poeta, non un giornalista. E non puoi fare un film sulla poesia senza trovare una lingua tua, intima e personale, per raccontarla. Pasolini era un tesoro universale, il suo lavoro è globale. Di più: intergalattico. Per rappresentarlo avevo bisogno di avere con me l’attore con cui ho la maggiore affinità. E ho fatto bene: Willem nel film è perfetto.

Come ha scelto le musiche?

La musica sarà eccezionale, credo. Sarà ottima anche perché abbiamo deciso di non suonarla noi, né io né Willem.

Il processo creativo per lei è doloroso?

Tutto diventa faticoso quando hai a che fare con le emozioni. È uno sviluppo doloroso e complesso. Un po’ come andare contro corrente, come cercare di risalire un fiume al contrario. Ostinatamente.

E come si sente ora che sta finendo?

L’ultimo giorno di riprese è in assoluto il giorno più felice. Ma dura pochissimo. Sei esaltato per 24 ore e poi di nuovo devi ricominciare da capo, al montaggio. L’euforia resiste due giorni, poi monti, finisci il film, lo fai vedere al pubblico e ancora per qualche momento sei felice. Poi torni invisibile per i successivi sei mesi.

Finisce il film: a chi lo fa vedere per primo?

Non ho una sola persona di fiducia: ho il mio gruppo. C’è il mio assistente, Jacopo, il montatore, il fotografo, lo sceneggiatore, che ha lavorato sia su Pasolini che su Napoli Napoli Napoli. Ho un gruppo che mi dà il feedback, lo stesso da Go Go Tales in poi. Lavoro sempre con lo stesso team, anche in Italia. È fondamentale avere le persone giuste intorno quando fai un film. E poi, insomma, io non mi faccio mica un cazzo di selfie davanti alla telecamera: io faccio film.

Se è per questo ha fatto anche tv. La rifarebbe?

Che ho fatto, Miami Vice? E ti pare bello? Forse sembrava bello ai ragazzini di nove anni incollati alla tv. Quando giro una cosa non me ne frega niente se è per il cinema o per la tv, il processo è uguale: la telecamera, gli attori, le storie. E per quanto riguarda il tempo, cioè la possibilità di raccontare una storia più lunga e dilatata… Welcome to New York, il mio ultimo film, durava due ore. Troppo lungo. Spero di tenere Pasolini sui 90 minuti.

Da anni vive e lavora in Italia. La sente, la decadenza del paese?

Quale decadenza? Economica? Culturale? Politica? Io amo questo paese e negli ultimi cinque anni l’Italia è diventata la mia casa. Io non avverto la decadenza. Piuttosto sento un certo dinamismo. M’impegno a portare la mia energia in ogni cosa che faccio in questo paese. E poi il film business è un disastro quasi dappertutto, non solo qui. Siamo nel pieno della rivoluzione digitale, sta cambiando tutto: come la gente gira i film, come li vede e come li vende. Ma quando il gioco si fa duro, si dice dalle mie parti, i duri iniziano a giocare.

Sì, ma la crisi c’è. Ed è durissima.

Crisi o non crisi, oggi se vuoi fare un film non hai più scuse. Hai il cellulare, il tuo cazzo di computer, nessuno può fermarti. Se ti dicono “c’è la crisi mondiale” non li devi ascoltare, anzi non la devi usare nemmeno quella parola, “crisi”. La crisi è una parola inventata da Wall Street per fottere le persone. Non saprei nemmeno come tradurla, quella parola, in italiano. Esiste?

Esiste. Provi a immaginarsi adesso, in Italia, a 20 anni: direbbe ancora così?

Certo. Sarei identico a come sono oggi, visto che mi sento un 18enne, forse un 19enne. Farei le stesse cose, cercherei le stesse storie, lavorerei con gli stessi attori, avrei le stesse difficoltà a trovare i finanziamenti. E non ascolterei le cazzate sulla crisi, non sentirei scuse…

Allora le va di dare un consiglio a chi oggi vuole fare cinema in Italia?

Farlo. Perché finché non lo fai, il regista, non hai idea di cosa si tratti. Non lasciarsi scoraggiare, andare avanti, non permettere alla gente di mettere un muro tra ciò che vuoi fare e la tua voglia di farlo. Vai avanti, cazzo: hai una visione, una storia, un sentimento, un bisogno di comunicare? E allora inseguilo. Prendi il telefonino e inseguilo. Vincent van Gogh ha venduto un solo fottuto dipinto in vita sua e non si è scoraggiato. E allora? Ringraziate Dio che avete un telefono e YouTube, che non vivete in un paese sotto dittatura, che siete a Roma, in un paese libero la cui arte è ammirata dalle persone in tutto il mondo. E il cinema è la forma d’arte più preziosa che esista.

foto: Francesca Fago

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Alessandro Tamburini https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alessandro-tamburini/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/alessandro-tamburini/#respond Sat, 20 Sep 2014 17:23:00 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=941 Alessandro Tamburini si racconta a Fabrique, tra i successi del suo cortometraggio e i progetti più ambiziosi: «Le difficoltà si superano solo con l’entusiasmo e la determinazione». Se un regista sceglie l’Eur, il “Colosseo quadrato” e la geometria architettonica di Piazza Marconi a Roma per fare una chiacchierata ci si potrebbe fare un’idea del suo […]

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Alessandro Tamburini si racconta a Fabrique, tra i successi del suo cortometraggio e i progetti più ambiziosi: «Le difficoltà si superano solo con l’entusiasmo e la determinazione».

Se un regista sceglie l’Eur, il “Colosseo quadrato” e la geometria architettonica di Piazza Marconi a Roma per fare una chiacchierata ci si potrebbe fare un’idea del suo cinema anche senza averlo visto. Nel caso di Alessandro Tamburini però si arriverebbe alle conclusioni sbagliate.

Al contrario dello spigoloso quartiere romano il suo cinema è morbido e rotondo, è un viaggio sorridente e malinconico nella provincia, nei suoi ricordi e nelle sue storie attuali, con un occhio di riguardo per gli anziani: elementi che da quando ha avuto in mano un video 8 sono una costante del suo lavoro.

Nato a Faenza nel 1984, Tamburini è un regista e attore che ha cominciato a farsi notare da chi frequenta i festival e il mondo dei cortometraggi con Ci vuole un fisico, storia di un amore causale nato tra due ragazzi non proprio perfetti, con cui ha vinto decine di premi in giro per l’Italia, tra cui il Cortinametraggio e il premio Pasinetti a Venezia, ed è passato da poco sul canale Diva Universal della piattaforma Sky. La passione per il cinema risale, come da copione, all’infanzia: «Ho cominciato ad avere il tarlo delle immagini fin da piccolo, quando mi hanno regalato la prima telecamerina, riprendevo fiori. Poi quando ho scoperto lo zoom è stata la fine…».

Cortese e rilassato come il suo cinema, che dagli inizi semi-amatoriali fatti di campagna, zie e nonne, di ricordi autoriali tra Olmi e Pupi Avati («a cui ho inviato uno dei miei primi film, La fine, e che mi ha dato precisi consigli su cosa fare e come farlo») è arrivato a una forma sempre più matura e compiuta, dalle parti della commedia d’autore, autobiografica e agrodolce, assumendo  quasi i tratti di un Woody Allen romagnolo.

Chiave di volta della sua carriera ovviamente il Centro Sperimentale di Cinematografia: «Lì non solo ho imparato le basi tecniche e artistiche del mio lavoro, ma soprattutto ho capito la fatica del set: prima, lavorando da solo con parenti e amici, avevo l’impressone di giocare e divertirmi. Al Centro ho capito cosa significa la professionalità del set e di tutti coloro che stanno intorno al regista, gestire le loro esigenze, risolvere i problemi».

Non sono però solo vantaggi quelli che vengono dall’incontro con il set e dalla prospettiva di un salto di qualità: «Capisci infatti anche che ci sono dei limiti, degli schemi da seguire, dei modi di realizzazione e produzione che possono ingabbiarti e rendere meno appagante e creativo il tuo lavoro». Per questo con i suoi compagni nel corso di regia del Csc ha cercato di creare un gruppo, di fare una squadra per potersi supportare: l’importante, parola di Tamburini, è non smarrirsi, capire quali progetti e quali idee sono efficaci e quali rischiano di farti perdere il contatto con la realtà e con un mondo della produzione cinematografica che in Italia rischia di essere una trappola ben più rischiosa di quella che dà il titolo al film amatoriale del 2007 con cui il nostro si è presentato al Centro, apprezzato in commissione da nomi come Nicola Giuliano e Paolo Sorrentino.

Dopo aver raccontato la provincia e la campagna, la terza età in varie sfumature, da quelle esistenziali a quelle sessuali nel documentario Mai senza (in concorso al Riff), Tamburini sta cercando ora di affrontare il cinema con un occhio più “urbano”, raccontando la città, le sue notti, i suoi rapporti con i personaggi, proprio come in Ci vuole un fisico, che adesso si appresta a tramutare in un lungometraggio.

E proprio in questo auspicabile approdo a un cinema di più ampia visibilità sta il nodo della questione per molti registi emergenti: si può fare bel cinema in Italia conservando la propria indipendenza? «Certo che si può fare, sono molto fiducioso nei registi della mia età, come Claudio Cupellini o Pasquale Marino. Si può essere indipendenti sapendo che non si deve perdere tempo, che occorre concentrarsi su ciò che è meglio per il film e affrontare le difficoltà. Per esempio, io vorrei sempre con me Anna Ferraioli Ravel, la mia attrice e musa, bravissima e molto comunicativa; vorrei fosse lei la protagonista del mio primo lungo, ma siccome non è una bellezza classica e non è ancora famosa, in molti storcono il naso. Se si superano impasse come queste, allora si può realizzare ciò che si vuole e si può cambiare il cinema italiano».

Anche se poi il cinema internazionale è sempre un richiamo irresistibile: «Lavorare con un attore internazionale sarebbe bellissimo, ma qui in Italia, anzi in Romagna. Ho capito che mi sono allontanato dalla mia terra solo momentaneamente, per ritornarci a un certo punto della carriera, come fanno tutti gli “espatriati”».

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Aldo Iuliano: lʼimmagine sulla carta e lʼimmagine in movimento https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/aldo-iuliano/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/aldo-iuliano/#respond Mon, 09 Jun 2014 17:58:46 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=957 Aldo Iuliano è entrato da autodidatta nel mondo del fumetto e del cinema. Ora si appresta a fare il grande salto con il primo lungometraggio, con lʼaiuto di una giovane produttrice e dellʼinseparabile fratello sceneggiatore. Cominciamo con il tuo primo film… È un passo avanti dopo una quindicina di cortometraggi, dopo cioè molta esperienza che […]

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Aldo Iuliano è entrato da autodidatta nel mondo del fumetto e del cinema. Ora si appresta a fare il grande salto con il primo lungometraggio, con lʼaiuto di una giovane produttrice e dellʼinseparabile fratello sceneggiatore.

Cominciamo con il tuo primo film…

È un passo avanti dopo una quindicina di cortometraggi, dopo cioè molta esperienza che mi ha aiutato a capire cosʼè il cinema e come si fa. Non ho la pretesa di dire che sono un regista, credo che prima occorra aver fatto almeno due o tre film. Quindi dico solo che ho fatto tante cose, perché ne avevo voglia e perché per me è una necessità. Lʼidea del film è nata su una panchina: io e Andrette Lo Conte –  la co-fondatrice della mia casa di produzione Freak Factory, nonché bravissima attrice con cui ho sempre lavorato – eravamo seduti di fronte al cinema Adriano. Lei mi ha accennato a uno spunto che aveva in mente, io ho aggiunto unʼimmagine visiva e da lì abbiamo cominciato a costruire tutto. Poi la palla è passata a mio fratello Severino, sceneggiatore professionista: lui ha individuato la chiave della storia, e ci siamo resi conto che avevamo qualcosa che poteva funzionare.

Con i corti mi è piaciuto sperimentare tutti i generi. Non sono dʼaccordo con chi pensa che un regista deve specializzarsi in un genere: poi lo si etichetta sotto quella categoria, una prassi che fa comodo soprattutto allʼindustria. Invece penso che un regista debba essere in grado di usare il genere che meglio si adatta alla sua storia. Nel caso del mio film, che si intitolerà In utero, siamo partiti da un genere drammatico e siamo arrivati a strutturare un thriller con venature quasi horror.

Dei corti che hai realizzato quello che ha avuto più successo e girato di più tra i festival è stato Fulgenzio. Comʼè nato?

Anche in quel caso lʼidea era di fare uno step in più, stavolta di produzione. Eravamo in Spagna sempre io, Severino e Andrette, cercavamo la scintilla per un cortometraggio. Tra le varie proposte mi è piaciuta quella di Fulgenzio perché mi dava la possibilità di affrontare la commedia, genere in Italia ormai abusato, e la sfida era proprio tirar fuori qualcosa di non visto e non sperimentato. Fulgenzio nasce da unʼidea semplice: una sposa allʼaltare decide di non sposarsi più perché il marito ha un secondo nome ridicolo. È una sorta di variazione sul tema dellʼapparenza. Lʼimpianto visivo è western, perché in fondo si tratta una grande sfida tra le parti: marito, moglie, prete, genitori… Il tutto con venature dark. Anche con la colonna sonora abbiamo fatto un bel lavoro, perché lʼabbiamo registrata in una chiesa dellʼOttocento con un organo antico, ed è quindi assolutamente diegetica, in linea con la storia.

Fulgenzio è stato il primo lavoro in cui ci siamo messi a tavolino e abbiamo detto “ok, non giochiamo più, ragioniamo anche di produzione”. Ed è andata molto bene, lʼabbiamo portato in giro per i festival, tra cui quello di Clermont-Ferrand: ma la cosa più interessante è che è stato comprato per il mercato giapponese. Un bel traguardo: in Italia per distribuire un cortometraggio si spendono soldi, invece è bastato portare Fulgenzio allʼestero perché venisse acquistato.

In che modo il tuo background di fumettista dialoga con il cinema? E come mai hai deciso di dedicarti alla regia?

Il fumetto è una grandissima educazione allʼimmagine: quando padroneggi la figura nello spazio, la prospettiva, riesci a inseguire le visioni che hai quando leggi una sceneggiatura. È una questione di controllo, è tenere in un certo senso lʼimmagine con le briglie. Quando disegni sei un poʼ direttore della fotografia, poʼ attore, poʼ regista. Insomma, ti rendi conto di parecchie cose… però sei da solo. Naturalmente ti confronti anche con altri colleghi, con i libri ecc., ma il cinema è stata lʼevoluzione naturale. Cerchi altri strumenti: il suono, lʼimmagine in movimento. Comunque il fumetto non deve invadere il cinema: il cinema è un linguaggio, bisogna conoscerlo per trovare il giusto equilibrio.

Perché un giovane regista come te ha sentito lʼesigenza di fondare una casa di produzione? E come ti rapporti con il mondo produttivo italiano?

Non troppo bene, a dire il vero. Forse il motivo per cui non ho ancora fatto il mio primo film è perché non mi ci sono confrontato come si deve, sono un poʼ polemico in questo. Quindi ho pensato che il primo sforzo avrei dovuto farlo io per cercare di farmi conoscere, senza dover troppo mediare in anticipo. Porto avanti quello che vorrei fare e poi vedo se qualche produttore si può interessare. La casa di produzione è nata perché per In utero abbiamo fatto domanda al Ministero per lo sviluppo sceneggiature, e abbiamo vinto. Questo ci ha permesso di credere ancora di più nellʼidea. Io non sono portato per fare il produttore, quindi lascio tutto in mano ad Andrette: serve avere talento anche in quello. Servono dei produttori giovani che abbiano un approccio coraggioso, e io in lei lʼho trovato.

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