Gianfranco Rosi Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Tue, 28 Jun 2022 07:04:22 +0000 it-IT hourly 1 Nel mio nome: il doc sulla transizione nato a Bologna e prodotto da Elliott Page https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/nel-mio-nome-il-doc-sulla-transizione-nato-a-bologna-e-prodotto-da-elliott-page/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/nel-mio-nome-il-doc-sulla-transizione-nato-a-bologna-e-prodotto-da-elliott-page/#respond Sun, 12 Jun 2022 15:33:37 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17279 «Sulla transizione manca una narrazione, ma credo che stia arrivando uno tsunami linguistico, culturale, legale» avverte Nicolò Bassetti. Un preavviso dello tsunami è il suo nuovo lavoro, Nel mio nome, documentario che racconta il delicato percorso intrapreso da quattro amici che, in quel di Bologna, hanno scelto di abbandonare il genere femminile per quello maschile. […]

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«Sulla transizione manca una narrazione, ma credo che stia arrivando uno tsunami linguistico, culturale, legale» avverte Nicolò Bassetti. Un preavviso dello tsunami è il suo nuovo lavoro, Nel mio nome, documentario che racconta il delicato percorso intrapreso da quattro amici che, in quel di Bologna, hanno scelto di abbandonare il genere femminile per quello maschile.

L’idea per il film, presentato alla Berlinale e in un’uscita-evento dal 13 al 15 giugno nelle sale italiane con I Wonder Pictures, è nata grazie al figlio di Bassetti che, una notte, gli ha scritto annunciandogli di aver deciso di intraprendere il percorso per il cambio di sesso. «Mi ha scritto parole coraggiose per rassicurarmi, mi chiedeva di non avere paura, di credere in lui, di seguirlo. Usava maschile e femminile, il suo linguaggio dava segnali molto importanti». Dopo lo spaesamento iniziale Bassetti, qui al secondo documentario, ma con alle spalle una carriera come paesaggista-urbanista che lo ha portato a concepire Sacro Gra di Gianfranco Rosi, ha deciso di far tesoro dell’esperienza familiare traendone un film. I paletti non sono stati pochi, in primis la regola ferrea di non far apparire il figlio nella pellicola, anche se il suo contributo è stato fondamentale nel guidare il regista alla scoperta della piccola ma vivace comunità transgender di Bologna

In un incastro di attimi di verità, Nel mio nome racconta il quotidiano di Nico, Leo, Andrea e Raff mentre affrontano il percorso che li porterà alla transizione, con tutti i problemi emotivi, legali, sociali che la scelta comporta. Il film immerge fin da subito lo spettatore nella vita dei quattro giovani senza fornire spiegazioni. La storia si dipana pian piano, scena dopo scena, alla ricerca dell’immediatezza. Come chiarisce Nicolò Bassetti, «la scrittura del film è stata fatta tutta al montaggio, la struttura invece l’ho decisa a priori insieme a mio figlio dandoci dei principi. Volevamo stare alla larga dagli stereotipi perché è facile caderci dentro inconsapevolmente. Mio figlio è stato il mio mentore, mi ha aiutato e mi ha messo in guardia. Mi ha permesso di cercare la bellezza al di là della divisione del mondo per generi, raccontando anche la sofferenza, ma mettendola sullo sfondo. In primo piano volevo porre la dignità, la forza della vita e la felicità dei protagonisti nel riuscire a uscire da ruoli predeterminati e non scelti per trovare il loro io». 

Un lavoro lungo, complesso e delicato che ha richiesto in totale tre anni. «I primi mesi sono stati di ricerca, poi ci sono due anni di riprese e sei mesi di post-produzione di cui quattro di scrittura al montaggio. Ho girato pochissimo, 60 ore in due anni, è stata una sfida enorme. Accendevo la telecamera solo quando era estremamente necessario, quando sapevo che avevo trovato il momento. Nel mio nome è un documentario al 100%, contiene solo la vita reale».

 La regia di Nel mio nome denuncia una sobrietà dello sguardo che appartiene a Bassetti e diventa cifra stilistica del film: «Cerco sempre di lavorare a macchina fissa, su cavalletto, e di scegliere l’inquadratura al cui interno accadono più cose. L’idea è sempre quella di generare quadri. La scelta dell’inquadratura richiedeva anche settimane, osservavo i personaggi per giorni e giorni, stavo con loro, ne seguivo i movimenti, scattavo foto col cellulare e poi le studiavo. Tutto alla ricerca della bellezza». 

Nel mio nome filmIl messaggio lanciato da Nicolò Bassetti è chiaro: «Ormai il mondo binario è obsoleto, non regge, non accetta la ricchezza che è strabordante e decolonizza i corpi. Oggi i ragazzi sono più liberi di scegliere chi sono a prescindere dal ruolo che viene imposto loro alla nascita. Non è più necessario performare mascolinità e femminilità, la cui crisi ha portato ad eccessi. Da un lato la mascolinità volgare, insopportabile, prossima alla violenza che sfocia nei femminicidi, dall’altro le femministe radicalizzate su posizioni insostenibili, come J.K. Rowling, le quali sostengono che la femminilità sia un fatto biologico e non culturale. Trovo che questa sia una colossale stupidaggine».

Se proprio la Rowling, citata da Bassetti, si è inimicata mezzo mondo con le sue posizioni transfobiche, il regista ha trovato sponda per il suo lavoro in un’altra celebrità che ha reso pubblica la sua transizione poco tempo fa. Si tratta dell’attore Elliot Page che, dopo aver visto Nel mio nome, si è proposto come produttore esecutivo del documentario. Un incontro fortuito e anche un po’ magico. «Tutto merito della mia produttrice Gaia Morrione» confessa Bassetti «che è stata tenacissima e ha provato in tutti i modi a contattare lo staff di Page fino a quando non ha trovato un aggancio. La persona in questione, anche lui trans, ha visto il film, gli è piaciuto, e lo ha fatto vedere a Elliot. Dopo la visione lui mi ha mandato una mail che mi ha lasciato senza parole. Mi ha scritto “ho visto Nel mio nome, l’ho amato molto e mi sono identificato nei personaggi. Cosa posso fare io per questo film?”. Gli abbiamo risposto “scegli tu, qualunque cosa” e così si è proposto come produttore esecutivo senza volere niente in cambio».

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Fabrique con il cinema italiano a sostegno del Baobab https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/fabrique-con-il-cinema-italiano-a-sostegno-del-baobab/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/fabrique-con-il-cinema-italiano-a-sostegno-del-baobab/#respond Thu, 21 Jul 2016 12:58:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3420 Il 19 luglio 2016 moltissimi autori e protagonisti del cinema italiano si sono mobilitati a sostegno del Baobab, associazione che si occupa dei migranti transitanti a Roma. Moltissimi sono stati i sostenitori di questa iniziativa, fra cui: Gianni Amelio, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Gianfranco Rosi, Daniele Vicari, Andrea Segre, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Valeria Golino, […]

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Il 19 luglio 2016 moltissimi autori e protagonisti del cinema italiano si sono mobilitati a sostegno del Baobab, associazione che si occupa dei migranti transitanti a Roma.

Moltissimi sono stati i sostenitori di questa iniziativa, fra cui: Gianni Amelio, Bernardo Bertolucci, Marco Bellocchio, Gianfranco Rosi, Daniele Vicari, Andrea Segre, Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Valeria Golino, Luca Zingaretti, Claudio Santamaria, Mario Martone, Maya Sansa, Sabina Guzzanti.

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“Fuocoammare”, la scelta di Rosi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/fuocoammare-la-scelta-di-rosi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/fuocoammare-la-scelta-di-rosi/#respond Wed, 24 Feb 2016 10:12:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2760 Incontro con Gianfranco Rosi, trionfatore a Berlino con il suo documentario Fuocoammare, dedicato alla tragedia dei migranti nelle acque di Lampedusa. Non c’è solo una storia in questo film, ce ne sono varie… Si tratta di tre storie parallele: c’è la storia di un salvataggio in mezzo al mare, quella dell’isola con i personaggi, fra […]

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Incontro con Gianfranco Rosi, trionfatore a Berlino con il suo documentario Fuocoammare, dedicato alla tragedia dei migranti nelle acque di Lampedusa.

Non c’è solo una storia in questo film, ce ne sono varie…

Si tratta di tre storie parallele: c’è la storia di un salvataggio in mezzo al mare, quella dell’isola con i personaggi, fra cui Samuele, che sono poi diventati protagonisti del film e c’è la storia del centro. Sono come tre dimensioni separate che lo sono anche nella realtà.

C’era già qualcosa di scritto, di preparato nella sceneggiatura?

È tutto molto vero. Io dico sempre che è un film che si è come autofecondato, si è fatto da solo. La scrittura era attraverso la cinepresa, attraverso le improvvisazioni. Ho sempre voluto usare una dimensione cinematografica anche di racconto, però tutto quello che avveniva davanti alla macchina era assolutamente spontaneo e reale. Come la difficoltà che un bambino (Samuele) ha nel confrontarsi con la crescita, con l’adolescenza, con il mare, con il confine. Lui soffre persino il mare (come me del resto…). Poi, piano piano, accadevano dei fatti che sono diventati delle piccole metafore per il film: l’occhio pigro, l’ansia, l’invenzione del nemico con i fichi d’india. Samuele è diventato così anche uno stato d’animo del film.

Quanto è stato difficile scegliere di riprendere la morte di così tante persone?

Estremamente difficile: è stato un punto di arrivo del film. Quando sono arrivato sull’isola c’era l’assenza della tragedia, ma se ne udiva ancora l’eco, perché era appena accaduto il dramma del 3 ottobre in cui erano annegate più di 300 persone. Poi, quando ho iniziato il viaggio sulla nave della Marina Militare Italiana Cigala Fulgosi, mi sono confrontato anche io con la morte. Lì la morte mi è arrivata addosso, non potevo girare lo sguardo da un’altra parte. Mi sono dovuto confrontare con una scelta immediata, filmo o non filmo, e la stessa cosa nel montaggio: cosa posso far vedere di tutto questo? È stata una scelta dura, ma penso inevitabile.

Fuocoammare_05_registaQuale il momento più forte che si è trovato a documentare?

Siamo usciti con l’idrobarca per avvicinarsi un barcone, e sembrava una delle tante operazioni di intercettazione che avevo già filmato: ma quando siamo arrivati ho visto dei corpi agonizzanti davanti a me, ho sentito il loro respiro affannoso, e decidere di filmare è stato molto difficile. È stata la realtà più forte che abbia documentato, quella che ti lascia un segno. Dopo quel momento ho deciso che il film doveva chiudersi e che dovevo iniziare a montare con quello che avevo, più o meno 80 ore di girato, non avevo più la forza di continuare a filmare.

Quanto tempo ha trascorso sulla nave della Marina?

Ho fatto due viaggi. Il primo, di 2-3 settimane, è servito a conoscere il comandante, l’equipaggio, la vita di bordo, ma senza incontri con i profughi sul mare: è stato una specie di test, credo, per vedere come mi sarei comportato su una nave con una cinepresa. Ma senza questa introduzione non sarei stato in grado di girare e fare scelte così ardue: da allora ho sentito davvero l’adesione di tutto l’equipaggio.

Ritiene che Fuocoammare si possa considerare un film politico?

Io penso che il film sia politico a prescindere: non ci sono dei messaggi politici, c’è semplicemente la testimonianza di una tragedia che spero porti consapevolezza. Però il dibattito in Europa è talmente forte, il tema pulsante – me ne sono reso conto a Berlino – che il film non può prescindere da un’interpretazione politica, anche se non era la mia intenzione iniziale.

Sicuramente testimonia un messaggio umano e civile: come dice il medico, un uomo che voglia definirsi tale non può rimanere indifferente alla tragedia di queste persone.

Spero che il film porti proprio a questo, a una consapevolezza da parte della politica a livello europeo a trovare delle soluzioni che certamente non possono consistere nell’innalzare barriere o fili spinati. Anche se la cosa che mi fa più paura è la chiusura nella mente delle persone.

Nei suoi film di solito non usa musica: qui invece ci sono molte canzoni della tradizione siciliana e poi una canzone poco conosciuta che dà il titolo al film, Fuocoammare.

Non sono mai riuscito a usare la musica nei miei film perché sarebbe come sottolineare,mettere una voce fuori campo. Invece qui la musica veniva da una storia vera, la storia di Pippo, un dj che mette le canzoni su richiesta alla radio di Lampedusa, protagonista involontario del documentario, ed è perciò diventata un’esigenza narrativa all’interno del film.

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