Gabriele Mainetti Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:16:26 +0000 it-IT hourly 1 Enrico Borello, ogni volta una pelle nuova https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/enrico-borello-ogni-volta-una-pelle-nuova/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/enrico-borello-ogni-volta-una-pelle-nuova/#respond Tue, 02 Jul 2024 07:21:40 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19175 Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista.  Mi saluta citando Toro scatenato di Scorsese, una scena in particolare che maneggia come una […]

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Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista.

 Mi saluta citando Toro scatenato di Scorsese, una scena in particolare che maneggia come una bussola: «Robert De Niro rivela l’essenza del suo personaggio ma è completamente al buio. È in prigione, prende a pugni il muro, ripete “Io non sono cattivo”, ma non si vede mai in faccia». Per lui c’entra qualcosa con la forza di un attore che lavora in ombra, senza cercare a ogni costo la luce (in scena, nei ruoli, nella fama). Enrico Borello – una laurea in riabilitazione psichiatrica – ha iniziato a recitare tardi e di nascosto dagli amici di sempre, che avrebbero pensato «o sei un coglione o sei Billy Elliot». Alcuni lo ricordano in Lovely Boy di Francesco Lettieri, altri lo hanno scoperto in Supersex accanto ad Alessandro Borghi, e chi non lo ha visto arrivare se ne accorgerà presto, con il nuovo film di Gabriele Mainetti, stavolta da protagonista. Ha odiato il sistema, sta imparando a gestirlo e la vive come una partita a poker: «Io non bluffo mai, il punto lo dichiaro sempre. Poi la verità si vede in scena, quando siamo tutti sulla stessa barca e parliamo la stessa lingua».

Partiamo dalla fine: Gabriele Mainetti, una storia di kung fu ambientata a Roma, nel cast Ferilli, Zingaretti e Giallini, ma il vero protagonista sarai tu.

Sarò io insieme all’attrice Liu Yaxi. Di kung fu non ne capisco nulla, un film d’azione solo con me sarebbe stato troppo goffo. Per me la romanità è un fattore centrale, e me la sono giocata nella misura in cui Gabriele mi ha inserito nel contesto in cui sono cresciuto. Sono di Santa Croce in Gerusalemme e il film è ambientato a Piazza Vittorio, l’Esquilino è casa mia.

E se ogni attore porta in scena anche un po’ della sua storia, tu cosa ti porti dietro?

Elio Germano ha detto in un’intervista che la cosa migliore che può succedere a un attore è smettere di provare ad essere qualcun altro e imparare ad essere se stesso nel modo più potente possibile. Al momento mi accorgo che c’è una grande voglia di esprimermi e camuffarmi, senza nascondermi, ma cercando di trovare ogni volta una pelle nuova.

È il motivo per cui hai iniziato a fare l’attore?

Un po’ sì. Volevo vivere una vita che nella realtà mi costerebbe delle scelte da cui non si torna indietro. Volevo fare il maggior numero di esperienze possibili, però a rischio zero.

Quindi fino a che punto spingersi?

A volte mi è successo di rischiarmela. Psicologicamente ti puoi frammentare, nel nostro mestiere questo esiste e mi attrae. Per Lovely Boy sono stato quel personaggio dalla mattina alla sera, scrivevo canzoni, le registravo, per me il gioco era su tre livelli: non essere Enrico che interpretava il personaggio del film, ma essere un trapper che faceva un film sulla trap. Poi è stato problematico, ho capito che ci sono degli orari per fare certe cose, che la sera devi recuperare il tuo ritmo. Non sono Heath Ledger che sta facendo Joker, ma è vero che ti vesti dei panni di qualcun altro e certi vestiti te li porti dietro tutta la vita.

Questa è scuola Volonté o scuola Borello?

Macché Volonté! [ride] Queste sono esperienze collezionate. Per me non c’è scuola, maestro o persona che possa insegnarti a recitare. Quando sono entrato alla Volonté mi sono spaccato in quattro e alla fine ho capito che l’unica vera esperienza che si fa in un’accademia di recitazione è quella di misurarsi con l’altro: la lezione più importante, il banco di prova più utile. Ma se si tratta di stare in scena, io provo sempre a ricordarmi: cosa facevi quella volta che volevi essere il più bullo del quartiere? O quando pensavi che saresti diventato un medico psichiatra? Come ti comportavi, come hai cambiato pelle per stare all’interno di un ambiente?

Sei laureato in riabilitazione psichiatrica. Appartiene a un altro Enrico, oppure?

La pelle te la porti sempre dietro. Non credo a quello che dicono i Jedi, che devi disimparare ciò che hai imparato. Quando ho lavorato con le realtà più fragili dell’essere umano ho imparato a conoscere l’altro, anche negli aspetti che definiamo folli. L’esperienza di una psicosi è inafferrabile e incomprensibile, puoi simularla con delle sostanze stupefacenti ma non saprai mai che cazzo è.

Ti piace o ti spaventa l’idea di interpretare una psicosi che eri pronto a curare?

A un ruolo del genere mi affezionerei tanto, ma mi spaventa tutto. Io amo i ruoli morbidi, se potessi starei solo comodo. Quando interpreto personaggi violenti campo male, non sto bene, perché la violenza lavora dentro di te. Fare uno psicotico significherebbe fare i conti con un mare di violenza percepita.

Quando ti sei iscritto al primo corso di teatro lo hai nascosto a tutti: perché ti imbarazzava?

A ventidue anni era difficile raccontarlo agli amici. Sono sempre stato immerso nella Roma di tutti i giorni, che non è borgata ma è anche quella di chi lavora nelle officine o nei ristoranti, la cocaina la sera, le birre, e se dici che vuoi fare l’attore o sei un coglione oppure sei Billy Elliot. Quando ho iniziato a lavorare sul corpo e muovermi in modo strano, pensavo: “Mo’ sbuca l’amico mio Paoletto dalla finestra, me guarda e me fa: Enriche’, ma che cazzo stai a fa’?”

Hai raccontato che su Supersex Borghi ha sbloccato qualcosa dentro di te.

Ho sempre visto Borghi come una figura lontana, mitologica. Poi Alessandro mi ha sbloccato un processo umano: da lui mi sono sentito accolto, e sentirsi accolti in quelle situazioni non è una cosa da poco. Saper mettere l’altro a proprio agio richiede una grande forza, e questo mi ha fatto capire che davanti non avevo solo un grande attore che faceva parte del sistema.

Verso il sistema sei diffidente?

L’ho giudicato per tantissimo tempo. Poi Alessandro ha  rimosso una reticenza verso una realtà che per me era solo tossica. Quando “slivelli” ti accorgi che contano gli esseri umani e incontrarne uno del genere, nonostante il potere che il sistema gli riconosce, non è scontato. Mi capita di incontrarne altri e pensare: “Meno male che te vedo oggi e poi non te vedo più”.

Invece Gabriele Mainetti ti ha fatto capire cosa significa trasformare delle sensazioni in azioni. Vale a dire?

Che il mestiere dell’attore non è necessariamente sentire l’esperienza, ma a volte agirla, quando ti capita di non sentirla. Poter raggiungere la sensazione attraverso l’azione. Con Gabriele i take erano tanti, le scene difficili, le giornate lunghe. Lì se ti affidi solo alla sensazione, il corpo ti saluta. Deve subentrare l’aspetto atletico dell’attore.

L’attore che non è solo atleta delle emozioni.

Esatto. Con Gabriele ho trovato chiavi che aprono nuovi elementi del mio corpo. Ecco perché dico che la recitazione non te la può insegnare nessuno: arriva un momento in cui devi sopravvivere a quella scena. Ed è nell’urgenza che impari sempre qualcosa, il tuo corpo ti regala delle verità su se stesso e allora dici: “Questo farà parte del mio repertorio. Oggi ho capito che non so soltanto camminare, posso anche correre”.

Te lo sei meritato questo ruolo?

Me lo so’ faticato. Ho lottato, tanto. Per me è come una partita a poker, e io il punto ce l’ho. Non bluffo, non prometto cose che non ho in mano, il punto lo dichiaro sempre. Poi vediamo chi viene a vedere.

Credi che nella tua carriera stia per succedere qualcosa di grosso?

Io voglio crescere. Non faccio questo mestiere per la fama, anche perché, una volta ottenuta, che farei? A me piace il gioco, fare le foto per questa nostra cover, esprimermi. E quando la rivedrò tra qualche anno penserò: “Quante cazzate ho detto”.

Fotografa @robertakrasnig assistente @_davide.valente_

Stylist @flavialiberatori_ assistente @carlottagallina_

Hair @adriare

Makeup @idlmakeup

Abiti: @paulsmithdesign, calvinklein, @fendi @seafarer_since1900

 

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Aurora Giovinazzo: “Voglio essere unica” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/aurora-giovinazzo-voglio-essere-unica/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/cover/aurora-giovinazzo-voglio-essere-unica/#respond Wed, 05 Jul 2023 07:38:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18545 La carriera di Aurora Giovinazzo, che a 21 anni vanta già una decina di lungometraggi e altrettante apparizioni in serie tv e fiction, è frutto di una volontà di ferro e di un ostinato perfezionismo che la spinge ad affrontare ogni ruolo come una sfida fisica, oltre che psicologica. Dopo la ginnasta di Freaks Out […]

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La carriera di Aurora Giovinazzo, che a 21 anni vanta già una decina di lungometraggi e altrettante apparizioni in serie tv e fiction, è frutto di una volontà di ferro e di un ostinato perfezionismo che la spinge ad affrontare ogni ruolo come una sfida fisica, oltre che psicologica. Dopo la ginnasta di Freaks Out e la nuotatrice di L’uomo sulla strada, in The Cage di Massimiliano Zanin, attualmente in post-produzione, la vedremo addirittura nei panni di una lottatrice di MMA allenata da Valeria Solarino. «Il mio metodo di lavoro non è così speciale» si schernisce lei. «La mente va di pari passo col fisico. Qui in Italia non abbiamo i mezzi del cinema americano e non possiamo fare il lavoro che fanno attori come Robert De Niro in Toro scatenato, che si allenano per un anno. Lui è diventato un vero pugile, ha combattuto sul ring. Io faccio quello che posso con quello che ho. Per The Cage ho avuto a disposizione poche settimane che ho cercato di sfruttare allenandomi sei ore al giorno. Per essere credibile devo sentire il dolore, i muscoli sofferenti, così ho chiesto alla produzione la possibilità di allenarmi il triplo. L’impegno è la base di tutto».

E a giudicare dalla risposta di pubblico e critica, tanto impegno ha dato i suoi frutti. D’altronde anni e anni di danza (Aurora Giovinazzo è campionessa europea e mondiale di bachata e si allena sei giorni su sette per svariate ore al giorno) l’hanno abituata a dare il massimo. Ed è ciò che ha fatto anche al provino per Freaks Out, raccontato dal regista Gabriele Mainetti con un colorito post su Facebook in cui mette in luce lo spirito battagliero che l’ha spinto a scegliere la giovanissima Aurora tra una marea di candidate. «Le selezioni sono state talmente lunghe e faticose che non vedevo l’ora di non essere presa» ricorda lei ridendo. «Non avevo capito niente del personaggio, ho sostenuto quattro provini diversi e ogni volta sono durati ore. Sono un’atleta, tengo botta, ma l’ansia mi divorava». Alla fine l’ha spuntata proprio lei e Mainetti le ha affidato il ruolo di Matilde, fiera e combattiva circense dotata di poteri paranormali che lotta per proteggere i propri compagni, freak come lei, in una Roma immaginaria invasa dai nazisti in piena Seconda Guerra Mondiale.

Il film, che ha avuto una lavorazione lunga e difficoltosa per via della massiccia quantità di effetti speciali, presentava un surplus di difficoltà visto che il metodo di lavoro richiesto è inedito per i set italiani, come ammette la stessa Aurora: «È stata estasi pura. Essere sollevata da cavi e lavorare in sospensione, col green screen, i ventilatori puntati contro, a simulare la scena in cui vengo sparata dal cannone è stato fantastico. Ma questo tipo di riprese ha richiesto un grande sforzo di immaginazione. Nella scena in cui accarezzo la tigre, in realtà avevo davanti a me un pupazzo verde senza occhi e dovevo immaginare di avere a che fare con un felino di 350 chili. E chi ha mai accarezzato una tigre? All’epoca non l’avevo mai fatto, Gabriele Mainetti mi ha aiutato tantissimo a comprendere la situazione. Ma dopo aver girato The Cage, dove il mio personaggio lavora in uno zoo, posso dire di aver toccato una tigre e perfino un leone».

Mentre The Cage la vedrà impegnata a combattere sul ring, il pubblico avrà presto l’occasione di vedere Aurora Giovinazzo alle prese con un ruolo diametralmente opposto in Nuovo Olimpo di Ferzan Ozpetek, storia d’amore impossibile tra due giovani che si snoda lungo un arco di trent’anni. «Ferzan è un uomo dolcissimo, pieno di calore, è molto protettivo» lo descrive lei. «Ti trascina dentro il suo mondo per ottenere ciò che vuole, il suo set era molto emotivo e coinvolgente». Nonostante la giovane età, Aurora Giovinazzo ha le idee chiare e adotta una buona dose di prudenza quando snocciola i suoi progetti futuri perché non vuole precludersi niente. «Non ho un regista preferito con cui vorrei lavorare, prendo quello che viene» ci spiega. «L’importante è che siano progetti stimolanti, che mi aiutino a crescere. Voglio interpretare ruoli diversi, che mi diano soddisfazione». L’attrice nega anche di avere modelli di riferimento precisi. «Tanti idoli sì, ma nella recitazione, come nel ballo, cerco di non ispirarmi a nessuno. Non voglio copiare, anche se a livello inconscio so di aver assorbito alcune caratteristiche degli artisti che stimo e sul set a tratti riemergono. Ma voglio costruire la mia strada in maniera originale. Voglio essere unica». La serietà con cui Aurora Giovinazzo affronta il mestiere della recitazione, di cui nega di sentirsi esperta anche se ammette di calcare i set fin da quando era piccola (accompagnata dalla madre nel tentativo di incanalare tutta la sua energia drammatica), si ripercuote anche nei suoi gusti di spettatrice.

A differenza dei suoi coetanei tutti presi da laptop e telefonini, Aurora Giovinazzo ribadisce la fedeltà al grande schermo «che ti permette di assaporare ogni dettaglio. Oddio, è vero che oggi a casa abbiamo tutti schermi super fighi, ma la sala cinematografica è un’altra cosa. Anche i registi che lavorano per il cinema hanno un approccio più personale, è come se dentro di loro ardesse un fuoco diverso». Parlando di streaming, l’attrice rivela di essersi imposta di non guardare più serie tv per un motivo piuttosto originale: «Non riesco a smettere. Quando inizio una serie, devo andare avanti tutta la notte finché non l’ho finita e poi la mattina non riesco ad alzarmi. Ho visto dieci ore de Il padrino tutte di seguito». Parlando del suo film preferito, l’interprete di Freaks Out si infervora: «Il gladiatore, l’avrò visto 100 volte.  A vedermi così non si direbbe, sono minuta, alta un metro e cinquanta, ma sono una fan sfegata di film di guerra, thriller, horror. La commedia, invece, non la sento tanto nelle mie corde. Anche come attrice, mi sento più portata per il dramma».

Pur avendo già dimostrato ampiamente il suo talento, la carriera di Aurora Giovinazzo è ancora agli inizi. Con la sua disciplina e la sua forza di volontà, l’attrice romana si pone obiettivi sempre più ambiziosi e mentre si apre alle offerte in arrivo dagli autori italiani (e chissà, magari presto anche internazionali), ammette di avere una sola grande paura: «Non riuscire a essere credibile. Quando mi trovo di fronte a un personaggio di cui non riesco a capire l’intenzione, mi fermo, mi riguardo e cerco di capire bene l’errore commesso per non ripeterlo. Sono molto esigente e cerco di dare il massimo. Volere è potere». L’energia che incanala nella recitazione e nella danza (dove sta anche conseguendo i brevetti per insegnare) è tale da non farle venire voglia, almeno per adesso, di ipotizzare un futuro dietro la macchina da presa: «Col tempo potrei cambiare idea, ma oggi mi sento un’attrice e voglio far bene il mio mestiere. Un domani chi lo sa?».

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Fotografa Roberta Krasnig
Assistenti Marcello Mastroianni e Davide Polese 
Stylist Flavia Liberatori Assistente Vittoria Pallini 
Hairstylist Adriano Cocciarelli e Giulia Mirabelli per Harumi
Makeup Ilaria Di Lauro

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Denti da squalo, l’opera prima prodotta da Gabriele Mainetti https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/denti-da-squalo-lopera-prima-prodotta-da-gabriele-mainetti/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/denti-da-squalo-lopera-prima-prodotta-da-gabriele-mainetti/#respond Mon, 05 Jun 2023 15:06:21 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18493 Con la sua Goon Films ha già co-prodotto i suoi primi due lungometraggi da regista Gabriele Mainetti, ma con Denti da squalo inizia l’avventura da produttore puro lasciando la macchina da presa a Davide Gentile. La sua opera prima viene da soggetto e sceneggiatura di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, premiati con il Solinas nel […]

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Con la sua Goon Films ha già co-prodotto i suoi primi due lungometraggi da regista Gabriele Mainetti, ma con Denti da squalo inizia l’avventura da produttore puro lasciando la macchina da presa a Davide Gentile. La sua opera prima viene da soggetto e sceneggiatura di Valerio Cilio e Gianluca Leoncini, premiati con il Solinas nel 2015. Walter è un tredicenne minuto ma coriaceo. Ha perso il papà, vive con una madre apprensiva e la sua estate ciondoloni sul litorale vicino Roma si trasformerà in un’avventura indimenticabile quando s’imbatterà in una grande villa abbandonata dove nella piscina vive uno squalo.

Walter ha il volto di Tiziano Menichelli, attore esordiente che a partire dallo sguardo regala al suo personaggio una solida consapevolezza del mondo che lo circonda, più di quanto la sua età dovrebbe fargli dimostrare. Al suo fianco Stefano Rosci nella parte dell’amico scappato di casa, un po’ bullo e un po’ bambacione. L’estate è da sempre considerata un momento di crescita, piccole e grandi prove fino allo scontro con il mondo dei grandi. Fin qui tutto può essere ascritto al classico coming of age, però Mainetti è riuscito a mettere insieme un nuovo discreto esordio registico con gli echi inevitabili di film come Lo Squalo e Free Willy. Addirittura la primissima scena da spiaggia, con rispettosi distinguo dal maestro americano, ricorda quella di Spielberg. Lo squalo simboleggia forza, pericolo e indipendenza selvaggia, ma i due ragazzi dovranno prendersene cura. Mentre la mamma chioccia e nostalgica, Virginia Raffaele, fatina buona in parannanza ma con l’anima malcelatamente ammaccata dal lutto, gravita intorno a questi due Pinocchio e Lucignolo dalla parlata romana. Ragazzi che a volte, in quei viali assolati ricordano per spensieratezza e incoscienza i quattro ragazzotti di Stand by me.

Riferimenti letterari e cinematografici, almeno a detta degli sceneggiatori sono i Goonies, Totti e Italo Calvino. Un bel range assortito, ma in un modo molto curioso se ne trovano effettivamente tracce. Poi arrivano anche i veterani del cast. “Mi è capitato altre volte di lavorare con ragazzi così giovani. Ma lui è  di un’onestà recitativa rara. Di solito i bambini fanno i bambini. Invece lui è stato veramente forte nel proporsi senza filtri, in modo molto maturo. Sei un piccolo DeNiro”. Ha detto Edoardo Pesce a Tiziano Menichelli durante la conferenza stampa di presentazione parlando dell’approccio del giovane attore alla recitazione sul suo personaggio. E proprio Pesce, fedele ai tanti ruoli da duro che il cinema finora gli ha cucito addosso, prende a prestito camicia hawaiana e zoccoli di legno a questo picaresco boss locale, caratterizzandolo con il marchio di fabbrica della sua veracità al tempo stesso minacciosa e ironica, forse coltivata guardando anche lui da ragazzo i film di Scorsese. È marginale la parte di Pesce, come quella di Claudio Santamaria, solo in quanto a minutaggio, ma restano entrambi iconici, sognati e desiderati dai piccoli protagonisti. Santamaria e Pesce costituiscono in un certo senso i due poli per il micromondo dei ragazzi. Presenze più simili a cameo, ma fondamentali per questo racconto che rinfresca l’estate con una poetica naturalistica delle immagini.

Denti da squaloDistribuito in oltre 200 copie da Lucky Red a partire dal’8 giugno, Denti da squalo potrebbe venir definito favola moderna con l’ambizione di conquistare il pubblico estivo di giovani e non, un po’ come fece lo scorso anno, contro ogni pronostico, l’ultimo lavoro di Cronenberg: Crimes of the future. Ma Denti è decisamente migliore, pur non prodigioso quanto potenzialmente poteva essere. Due ultime menzioni le meritano lo squalo e le musiche. Il primo realizzato fondendo in postproduzione un animatronic di un paio di metri con la classica CGI. Il risultato venuto fuori non delude minimamente, anzi resta ammirevole l’astuzia con la quale la regia ne ha ottimizzato i necessari movimenti e le migliori inquadrature intorno ad essi. Necessità in virtù anche per le seconde, composte da Mainetti insieme a Michele Braga, stesso duo anche in Freaks Out e Lo chiamavano Jeeg Robot. Altro bel marchio di fabbrica che riesce a rendere la giusta magia sonora avvicinando empaticamente lo spettatore alle emozioni dei personaggi sul grande schermo.

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“Per vestire Freaks Out mi sono ispirata anche a Slash dei Guns N’ Roses” https://www.fabriqueducinema.it/cinema/interviste/per-vestire-freaks-out-mi-sono-ispirata-anche-a-slash-dei-guns-n-roses/ Mon, 22 Nov 2021 11:26:20 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16414 «Non sono mica passati tanti anni da quando i costumisti si sono guadagnati il nome sui titoli di testa!». Inizia così la chiacchierata in un bistrot di Trastevere con Mary Montalto, costumista di Freaks Out, opera seconda di Gabriele Mainetti. Mary, che insegna alla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volontè, non “veste” i protagonisti ma […]

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«Non sono mica passati tanti anni da quando i costumisti si sono guadagnati il nome sui titoli di testa!». Inizia così la chiacchierata in un bistrot di Trastevere con Mary Montalto, costumista di Freaks Out, opera seconda di Gabriele Mainetti.

Mary, che insegna alla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volontè, non “veste” i protagonisti ma li modella, ne rafforza le caratteristiche e ne accentua l’essenza. Come ci racconta, in Freaks Out ha potuto esercitare al massimo la sua creatività, realizzando costumi che sono l’incontro tra la più triste delle realtà e la più bella delle fantasie. 

Freaks Out è la storia di quattro amici: Matilde, la “ragazza elettrica”, Cencio, l’albino che controlla gli insetti, Fulvio, l’“uomo lupo”, e Mario, il nano che sa manipolare gli oggetti metallici. Siamo nel 1943 a Roma, quando la Capitale è scenario di bombardamenti e deportazioni. I quattro lavorano in un circo gestito dall’ebreo Israel, che per loro è una sorta di padre. All’aggravarsi della guerra la strada dei Freaks si incrocia con quella di Franz, il pianista nazista con sei dita per mano e poteri di chiaroveggenza che dirige il Zirkus Berlin.

Quale è stato il percorso professionale che ti ha portata a Freaks Out?

Mi sono iscritta all’Accademia di Moda e Costumi di Roma negli anni ’80, in quel periodo in cui un po’ tutti volevano fare gli stilisti. In quegli anni ho avuto la fortuna di conoscere Paola Marchesin, appena diplomata al Centro Sperimentale in Costumi, a cui era stato chiesto di firmare il suo primo film, Mignon è partita di Francesca Archibugi. La produzione aveva poco budget, cercavano un’assistente costumista volontaria ed è così che ho iniziato. Da allora è stato un lungo e costante percorso di che mi ha portato fino a Lo chiamavano Jeeg Robot e poi a Freaks Out, un film che sarebbe stato un invito a nozze per qualsiasi costumista!

In Freaks Out ognuno dei protagonisti è caratterizzato da uno stile unico. Da cosa hai tratto ispirazione?

Gabriele Mainetti ci tiene molto a partire dalla ricostruzione di un mondo reale per poi introdurre i suoi temi fantasy. Abbiamo iniziato con una documentazione fedele dell’epoca: dalla deportazione degli ebrei, alla guerra, a Roma devastata. Ogni personaggio aveva già un preciso tema e il costume in questi casi diventa una sorta di sotto-scrittura, un valore aggiunto che ne rafforza l’identità. Per il personaggio di Matilde [interpretata da Aurora Giovinazzo], ad esempio, la richiesta è stata molto precisa: colori freddi perché il suo calore è interno e non superficiale. Per questo ho scelto per lei un cappotto blu in contrasto con i guanti rossi che sono il suo punto di energia. Con Aurora la difficoltà stava anche nel doverla rendere più piccola della sua vera età e per questo l’abbiamo vestita con una gonna con le bretelle, una camicetta semplice e acconciata con delle treccine. Quanto poi alla bombetta che indossa, il primo richiamo è stato ai pilastri del cinema come Charlie Chaplin e Giulietta Masina. Poi con Gabriele abbiamo deciso di conferire a quest’accessorio un significato più profondo ed è diventato una specie di “ombrello paterno” che compie un percorso: parte da Israel [Giorgio Tirabassi], arriva a Matilde e infine a un bambino come segno di speranza per il futuro.

Freaks-Out

Per Cencio [Pietro Castellitto] invece il regista voleva un personaggio un po’ bullo e impolverato: «Lo vorrei come Terence Hill nel film Lo chiamavano Trinità», mi ha detto. E così è stato.

Freaks Out

Anche il personaggio di Mario [Giancarlo Martini] doveva essere reso più infantile, nel film ha un carattere magico e incantato, ma nella realtà a interpretarlo è un uomo adulto, signorile. Per questo abbiamo scelto per lui grandi scarpe, pantaloni alla zuava, giacchetta a quadretti e un fiocco da scolaro che gli conferisse quasi un aspetto clownesco.

Freaks Out

Per Fulvio [Claudio Santamaria] abbiamo voluto creare un personaggio dalla grande eleganza, esemplificata dalla sigaretta con il bocchino e dal pelo curatissimo. Per lui mi sono ispirata a Clark Gable, a mio parere negli anni uno degli attori più eleganti del cinema! Il cappotto ottocentesco di Fulvio è stato un’intuizione. Ho trovato in sartoria questo soprabito fuori epoca ed ho pensato che potesse essere in linea con il suo essere retrò: un uomo colto, che aveva letto libri e che per lungo tempo era rimasto chiuso in una torre.

Freaks Out

Il personaggio più complesso da vestire è stato però Franz [Franz Rogowski], uno showman fissato con l’esercito. La ricerca per lui è stata duplice: da una parte c’è stato uno studio storico sulle divise naziste e dall’altra mi sono ispirata ai grandi frontman del palcoscenico come David Bowie, Mick Jagger e Michael Jackson. La scelta del cilindro che indossa inoltre è stata influenzata in parte dal Ringmaster della Marvel e in parte da Slash, il chitarrista dei Guns N’ Roses.

Freaks Out

Quanto tempo ti ha richiesto questo lavoro di ricerca?

Lo studio preliminare ha richiesto circa 4 settimane, con una bozza del progetto e una prima stima dei preventivi. La preparazione effettiva è durata 3 mesi circa a cui hanno seguito 3 mesi di riprese. Senza considerare che quando lavori a un progetto del genere anche quando sei a casa ci pensi in continuazione, ma ne è valsa la pena!

Un costume tra quelli realizzati per questo film che ti ha particolarmente colpito?

È stato particolarmente divertente vestire il gobbo e i Diavoli Storpi, uno scalcagnato gruppo di ribelli antifascisti. I costumi di questi personaggi sono inventati, anche se per crearli ho studiato le immagini dei partigiani e delle partigiane, che portavano i pantaloni come gli uomini.  Il gobbo [Max Mazzotta], a capo della squadra dei Diavoli, doveva portare una fascia in testa stile Rambo come un vero combattente, un uomo dei boschi. Peraltro Max è un attore straordinario e un uomo di una cultura eccezionale, ha una sua compagnia teatrale a Cosenza e insegna all’Università.

Freaks OutI costumi realizzati che fine fanno?

I costumi dei protagonisti sono stati disegnati, tagliati e cuciti da noi in laboratorio con due sarte e sono di proprietà della produzione. Adesso alcuni di questi sono in viaggio verso Dubai per l’Expo in rappresentanza del Cinema per la Regione Lazio.  Il resto rimane come repertorio, ritornano nelle sartorie e vengono ri-smistati nei magazzini per essere utilizzati poi per altri film. È il ciclo vitale dei costumi, un vero e proprio patrimonio in cui noi italiani non siamo secondi a nessuno e che dovremmo valorizzare di più: per questo è nata anche la nostra associazione (ASC-Associazione Italiana Scenografi Costumisti e Arredatori).

Come è stato vedere Freaks Out dopo tutti questi mesi di lavoro?

Guardando il film mi sono detta “ma perché questi parlano romanesco?”. Sembra una pellicola americana! [ride]. È un film di genere, quindi ovviamente c’è a chi è piaciuto e a chi no, ma sono orgogliosa che sia stato un film pensato e realizzato in Italia. Siamo stati tutti coraggiosi, abbiamo tenuto botta in momenti difficili e faticosi dicendoci “ce la possiamo fare” e in questo Gabriele è stato il grande capitano della nave.

 

 

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Freaks Out, un Gabriele Mainetti senza limiti https://www.fabriqueducinema.it/festival/freaks-out-un-gabriele-mainetti-senza-limiti/ Wed, 08 Sep 2021 18:00:27 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16000 Quarto film italiano in concorso a Venezia 78, arriva Freaks Out, opus magnum di Gabriele Mainetti e suo secondo lungometraggio dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, che è stato uno spartiacque nella storia recente del cinema italiano. Se le ambizioni di Jeeg Robot erano già coraggiose e il tentativo di importazione di modelli cinematografici esterni era […]

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Quarto film italiano in concorso a Venezia 78, arriva Freaks Out, opus magnum di Gabriele Mainetti e suo secondo lungometraggio dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, che è stato uno spartiacque nella storia recente del cinema italiano.

Se le ambizioni di Jeeg Robot erano già coraggiose e il tentativo di importazione di modelli cinematografici esterni era da ritenersi riuscito, quantomeno premiato dall’accoglienza del pubblico, qui Mainetti si spinge ancora oltre, con un film la cui lavorazione ha richiesto un numero di settimane di riprese inedito per il nostro sistema produttivo, un dispendio di effetti speciali e effetti visivi altrettanto magniloquente, una confezione che francamente non ha nulla da invidiare a prodotti di nazionalità più abituate alla grandeur: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Corea del Sud, la Russia.

Il pretesto narrativo per questo affresco fantastico sulla Roma occupata dai nazisti nel 1943 è un piccolo teatro di strada gestito da Israel, interpretato da Giorgio Tirabassi, che recluta fra i suoi fenomeni da baraccone quattro strambe figure: Fulvio, l’uomo lupo di Claudio Santamaria, Cencio, il domatore di insetti interpretato da Pietro Castellitto, Mario, nano con poteri magnetici col volto di Giancarlo Martini e la ragazza elettrica, Matilde, che è Aurora Giovinazzo, il personaggio più complesso e anche quello decisivo.

I quattro freak della storia passeranno attraverso molte peripezie e molti incidenti di percorso che riassumere qui sarebbe impossibile – anche vista la durata del film, 141 minuti -, si separano, si ritrovano, vengono fatti prigionieri, si liberano, combattono, a volte nulla possono neanche i loro superpoteri, altre volte sono invece determinanti. Incontreranno anche un altro gruppo di personaggi, una curiosa e agguerrita brigata di partigiani con l’accento pugliese, ciascuno con una menomazione o una deformità, ma ciascuno pure dotato di abilità straordinarie, e saranno loro gli eroi di un immancabile “arrivano i nostri” pienamente inserito dello schema del film d’avventura, rispettato dall’inizio alla fine.

I cattivi sono, naturalmente, i nazisti, pure tratteggiati con qualche miracoloso potenziale, per esempio l’interessante trovata di rendere Franz, l’assoluto antagonista dei freak, un sublime pianista e anche “la Cassandra del Reich”, con il potere di prevedere il futuro: futuro che va dalla caduta del regime – quindi sulla breve distanza – fino all’invenzione dell’iPhone. Ebbene sì, proprio l’iPhone, generatore della sequenza più visionaria e coraggiosa del film.

Come si può vedere, gli elementi nel calderone sono tantissimi e a Mainetti va riconosciuto il coraggio di aver fatto di tutto, produttivamente parlando, per mettere dentro Freaks Out tutte le idee, le situazioni, le coreografie, le battaglie che ha immaginato e sognato, senza porsi limiti, senza timore reverenziale dei riferimenti cinefili sparpagliati lungo il percorso, che vanno da Tarantino a Burton, da Spielberg fino ad arrivare addirittura al Rossellini di Roma città aperta. Anche a costo di sembrare prolisso, anche a costo di sfiorare la bulimia visiva e sonora, è ammirevole la tenacia nel tenere insieme ogni cosa, pur di realizzare l’opera agognata.

Ma pur all’interno di un impianto produttivo così gigante, a prendere felicemente il sopravvento sono gli attori: il cast è azzeccatissimo, sono bravissimi tutti i quattro freak, Castellitto che si lascia andare alla romanità borgatara spinta, Santamaria animalesco e colto insieme, Martini è bravo a non diventare macchietta (il pericolo, con il suo personaggio, era dietro l’angolo), Aurora Giovinazzo è commovente nella gestione del dolore legato al proprio superpotere, in ogni sua apparizione è memorabile Tirabassi, e una menzione particolare va a Max Mazzotta, il capo dei partigiani, in grado di dare un fuoco al personaggio del gobbo che per espressività e per presenza scenica animalesca è destinato a rimanere.

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“Jeeg Robot”: il cinema di genere risorge e combatte https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/jeeg-robot/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/jeeg-robot/#respond Mon, 09 May 2016 14:25:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3109 Il romano Gabriele Mainetti ha esordito nel lungometraggio con un film bizzarro e originale, capace di intrattenere fondendo felicemente generi e toni. E ha sorpreso un po’ tutti. In l’Italia il cinema di genere e d’intrattenimento è il più delle volte sinonimo di commedie nazional-popolari che, più o meno riuscite a seconda dei casi, sono […]

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Il romano Gabriele Mainetti ha esordito nel lungometraggio con un film bizzarro e originale, capace di intrattenere fondendo felicemente generi e toni. E ha sorpreso un po’ tutti.

In l’Italia il cinema di genere e d’intrattenimento è il più delle volte sinonimo di commedie nazional-popolari che, più o meno riuscite a seconda dei casi, sono troppo spesso molto simili tra loro. In questo contesto, dopo il fortunato caso del 2014 di Smetto quando voglio (trovate l’intervista a Sibilia nel numero 6 di Fabrique), Lo chiamavano Jeeg Robot rappresenta un altro importante elemento di discontinuità. Al suo primo lavoro dietro la macchina da presa, infatti, Gabriele Mainetti ha realizzato un film di supereroi molto sui generis ambientato in una Tor Bella Monaca dominata dalla malavita. L’operazione è coraggiosa e risulta strettamente legata alla poetica portata avanti dal regista sin dai pluripremiati cortometraggi Basette (2006) e Tiger Boy (2012) . Con Gabriele, in passato anche attore per il cinema e per la televisione, abbiamo parlato della particolarità del suo progetto, delle sue passioni cinematografiche e di molto altro ancora.

 Come nasce l’idea alla base di Lo chiamavano Jeeg Robot e qual è il legame, per alcuni aspetti molto evidente, con i tuoi lavori precedenti da regista?

La mia collaborazione con lo sceneggiatore Nicola Guaglianone va avanti da diverso tempo. Lui infatti, prima di scrivere insieme a Menotti Jeeg, si era occupato del soggetto e della sceneggiatura sia di Basette che di Tiger Boy. Entrambi siamo cresciuti con Bim Bum Bam, che è stato per noi una sorta di baby sitter, e ci piace spesso far riferimento al mondo dell’anime giapponese perché è come se ci offrisse l’opportunità di entrare di nuovo in contatto con i miti della nostra infanzia. Fin dai corti è nata così una formula che consiste nel contaminare la realtà quotidiana romana con l’immaginario e i protagonisti di alcuni anime molto noti. In Jeeg però abbiamo introdotto per la prima volta l’elemento “supereroico” (il Lupin di Basette e l’Uomo Tigre di Tiger Boy non lo erano): in questo modo abbiamo voluto proporre la nostra personale visione di un filone cinematografico con il quale gli americani negli ultimi anni ci stanno in qualche modo lobotomizzando.

Il protagonista del tuo film in effetti è molto diverso dai supereroi che siamo abituati a vedere nel cinema statunitense. In che modo se ne differenzia?

Enzo Ceccotti, oltre a essere associato a Jeeg Robot esclusivamente dalla fantasia della protagonista femminile Alessia (non a caso indosserà la maschera del supereroe, fatta a maglia, solo nel finale), non vuole aiutare gli altri perché li detesta. È un delinquente di periferia che decide di accettare le responsabilità legate ai propri poteri dopo un lungo arco di trasformazione, grazie allo svilupparsi del rapporto con lei. Stiamo quindi parlando di tutto un altro contesto rispetto a quello di celebri supereroi come Batman, Superman o Spiderman.

Uno degli elementi in assoluto più riusciti del film è l’alternanza dei toni drammatici e comici. In alcuni momenti i passaggi sono anche repentini ma, grazie all’apporto della sceneggiatura, della regia e delle interpretazioni, funzionano sempre.

In effetti quella di fondere i registri della commedia e del dramma è un’idea che ho sempre perseguito. Per raggiungere il risultato che si vede nel film è stato fondamentale il lavoro sui personaggi. Affinché tutto funzioni è molto importante che risultino veri, anche nel caso abbiano tratti marcatamente surreali o fantasiosi. All’inizio ero preoccupato dal dover trovare il giusto equilibrio tra i due toni, ma poi tutto si è risolto ancorandomi alla semplicità della storia e alla verità dei personaggi. Gli attori hanno svolto un ruolo essenziale, in particolare i tre straordinari interpreti Claudio Santamaria, Luca Marinelli e l’esordiente Ilenia Pastorelli. Abbiamo lavorato davvero tanto insieme per ottenere quello che cercavamo. Claudio è un attore incredibile, oltre che un mio grandissimo amico, e ha preso venti chili per interpretare un personaggio che gli ha pemesso di fare qualcosa di completamente diverso. Luca, più di ogni altra cosa, mi ha sorpreso per la capacità di far evolvere in continuazione il personaggio, anche sul set. Ilenia invece, pur non avendo mai recitato prima, ha dimostrato uno straordinario talento naturale sul quale poter continuare a lavorare.

In altre occasioni hai affermato di essere interessato al cinema di intrattenimento e di genere più che a quello squisitamente d’autore. Ci puoi chiarire il tuo pensiero a riguardo?

Alla base, la mia è una concezione del cinema come intrattenimento. Non ho nulla contro il cinema d’autore, anzi, ma non condivido l’atteggiamento di chi parte con l’idea di fare film d’autore. A mio avviso il vero autore, prima che qualcuno glielo faccia notare, non è neppure consapevole di esserlo. Personalmente non nutro particolari ambizioni di far riflettere lo spettatore. Quello che mi interessa è giocare con la commistione di più generi tentando di essere sensibile al contemporaneo, al mondo che ci circonda. Vedo quindi il genere come uno strumento con il quale raccontare la contemporaneità.

Qual è il cinema a cui ti senti più vicino? Le tue principali ispirazioni cinematografiche?

Da piccolo guardavo a ripetizione, insieme a mio padre, i film di Indiana Jones, 007 e quelli di Monicelli come L’armata Brancaleone, I soliti ignoti, Il marchese del Grillo e Amici miei. Poi, nel momento in cui ho iniziato a studiare storia e critica del cinema all’università, ho cominciato ad avere una conoscenza più ampia della settima arte. In più ho senz’altro una passione sfrenata per il cinema asiatico e, in particolare, per il cinema di Takashi Miike, Takeshi Kitano e Park Chan-wook. Se di Miike mi diverte molto la modalità di messa in scena della violenza e Kitano in qualche modo mi ha proprio educato al cinema, Old Boy di Park Chan-wook è forse il mio film preferito in assoluto. Amo lo sguardo proposto dal cinema asiatico, contraddistinto da una messa in scena potente ed elegante, e la capacità di questi film di essere drammatici e comici allo stesso tempo.

Hai già qualche idea sul tuo prossimo progetto?

Sicuramente voglio continuare a lavorare sulla contaminazione di diversi generi. Attualmente ho due soggetti già pronti e un soggetto in via di sviluppo. Ne ho già parlato con alcuni possibili collaboratori e co-produttori. Una volta che tornerò con i piedi per terra dopo l’incredibile accoglienza ricevuta per Jeeg, sceglierò il progetto dei tre che mi stimolerà di più, anche se dovesse trattarsi di una cosa piccola e semplice.

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Perché tu, tu sei Jeeg https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/perche-tu-tu-sei-jeeg/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/perche-tu-tu-sei-jeeg/#respond Thu, 25 Feb 2016 13:10:30 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2766 Comincia come una puntata di “Gomorra” e finisce come “Il cavaliere oscuro”. Un connubio impossibile? No, se si ha il coraggio di osare e offrire al pubblico una storia avvincente, vecchia e nuova allo stesso tempo, capace di far dimenticare e perdonare un po’ di quella artigianalità che inevitabilmente sostituisce i budget a otto zeri […]

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Comincia come una puntata di Gomorra” e finisce come “Il cavaliere oscuro”. Un connubio impossibile? No, se si ha il coraggio di osare e offrire al pubblico una storia avvincente, vecchia e nuova allo stesso tempo, capace di far dimenticare e perdonare un po’ di quella artigianalità che inevitabilmente sostituisce i budget a otto zeri dei film di Hollywood.

Con una premessa del genere stiamo parlando ovviamente di Lo chiamavano Jeeg Robot, sorprendente opera prima di Gabriele Mainetti da oggi nelle sale, che vede Claudio Santamaria nei panni di un supereroe con tutti i crismi. Un piccolo criminale della periferia romana che entra per caso in possesso di doti sovraumane e all’inizio non sa cosa farsene, se non rapinare banche per continuare a vivere nella sua topaia. Questo almeno finché sul suo cammino non incontra Alessia (Ilenia Pastorelli), una ragazza instabile e naïve, convinta che lui sia realmente un supereroe come quello del suo cartone animato preferito, Jeeg Robot d’Acciaio, e che il suo dono possa fare del bene a tanti, a partire proprio dal suo cuore irrigidito da anni di miseria e degrado.

Su Fabrique non potevamo perdere l’occasione di parlare di un esordio così insolito, tanto che al regista abbiamo dedicato una lunga intervista in uscita sul prossimo numero di marzo. Ma una scommessa di tale portata merita qualche parola anche in occasione del suo arrivo sul grande schermo, trattandosi di un esperimento che il nostro cinema non faceva da tempo immemorabile, o almeno non in modo convincente.  Mainetti ha è riuscito infatti a rimescolare tutti i generi di cui i nostri occhi si sono nutriti negli ultimi anni, ma allo stesso tempo con la capacità di personalizzare ogni dettaglio con un’impronta nuova e profondamente radicata nella realtà.ruota

Jeeg ricorda i primi cinecomic americani, quelli più genuini, da Batman Begins allo Spiderman di Sam Raimi, e grazie a una scrittura oculata accompagna lo spettatore alla scoperta della storia del supereroe per caso Enzo Ceccotti, riesce a farci immaginare il suo pesante background senza bisogno di psicologismi e grandi spiegoni. Lo stesso vale per il personaggio di Alessia e del cattivo, perfettamente impersonato da un grande Luca Marinelli (che fosse un ottimo attore lo sapevamo da La solitudine dei numeri primi, ma qui nessun dubbio è ormai possibile): tutti i profili sono caratterizzati non solo attraverso l’esposizione del loro passato ma da piccoli particolari che ce li fanno comprendere in modo istintivo e li rendono vivi, palpabili e coinvolgenti. I DVD porno nella casa del supereroe, gli acquisti infantili, la passione per la musica nazionalpopolare trash dell’antagonista (ma dov’è che lo avevamo già visto? Ah sì… Inizia con la B…). Nonostante la lunga durata, quasi nessun elemento del film è inessenziale; appare solo poco efficace il tentativo in sottofondo di parlare di uno Stato ostaggio delle mafie e di una cittadinanza in preda al terrore, ma visto l’epoca storica forse anche questo piccolo excursus non è poi così fuori luogo.

Quando abbiamo incontrato Claudio Santamaria, in occasione della presentazione del film alla stampa, ci ha descritto il personaggio come: «Un uomo chiuso in se stesso, lontano dagli altri, che si considera una nullità, un perdente, e che vede il mondo come una massa indistinta di corpi che gli ruotano intorno, di persone tutte uguali che per lui non hanno nessun valore. Solo il personaggio di Alessia, nonostante l’immensa ferita interna che porta con sé, gli fa vedere che il mondo non è un unico blocco di persone tutte grigie, che ci sono dei colori e che tutti hanno una storia personale che vale la pena di conoscere e probabilmente anche di aiutare. Lo riapre alla vita, gli fa toccare qualcosa di intimo, di profondo, capace di fargli riscoprire la bellezza di stare con gli altri».

In poche parole un viaggio di rinascita dalla rassegnazione verso la speranza di un futuro possibile, non solo e non tanto per se stessi ma per tutto il mondo circostante. Un tema vecchio come il mondo ma sempre attuale, al centro di tanti film più “grandi” che hanno tentato di incarnare questo spirito del nostro tempo, come Kingsmen o Interstellar o appunto i Batman di Nolan. E come direbbe il buon Wayne, insomma, Jeeg Robot non è forse l’eroe che il nostro cinema si merita, ma quello di cui il nostro cinema aveva bisogno.

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 Jeeg conquista Roma https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/jeeg-conquista-roma/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/jeeg-conquista-roma/#respond Sun, 18 Oct 2015 14:40:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2075  Gabriele Mainetti firma un esordio  inedito per il panorama italiano in cui fonde il cinema di genere alla Tarantino con le avventure Marvel. Il tutto arricchito da un inequivocabile tocco italico. Antonio Monda, direttore de La festa del Cinema, aveva preannunciato che Lo chiamavano Jeeg Robot avrebbe colpito al cuore. E così è stato. Proiettato durante […]

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 Gabriele Mainetti firma un esordio  inedito per il panorama italiano in cui fonde il cinema di genere alla Tarantino con le avventure Marvel. Il tutto arricchito da un inequivocabile tocco italico.
Antonio Monda, direttore de La festa del Cinema, aveva preannunciato che Lo chiamavano Jeeg Robot avrebbe colpito al cuore. E così è stato. Proiettato durante la seconda giornata della manifestazione romana, l’opera prima dell’attore Gabriele Mainetti, e primo film italiano della selezione ufficiale, ha infiammato la platea composta dalla stampa, aggiudicandosi ottime possibilità di diventare il caso straordinario del festival.
Ma quali sono gli elementi che rendono quest’opera, scritta a quattro mani da Nicola Guaglianone e Roberto Marchionni, eccezionale?  Dopo il cortometraggio Tiger Boy, in cui il regista si era già confrontato con la costruzione di un eroe e della sua maschera, Mainetti  ha impiegato cinque anni per portare nel cuore dell’Auditorium un film innovativo per il panorama italiano, capace di unire il cinema di genere alla Tarantino con gli elementi del miglior blockbuster targato Marvel, senza rinunciare all’ironia territoriale, nello specifico quella romana, e nutrendosi costantemente della cultura anni Settanta con chiari riferimenti televisivi e musicali. “Per molto tempo ho cercato di trovare un produttore avventuroso, ma nessuno ha avuto il coraggio di innamorarsi di questa vicenda immersa profondamente nel genere. Così, ho deciso di fare da solo e auto produrmi: è stato un viaggio lungo e stancante, ma ho avuto la possibilità di imparare molto. Spero, onestamente, che le cose cambino nel nostro paese”.
La vicenda si incentra sulla figura di Enzo Ceccotti, piccolo criminale di periferia con la bizzarra passione per i budini che, dopo un inseguimento e un involontario bagno nel Tevere, scopre di avere a  disposizione dei poteri eccezionali.  Interpretato da Claudio Santamaria, il personaggio sembra proprio non essere dotato delle qualità morali per diventare un eroe senza macchia ma, come la miglior tradizione ci ha insegnato, per diventare un cavaliere al servizio della giustizia è inevitabile combattere con il proprio lato oscuro. Ed è proprio su questo confronto che Mainetti concentra attenzione e talento, dando vita a un percorso che, pur traendo ispirazione da molte fonti diverse e riconoscibili, ha originalità e una personalità inedita.
Il film, interpretato anche da Luca Marinelli e Ilenia Pastorelli, sarà distribuito a marzo 2016 da Lucky Red.

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