fumetto Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 23 Oct 2024 14:31:55 +0000 it-IT hourly 1 VAGA, l’amore tossico e la musica che salva https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/vaga-lamore-tossico-e-la-musica-che-salva/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/vaga-lamore-tossico-e-la-musica-che-salva/#respond Mon, 06 May 2024 09:32:10 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19107 Con Dog, il suo ultimo fumetto, ha scelto di raccontare la storia di una relazione tossica, fatta di violenza ma anche di straordinaria poesia nei rapporti fra i personaggi, nelle ambientazioni e nelle scelte grafiche. Valentina Galluccio, in arte VAGA, ha studiato danza per anni. Poi ha ripreso in mano matite e colori. Come è […]

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Con Dog, il suo ultimo fumetto, ha scelto di raccontare la storia di una relazione tossica, fatta di violenza ma anche di straordinaria poesia nei rapporti fra i personaggi, nelle ambientazioni e nelle scelte grafiche. Valentina Galluccio, in arte VAGA, ha studiato danza per anni. Poi ha ripreso in mano matite e colori.

Come è nata l’idea narrativa per Dog (pubblicato da Edizioni BD) e come hai sviluppato il libro dal punto di vista grafico?

All’inizio avevo immaginato Dog come un cortometraggio animato: ho girato anche alcune scene a Napoli con due ballerine, poi avrei ricalcato i loro movimenti utilizzando la tecnica del rotoscoping. Ma, mentre disegnavo i primi frame, mi sono resa conto che l’animazione non era il mezzo adatto per raccontare la mia idea, che la via giusta era il fumetto. Dog è una storia autobiografica e sintetizzare circa sei anni di relazione in 135 pagine non è stato semplice. In principio cercavo di omettere alcuni particolari, forse perché mi sembravano troppo crudi. Mi faceva male ricordare molte cose, ho cercato anche di eliminare alcune scene per proteggermi dal fatto che qualcuno avrebbe saputo quelli che fino a quel momento erano i miei segreti.  Alla fine mi sono lasciata andare, ho riscritto la maggior parte dei dialoghi in una notte, senza pensare troppo a quale avrebbe potuto essere il riscontro dei lettori. Ed è stato liberatorio.

Nel fumetto sono presenti molti rimandi alla musica: penso per esempio alla bellissima sequenza della metropolitana accompagnata dai versi di Caños dei Verdena. Che rapporto hai con la musica e quanto ha influito sulla composizione del libro?

La musica è fondamentale per la mia sopravvivenza, mi “serve” per lavorare ma anche per stare in questa città senza impazzire. Prima Napoli era piena di locali in cui si poteva ascoltare musica live e le mie serate si svolgevano principalmente in questi posti. A quanto pare oggi la musica live non è più così interessante, molti locali hanno chiuso, quindi non mi resta che spendere tutti i miei soldi per comprare biglietti di concerti. Mentre disegnavo le tavole ho rispolverato gli album che ascoltavo durante gli anni in cui si sono svolti i fatti: Verdena, Subsonica, CCCP, Prozac+, Placebo, Crystal Castles, Nirvana (Dog ha la giacca di Kurt Cobain), TARM, Korn, Prodigy e tanta altra roba. È stato un processo naturale e credo mi abbia aiutata a recuperare parti di storia che avevo rimosso, un “amarcord” abbastanza violento che però è stato necessario per ritrovare le sensazioni che provavo mentre vivevo quei momenti.  Oltre la musica, mi piace molto il cinema e spesso dopo un bel film mi viene voglia di disegnare. Quando ho disegnato Dog ho rivisto L’odio (mio film preferito di sempre e per sempre), tipo per la quarantesima volta, e credo che questo abbia influenzato non poco il modo lo stile narrativo e grafico del fumetto.

VAGA DogSempre a proposito di musica, ricordo di aver conosciuto il tuo lavoro qualche anno fa grazie al video animato di L’unica oltre l’amore di Giovanni Truppi. Come è stato lavorare a quel progetto e, più in generale, cosa rappresenta per te l’animazione nel tuo percorso espressivo?

Lavorare al videoclip di Giovanni Truppi è stato bello ma anche molto faticoso. Sono fan di Truppi da sempre e quando mi ha chiesto di realizzare il video per me è stata un’emozione fortissima. È stato girato quasi interamente in piano sequenza e, successivamente, lavorato frame per frame in rotoscoping: L’unica oltre l’amore è composto da oltre 5000 tavole. Il difficile è stato non diventare matta, considerando che oltre gli storyboard, il girato e i disegni, avrei poi dovuto montare tutte le scene, rispettando i tempi di consegna che mi erano stati dati dalla Universal. Comunque l’animazione è uno dei media in cui mi sento più libera di sperimentare. Mi piace anche il fatto che mi ricorda la danza, o almeno io ho utilizzato spesso i movimenti del mio corpo per realizzare corti e videoclip.  Cambio spesso tecnica, passando appunto dal ricalco all’animazione classica e alla motion graphic con After Effects, onestamente anche in maniera molto “ignorante” visto che non ho mai studiato animazione. E quando disegno su carta, immagino i movimenti dei personaggi come se fossero animazioni o movimenti di danza contemporanea.

Ci sono state particolari letture, film o opere d’arte più in generale che ti hanno avvicinato al mestiere dell’illustrazione e del fumetto? Hai scritto che per un periodo, studiando danza, ti eri allontanata dal disegno.

Da piccola sognavo di fare fumetti, disegnavo moltissimo, a casa, in classe, in spogliatoio prima delle lezioni, a teatro prima di andare in scena. Da ragazzina, per via del mio pessimo rapporto con la scuola, spesso trascorrevo le mattinate a guardare MTV. In quegli anni girava il video dei TARM Occhi bassi: ricordo che il modo in cui erano fatti i disegni, le animazioni e i colori, mi faceva venire voglia di disegnare, come i videoclip dei Linkin Park Breaking the Habit e dei Subsonica Vita d’altri. Poi c’erano gli anime – Death Note, Ranma 1/2, Neo Genesis Evangelion, Paradise Kiss e Nana – che adoravo e ricordo di aver consumato il dvd di Ghost in the Shell insieme a mio fratello.  Mi piaceva immaginarmi disegnatrice, ma la danza ha iniziato ad assorbire sempre di più le mie energie, specialmente quando la prospettiva di lavorare in quel mondo si faceva via via più realistica. Danzavo più di dieci ore al giorno e in quel periodo disegnavo rarissimamente. Mi sono riavvicinata al disegno grazie alla Scuola Italiana di Comix, dove ho studiato illustrazione per tre anni: mi sono iscritta dopo un lungo periodo non semplice. Avevo subito un infortunio grave e i medici mi avevano detto che non avrei più potuto danzare come professionista. Da un lato è stato un sollievo, quel mondo iniziava a starmi stretto, forse non era la professione giusta per me, anche se mi manca molto e avrei voluto continuare senza l’ansia di farlo diventare il mio mestiere a qualunque costo. D’altra parte, invece, vedere anni di sacrifici sfumare in un secondo è stato tosto. Fortunatamente avevo la passione del disegno, in quel momento mi sembrava l’unica via d’uscita.

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Eliana Albertini, atmosfera di provincia e comicità https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/eliana-albertini-atmosfera-di-provincia-e-comicita/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/eliana-albertini-atmosfera-di-provincia-e-comicita/#respond Wed, 10 Jan 2024 14:37:21 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18894 La vita e le atmosfere di provincia, il Delta del Po, la pianura e i suoi silenzi, ma anche – con La vita della mia ex per come la immagino io, l’ultimo fumetto disegnato su sceneggiatura di Gero Arnone e pubblicato da Minimum Fax – una inaspettata capacità comica. Sono gli ingredienti dei fumetti e […]

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La vita e le atmosfere di provincia, il Delta del Po, la pianura e i suoi silenzi, ma anche – con La vita della mia ex per come la immagino io, l’ultimo fumetto disegnato su sceneggiatura di Gero Arnone e pubblicato da Minimum Fax – una inaspettata capacità comica. Sono gli ingredienti dei fumetti e delle illustrazioni di Eliana Albertini, un’autrice che nel giro di pochi anni si è costruita un segno personale e maturo, sperimentando con i generi e le possibilità della “nona arte”.

Mi colpisce come nei tuoi fumetti – da Malibu (BeccoGiallo, 2019)  a Anche le cose hanno bisogno (Rizzoli Lizard, 2022) – ci sia, esplicito o più in sottotraccia, un grande spazio dato al microcosmo della provincia fatto di grandi pianure, esperienze di crescita, ma anche violenza, diffidenza se non esplicito razzismo. Questa presenza dipende solo dal fatto che è un ambiente che conosci bene o ha anche un valore narrativo in senso più ampio?
È principalmente un ambiente che conosco bene e che ho usato come base per capire su cosa fondare i miei fumetti. Infatti hanno cominciato davvero a piacermi proprio quando ho iniziato a pensarli attingendo dal mio personale background provinciale. All’epoca ancora non si erano diffuse le storie che parlano di provincia e sinceramente non mi sembrava per niente una figata raccontarla. L’Accademia mi è servita anche per capirne il valore narrativo: non so se ci sarei arrivata da sola o almeno non so se ci sarei arrivata in così poco tempo, considerando che partivo quasi da zero. Realizzare quei fumetti (soprattutto Malibu, il primo) per me è stato davvero necessario per mettere insieme tutto: la vita, il fumetto, la scrittura, le storie che mi interessavano e in cui riuscivo a riconoscermi.

Hai detto che lo spunto per Anche le cose hanno bisogno è nato dalle lunghe passeggiate durante il lockdown.
In quel periodo, come tutti credo, cercavo di far passare le giornate e fra le poche cose consentite per fortuna c’erano le passeggiate. Stavo nel mio paesino di origine per cui era abbastanza facile sforare i 200 metri concessi dalla legge: da questo gravissimo reato come prima cosa è nato passeggiatine, un librino autoprodotto che raccoglie foto e pensieri proprio di quelle specifiche passeggiate. Nel frattempo stavo leggendo Underworld di DeLillo e riflettendo sull’idea per un nuovo libro. Anche le cose hanno bisogno quindi è nato da una lunga operazione: le passeggiate, le cose che raccoglievo da terra durante queste passeggiate e il tema ricorrente dell’immondizia che fa da sottotraccia in Underworld. Da tutto questo ho voluto togliere solo il lockdown.

Eliana AlbertiniAnche nei tuoi dipinti mi pare che emerga l’attenzione alla provincia, agli oggetti e a una sorta di silenzio e di vuoto nel quale quasi manca la presenza umana. In certe composizioni, così come in alcune tavole dei fumetti, emergono forse le atmosfere di due grandi osservatori della pianura come Luigi Ghirri o Gianni Celati. È così? Quali sono i tuoi riferimenti visivi e narrativi?

Sicuramente sono stati e sono due punti di riferimento. Quando li ho scoperti ho capito per la prima volta quanto si potesse entrare dentro il lavoro di un’altra persona. Mi attira tutto ciò che parla di silenzio, incomunicabilità, interstizi, infatti da più giovane mi piacevano molto le opere di Edward Hopper, David Hockney, Stephen Shore e in seguito mi sono buttata nella letteratura americana (DeLillo, Roth, Franzen). Anche loro rappresentano in un qualche modo il silenzio, ma Ghirri e Celati ne mettono in scena uno che mi fa dire “lì c’ero anche io”.

Con la storia breve La salamandra hai partecipato alla raccolta A.M.A.R.E. per Canicola. Di recente è uscito anche il libro autoprodotto Povere Puttane Vol.3. Come vivi questa esperienza di condivisione editoriale? È uno stimolo per te collaborare con autrici vicine per sensibilità?
È stato fondamentale per me anche per uscire da quel silenzio in cui spesso mi sono ritrovata, per caso o per scelta. La collaborazione e la condivisione non rappresenta per me la condizione naturale per produrre, per cui mi sono sempre cercata degli spazi in cui farlo senza sentirmi oppressa. La prima esperienza è stata “Blanca”, nel 2014, un collettivo che ho fondato con Martina Tonello, Irene Coletto e Noemi Vola, e credo sia stato un buon modo per imparare a muovermi in questo settore insieme a una squadra. Ho capito che se non c’è gioco non mi piace, se assomiglia troppo a un lavoro tendo a perdere interesse. A.M.A.R.E. invece mi ha dato la possibilità di sperimentare un tipo di storia che fino a quel momento non avevo mai provato, e le Povere Puttane (Martina Sarritzu e Giulia Cellino) a usare gli esperimenti di vita per farne delle storie.

In La vita della mia ex per come la immagino io c’è un vero cambio di registro, visto che nel libro entra e con un ruolo centrale l’elemento della comicità. Inoltre hai disegnato su sceneggiatura non tua ma di Gero Arnone. Come è nato il progetto e cosa ha significato per te?
Il progetto è nato in casa Minimum Fax che ha in primo luogo incaricato Gero di scrivere un libro a fumetti (prima esperienza anche per lui). Mi è stato proposto di prendere parte al progetto successivamente: all’inizio non mi era ancora ben chiaro di cosa si trattasse, ma solo per il fatto che sarebbe stato un libro comico in cui avrei avuto spazio di manovra ho accettato. È un registro narrativo che mi piace moltissimo e mai sarei riuscita a farlo da sola, in più ero già fan della comicità di Gero. Non avevamo davvero idea di cosa potesse realmente uscire fuori, ma di sicuro non pensavamo a niente meglio di così. Dal mio punto di vista è stato divertente e stimolante, cosa che mai avrei pensato del lavorare con uno sceneggiatore. Mi piace fare cose diverse e questo libro è diverso in ogni pagina: è un concentrato di situazioni al limite che si disinnescano poco prima di esplodere, fino all’esplosione finale. Per questo motivo pensavamo potesse suscitare qualche polemica, e invece è stato accolto piuttosto bene, al punto da andare in ristampa dopo poco tempo.

Cosa puoi dirci dei tuoi progetti in corso?
Proprio per il fatto che non amo ripetermi ora sto provando a cimentarmi in qualcosa di nuovo: un libro illustrato, di quelli che in terza media pensavo di voler disegnare per tutta la vita. Ci provo ora dopo dieci anni di soli fumetti!

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Salomè, l’horror sexy che parla romanesco https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/salome-lhorror-sexy-che-parla-romanesco/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/salome-lhorror-sexy-che-parla-romanesco/#respond Mon, 15 May 2023 14:08:15 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18473 Con la sua prima storia a fumetti lunga, Salomè. Liberaci dal bene – pubblicata da Edizioni BD – Emanuele Caponera tiene assieme atmosfere horror ma anche spunti comici. Tra avventura, erotismo, boschi e streghe, Salomè porta avanti la sua missione, ma in lei, come ci ha rivelato l’autore, si cela anche un po’ della personalità […]

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Con la sua prima storia a fumetti lunga, Salomè. Liberaci dal bene – pubblicata da Edizioni BD – Emanuele Caponera tiene assieme atmosfere horror ma anche spunti comici. Tra avventura, erotismo, boschi e streghe, Salomè porta avanti la sua missione, ma in lei, come ci ha rivelato l’autore, si cela anche un po’ della personalità dell’artista (e del suo dialetto).

Come è nata la storia e quali sono stati i tuoi riferimenti nel fumetto ma anche nel cinema e nella letteratura?

La storia è nata dall’attrazione per certi temi horror. Ho sempre amato questo genere, sia nel cinema che nella letteratura e soprattutto nel fumetto. La figura della strega mi ha sempre affascinato e, dopo aver visto il film The Witch di Robert Eggers, probabilmente è scattato qualcosa. Anni dopo, con Salomè, ho rispolverato queste figure inquietanti spesso protagoniste anche del folclore italiano. Ho pubblicato le prime strisce su Instagram nel 2018, dopodiché, essendomi affezionato al personaggio di Salomè, ho deciso di renderla protagonista di altre avventure. Per quanto riguarda il cinema horror, a parte il già citato The Witch, sicuramente le mie influenze sono riconducibili a vecchi film italiani come La casa dalle finestre che ridono e Suspiria. In adolescenza ho macinato anche molti manga – tra cui Berserk – poi Dylan Dog e varia letteratura horror, partendo da Poe e Lovecraft per arrivare a King. La storia che ho scritto è sì figlia del folclore che appartiene alle terre del Sannio, ma soprattutto a quelle laziali e dei Castelli Romani in particolare, proprio perché è qui che sono nato e cresciuto. La stessa Lupa è una figura facilmente riconducibile alla leggenda di Romolo e Remo.

Una cosa che colpisce e che stride volutamente, credo, con l’ambientazione oscura e “infernale” è l’uso del dialetto parlato da Salomè. Come mai questa scelta?

Esatto, “stride” volutamente. Mi faceva molto ridere spezzare l’atmosfera dark attorno alla trama. Volevo creare un personaggio sboccato, che in qualche modo scandalizzasse per linguaggio e condotta. Il dialetto romano è l’unico che conosco abbastanza bene, a parte quello del mio paese, quindi l’ho usato per comodità e anche perché l’irriverenza romana secondo me rende molto comici certi passaggi.

Nelle note al termine del volume hai detto che nell’eroina della tua storia c’è molto di te, del tuo inconscio.

Sì, ho riversato nel personaggio parte del mio carattere, soprattutto di quando ero ragazzo: il modo di scherzare, le parolacce e tutto il resto. In ambito confidenziale, con gli amici stretti, ho ancora quel tipo di approccio. C’è invece l’altra metà di me che è molto educata e timida, quasi impacciata. Insomma, una specie di dottor Jekyll e mister Hyde. Però sto migliorando: sono alla ricerca di un equilibrio tra le due personalità e provo a bestemmiare solo quando è strettamente necessario. Quando scrivo i dialoghi di Salomè, in un certo modo faccio dire e fare a lei quello che spesso vorrei dire e fare io: insomma disegno fumetti anche a scopo terapeutico, per dar sfogo a quello che non posso fare nella vita reale. C’è chi ha detto che Salomè dà l’impressione di essere un personaggio femminile scritto da un uomo, ci sono invece anche molte ragazze che si rivedono in lei, o altre che la stimano, forse perché ha il coraggio di essere, nel bene e nel male, autentica, senza filtri.

SalomèUn altro aspetto molto interessante del libro è la perfetta scelta cromatica, indispensabile per rendere la giusta atmosfera dark alla storia. Come si è svolto il lavoro per quanto riguarda quindi la fase tecnica e grafica? Lavori direttamente in digitale?

Lavoro in digitale per una questione di velocità. Gli strumenti che uso su Procreate sono volti a replicare il più possibile l’effetto china/pennello. Per quanto riguarda i colori stesso discorso: in digitale ho la possibilità di sperimentare in modo velocissimo tonalità e altri procedimenti che nel modo tradizionale mi prenderebbero un sacco di tempo. Con la colorazione vado molto di pancia, mi lascio guidare dall’istinto. Qualche volta mi capita anche di correggere e cambiare completamente direzione. Insomma, quando non hai una strada ben marcata da seguire, il digitale ti permette di provare molte possibilità in breve tempo.

Sappiamo che Salomè avrà un seguito, quindi immagino che tu stia lavorando al secondo volume. Cosa puoi anticipare dei tuoi prossimi lavori?

Esatto, sto lavorando al secondo volume che sarà il seguito e la conclusione della storia. Il sottotitolo provvisorio è Lo spirito e il corpo. Racconterà del viaggio che farà Salomè per cercare giustizia rincorrendo la speranza di poter tornare a casa. Incontrerà nuovi e vecchi personaggi e la storia avrà tinte un pochino più dark fantasy. Oltre a Salomè, sto lavorando a un nuovo fumetto che avrà due protagonisti, ex fidanzati, alle prese con le inquietanti vicende legate a un misterioso paesino medievale arroccato su una montagna. In aggiunta a questi progetti personali, porto avanti delle piccole collaborazioni con alcuni collettivi come Acid free, Cappuccino ExPress e Blackboard.

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Quasi nessuno ha riso ad alta voce, il nuovo fumetto di Pastoraccia https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/quasi-nessuno-ha-riso-ad-alta-voce-il-nuovo-fumetto-di-pastoraccia/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/quasi-nessuno-ha-riso-ad-alta-voce-il-nuovo-fumetto-di-pastoraccia/#respond Sun, 12 Feb 2023 18:05:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18179 Grandi spazi aperti e silenziosi o minuscoli oggetti dettagliati: sono le due estremità fra le quali si muove Quasi nessuno ha riso ad alta voce, disegnato su carta con chine e pennarelli acrilici e dove “i neri sono tutti analogici”. Stefano, l’apatico protagonista del fumetto di Alessandro Pastore, in arte Pastoraccia, scopre di avere una […]

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Grandi spazi aperti e silenziosi o minuscoli oggetti dettagliati: sono le due estremità fra le quali si muove Quasi nessuno ha riso ad alta voce, disegnato su carta con chine e pennarelli acrilici e dove “i neri sono tutti analogici”.

Stefano, l’apatico protagonista del fumetto di Alessandro Pastore, in arte Pastoraccia, scopre di avere una sorella il giorno in cui i carabinieri bussano alla porta avvisandolo della sua morte. Da qui, come una fitta al petto nell’ennesima monotona giornata, si innesta la vicenda: un crescendo in cui, come ci ha rivelato l’autore, pittura, cinema, fotografia e letteratura si mescolano in un sapiente gioco di citazioni e rimandi.

Com’è nata l’idea della storia e in che modo sei arrivato a un fumetto lungo e compiuto?

L’idea della storia si è sviluppata in modo “lento” a partire da quattro disegni che avevo fatto su un quaderno di appunti: un corpo nudo di donna sdraiato in riva all’acqua, una palude, il volto di un uomo e uno scorcio urbano. Da subito il mio sguardo si è rivolto verso quel corpo per capire chi fosse e cosa ci facesse lì. Nello stesso periodo mi sono imbattuto nelle immagini dei pittori del gruppo del Novecento italiano e nella Nuova Oggettività tedesca, che hanno dato vita in me a un’atmosfera e una cifra emotiva attorno a cui volevo ragionare. Non ero ancora arrivato a pensare all’intero sviluppo della storia e ho iniziato a scrivere, non in forma sceneggiata, ma come se fosse un romanzo breve. Ci ho messo un anno abbondante per arrivare a una prima chiusura della storia scritta e a un inizio di fumetto disegnato. Il processo, fino alla fine, non è mai stato lineare ma costellato di prove e cambiamenti.

Quasi nessuno ha riso ad alta voceMi ha colpito molto il contrasto apparente nelle tavole fra grandi silenzi sospesi e abbondanza di dettagli e piccoli oggetti – l’arredamento degli ambienti, le automobili o le architetture. Come si è svolto il processo di documentazione del libro anche a livello tecnico?

L’intera storia è disegnata su carta con chine e pennarelli acrilici. I neri sono tutti analogici. In una seconda fase ho aggiunto un effetto noise e i grigi digitalmente. L’effetto noise non è un semplice retino, per me ha un vero e proprio significato sul piano visivo: mi è servito per creare quella patina polverosa e vissuta, retrò, a cui volevo arrivare. Un po’ come in alcuni film o fotografie in bianco e nero che non sono perfettamente nitidi e si percepisce la grana della pellicola. La scelta di ampi spazi di sospensione è un rimando proprio a quell’atmosfera a cui mi riferivo sopra, che è una caratteristica tipica di alcuni romanzi dei primi del Novecento che fanno capo al genere del Realismo magico e si ricollegano alle fotografie di Luigi Ghirri o Guido Guidi, e allo sguardo narrativo di Gianni Celati. Gli oggetti piccoli sono arrivati a controbilanciare la dimensione spaziale aperta. Entrambi i poli, spazi aperti o dettagli, descrivono qualcosa che i personaggi non mostrano in modo trasparente. La documentazione è stata continua, sia per l’apparato visivo che per la parte narrativa. Passavo da documentazioni online, a video e film, pellicole, foto nei mercatini delle pulci, libri, cataloghi, conversazioni, corsi. Uno su tutti, un ciclo di lezioni sulla letteratura femminile a cura di Antonio Faeti del 2018 intitolato Il pigiama del moralista. Lì, tra le tante autrici, ho scoperto Grazia Deledda.

Quasi nessuno ha riso ad alta voceLa storia è pregna di riferimenti visivi espliciti e anche distanti fra loro – cinema, pittura, fumetto, fotografia. Tutti però rendono bene il tono dell’intera vicenda. Come ti sei avvicinato a queste fonti e perché le hai scelte?

Nel 2016 visitai una mostra a Forlì intitolata Piero della Francesca. Indagine su un mito: il percorso espositivo prevedeva un parallelismo tra Piero della Francesca e la pittura italiana del movimento del Novecento. Tra i vari pittori esposti c’erano Antonio Donghi, de Chirico, Giorgio Morandi, Achille Funi, Felice Casorati e Mario Sironi. Da quel momento ho iniziato a ricercarli e ad approfondirli fino a scoprire Cagnaccio di San Pietro, una vera rivelazione. Luigi Ghirri l’ho scoperto durante gli studi accademici dieci anni fa, in particolare le sue collaborazioni con Gianni Celati, in cui sempre più mi sono ritrovato. Tutti questi nomi non sono solo un elenco, piuttosto una mappa: quando cercavo risposte ripartivo da dove ero arrivato. Un libro portava a un altro libro, un’immagine portava a un’altra immagine. Ad esempio, individuata l’ambientazione lagunare, a un certo punto cercavo un modo per inquadrare e mostrare il paesaggio. I documentari di Gianni Celati mi hanno condotto a un film: La Isla Minima di Alberto Rodríguez, che mi ha mostrato come esplorare uno spazio dall’alto in piani sequenza con inquadrature dall’alto, zenitali, con texture e movimenti inediti. Così il processo si è arricchito fino a creare una mappa cartografica con coordinate precise. Oltre a tutto questo apparato orientativo, a fianco sulla scrivania ho tenuto tre libri a fumetti che per me hanno fatto da “bibbie”: La notte dell’alligatore di Jacques De Loustal, L’attrazione di Lucas Harari e Micky Micky di Mezzo Pirus.

Quanto di questo approccio anche “geografico” alla storia che hai scritto deriva dalla tua provenienza e formazione bolognese o più in generale emiliana?

C’è molto del mio vissuto e del mio andare in giro per la regione. Fin da bambino sia io che mio fratello giocavamo a calcio. Mi ritrovai a girare prima nella provincia bolognese poi per tutta l’Emilia-Romagna. Ricordo bene ciò che vedevo dal finestrino dell’auto, principalmente erano paesaggi piatti, brulli e infiniti. Poi si transitava da paesi piccoli, alcuni “addormentati”, altri vivacissimi. E questo modo di guardare “fuori dal finestrino” crescendo è continuato, con i treni, a piedi… Poi ho iniziato ad aggiungere al transito anche le fermate e il guardare. Non ho mai avuto mezze vie nell’atto di osservare spazi e oggetti: o ero distante così da avere una visione d’insieme, oppure mi avvicinavo tantissimo fino a vedere dei dettagli, delle texture.

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Ambra Garlaschelli: «Tanto più forte è una luce, tanto più mostruosa è l’ombra che proietta» https://www.fabriqueducinema.it/focus/ambra-garlaschelli-tanto-piu-forte-e-una-luce-tanto-piu-mostruosa-e-lombra-che-proietta/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/ambra-garlaschelli-tanto-piu-forte-e-una-luce-tanto-piu-mostruosa-e-lombra-che-proietta/#respond Tue, 19 Jul 2022 07:16:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17402 «Tanto più una luce è forte, tanto più netta e mostruosa è l’ombra che proietta». Con questa massima Ambra Garlaschelli sintetizza il suo segno grafico: luci e ombre intense, accostate fra loro a creare immagini di grande impatto. L’illustratrice e fumettista lombarda ribadisce però che è molto aperta alle sperimentazioni, mentre alcuni suoi progetti, come […]

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«Tanto più una luce è forte, tanto più netta e mostruosa è l’ombra che proietta». Con questa massima Ambra Garlaschelli sintetizza il suo segno grafico: luci e ombre intense, accostate fra loro a creare immagini di grande impatto. L’illustratrice e fumettista lombarda ribadisce però che è molto aperta alle sperimentazioni, mentre alcuni suoi progetti, come ci ha raccontato, mostrano un consapevole impegno femminista.

Partiamo dalla bellissima illustrazione per la copertina del Dylan Dog Color Fest. Com’è nata la collaborazione con Bonelli e quale è stato il tuo approccio a un personaggio iconico?

La collaborazione per questa cover è nata in realtà un po’ per caso. Credo che Roberto Recchioni [il curatore della testata, ndr] mi abbia scovata per via di un post di Michele Garofoli sul sito Lo Spazio Bianco. Dopo qualche mese ho realizzato una commission proprio su Dylan Dog che deve essere piaciuta, perché subito dopo Roberto mi ha contattata per propormi di realizzare una cover per il Color Fest. Caso vuole che dovessero uscire anche le storie di Spugna, Jacopo Starace e Officina Infernale, che conosco molto bene, per cui realizzare la cover del loro numero è stata proprio una coincidenza fortunata. Roberto mi aveva chiesto di proporre un’immagine che raccontasse l’immaginario legato all’Indagatore dell’incubo, per cui ho cercato di condensare il maggior numero di informazioni creando diversi livelli di lettura. La prima cosa che volevo risultasse evidente era Dylan che con un gesto della mano ci invita al silenzio, collegandosi ai segreti e al mistero che li circonda. Dopodiché ho inserito una serie di sotto-tracce all’interno del personaggio, visibili solo se si osserva meglio, come un teschio sovrapposto alla faccia di Dylan, mani mostruose che lo afferrano e due scheletri che gli sussurrano all’orecchio.

Immagino che le atmosfere oscure di Dylan Dog si sposino bene con il tuo immaginario grafico, fatto di neri profondi e lampi luminosi. È così?

Sì, direi proprio che a livello di immaginario le atmosfere cupe sono indubbiamente nelle mie corde. Preferisco comunque non etichettarmi in una categoria troppo specifica perché mi piace variare e sperimentare cose nuove. Sono molto attratta dalle note scure, dai movimenti del nero, dalle sue sovrapposizioni e dai contrasti che si creano ed è così che vengo percepita. Ma non significa che abbia un tipo di personalità cupa, anzi!

Qual è stata la tua formazione e quali i tuoi riferimenti nelle arti visive, dal cinema alla letteratura?

Dopo la maturità mi sono iscritta allo IED di Milano, sezione Illustrazione e Arti visive. Durante il corso triennale ero ancora molto incerta sulla scelta e anche dopo il diploma ho fatto altro, principalmente grafica; all’illustrazione e alle arti visive mi sono riavvicinata abbastanza di recente. Del nero profondo di cui parli mi sono re-innamorata con l’inizio del mio lavoro nei laboratori di incisione, osservando gli inchiostri calcografici, probabilmente, ma ciò non toglie che mi sia sempre riempita gli occhi di immagini di ogni tipo. Potrei darti una lista di nomi e riferimenti ma sarebbe lunghissima. Indubbiamente le atmosfere cupe e desaturate, le luci nette o soffuse, i tratti nervosi mi hanno sempre attratta, ma nella categoria del visivo rientrano fumetti, illustrazioni, fotografia, grafica, cinema, persino la musica e i testi senza immagini lasciano comunque una sorta di immagine interna. Shakera poi il tutto: il risultato sarà contaminazione pura che però mantiene un mood di fondo e avrai la mia lista di influenze.

Che rapporto hai invece con il fumetto, sia da lettrice che da autrice?

Io e il fumetto abbiamo un flirt da anni, anche se nasco principalmente come illustratrice e grafica. Col fumetto a livello autoriale sto amoreggiando a tempo perso, ho un progetto personale in cantiere che porto avanti quando riesco e che mi sono ripromessa di finire in tempi utili. Per il resto leggo fumetti da quando ho imparato a leggere, anche se il vero amore restano i libri. Certo, il fumetto ha una sintesi testo/immagine che lo rende potentissimo rispetto a un libro, ma entrambi fanno parte di ciò che sono diventata a livello personale e professionale. Attualmente sto attraversando l’incomprensibile (a me stessa in primis) “fase cosmologica”: in pratica leggo solo saggi sulla fisica quantistica (prima o poi la capirò!) o sulle origini dell’universo, boh!

In Favola vera, la storia che hai disegnato per l’antologia Artiste di Flavia Luglioli, ti sei occupata della grande pittrice manierista Lavinia Fontana. Come hai lavorato a questo progetto su una figura storica?

La storia che mi è stata affidata da Flavia riguardava il primo incontro tra la grande pittrice Lavinia Fontana e Antonieta Gonzales, una bambina di dieci anni affetta da ipertricosi, una malattia caratterizzata da un eccesso di peluria su tutto il corpo ereditata dal padre. Quest’ultimo fu donato al re di Francia come animale esotico, venne educato a corte e infine si sposò con una nobildonna da cui ebbe due figli, entrambi con la stessa malattia genetica. Si pensa che la storia della sua famiglia abbia ispirato la favola de La bella e la bestia.  Nel mio racconto, volutamente muto, volevo dare risalto alla dolcezza e alla timidezza di Antonieta, che ho immaginato a disagio per il fatto di dover essere ritratta proprio per la sua diversità, mentre volevo che Lavinia risultasse molto materna, pratica e aperta (fu madre di ben 11 figli ed era incinta al momento dell’incontro con la bambina), cosa che, unita alla complicità dei due figli e del cane che la accompagnano nella storia, alla fine convincerà Antonieta a uscire dal suo nascondiglio per giocare, permettendo la realizzazione del famoso ritratto.

Il progetto di questo libro mira anche ad approfondire il ruolo e il lavoro di molte artiste, a volte poco note al grande pubblico. Una sensibilità e un’esigenza, il racconto delle donne, che in un senso diverso – ma per certi aspetti contiguo – ritorna anche nel romanzo La porta del cielo di Ana Llurba, che hai illustrato per Eris. Cosa ci puoi dire delle tue esperienze professionali in questo senso?

Concordo, sia per Favola vera che per La porta del cielo di Ana Llurba il tema femminile è molto forte, così come nel libro che ho illustrato di recente per Sonzogno, Galatea, sul testo di Madeline Miller. Soprattutto gli ultimi due racconti citati sono legati a personaggi femminili che cercano di scappare o evadere da un rapporto tossico, violento e dominante legato a figure maschili. Ultimamente ho realizzato molte illustrazioni legate al tema femminista. Credo che sia un momento molto forte quello che stiamo vivendo, in cui la voce delle donne, un po’ in tutti i settori compreso quello artistico, si sta facendo sentire parecchio con lo scopo di dare più fastidio possibile proprio perché è evidente che esiste ancora una grande disparità tra i generi, sia in ambito privato che professionale. La strada da fare è ancora lunga e credo che qualsiasi voce in più aggiunta al coro sia utile.

L’illustrazione per Dylan Dog probabilmente ha fatto conoscere il tuo segno anche in ambiti nuovi. Cosa puoi dirci dei tuoi ultimi progetti?

Effettivamente ci sono un po’ di progetti in chiusura e altri in cantiere: un piccolo progetto di animazione, Premise, sul tema del desiderio e della violenza, creato insieme all’amico animatore Roberto Grasso; poi un libro illustrato insieme a un amico scrittore e animalista, Francesco Cortonesi, sulla storia di Mocha Dick, la balena che ispirò Moby Dick, realmente esistita; c’è poi un video musicale per il gruppo Pray For the Day, fatto di inchiostri in movimento e animazioni a segno nervoso; infine il famoso fumetto personale a cui accennavo prima, che si intitola Rain Dogs, come la canzone di Tom Waits. Insomma, non ci si annoia…

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VALO e le strambe creature del pianeta Amebò https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/valo-il-riscatto-dei-giochi-a-molla/ Fri, 21 Jan 2022 07:00:56 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16679 Fumettista e illustratrice molisana, Valentina Patete, in arte VALO, ha esordito nell’editoria a fumetti con il rocambolesco e coloratissimo Cronache di Amebò. Merito anche di Eris, la casa editrice torinese che le ha dato fiducia dopo l’incontro per autori e autrici emergenti al festival Arf! di Roma. L’abbiamo intervistata per sapere di più sulla nascita […]

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Fumettista e illustratrice molisana, Valentina Patete, in arte VALO, ha esordito nell’editoria a fumetti con il rocambolesco e coloratissimo Cronache di Amebò. Merito anche di Eris, la casa editrice torinese che le ha dato fiducia dopo l’incontro per autori e autrici emergenti al festival Arf! di Roma. L’abbiamo intervistata per sapere di più sulla nascita del libro e le sue molteplici influenze. 

Cronache di Amebò è un fumetto esplosivo, un vero caleidoscopio di situazioni e di personaggi. Ci racconti come è nata la storia?

Da un Inktober [una sfida artistica che si svolge nel mese di ottobre e prevede di pubblicare online un disegno al giorno, ndr] di tre anni fa. Decisi di realizzare una tavola per ogni parola e collegarle tutte insieme creando una sorta di storia. L’esperimento mi piacque perché rendeva il prodotto molto fresco e un po’ fuori dagli schemi di una trama prestabilita. Così ho preso quelle prime tavole e ho continuato per questa strada della creazione istantanea della storia.

Ambientazioni, oggetti e tutti i personaggi disegnati – dai protagonisti alle più rapide comparse sullo sfondo delle vignette – dimostrano la tua fantasia nell’assemblare liberamente figure e caratteri fra loro. C’è stato uno studio accurato, una sorta di character design per ognuno di loro, o hai utilizzato anche l’improvvisazione?

Sono molto più brava nell’improvvisazione che nello studio accurato, forse perché nella vita sono impaziente e anche un po’ pigra, quindi dedico poco tempo alle singole cose (anche se il fumetto l’ho finito dopo tre anni…), e questo non so se sia positivo o negativo. Comunque di base c’è uno studio dei personaggi principali, del pianeta, e di alcuni oggetti più volte comparsi. Per i personaggi secondari invece creavo al momento.

Senza svelare troppo la storia narrata, direi che Paperolla  – passiva e buffa prima, poi vera supereroina – è una delle figure chiave dell’intera vicenda. Com’è nato questo personaggio?

Mi sono sempre piaciuti i parco giochi vecchio stile, soprattutto i giochi a molla, perché hanno quasi tutti questa espressione passiva che fa ridere se si pensa che sono dei giochi per bambini. E più li guardi più senti un senso di impotenza e che potrebbero esplodere da un momento all’altro: una staticità solo apparente. Paperolla è così: un personaggio apparentemente morto, privo di parola e motricità, trattato male continuamente, che ad un certo punto ha la possibilità di riscattare se stessa sfogando tutta la sua rabbia. Anche se non la definirei tanto supereroina. 

VALOFin dalle prime tavole il libro, con la struttura a vignette e il testo in rima baciata, mostra riferimenti al fumetto italiano delle origini, penso a Quadratino o al Signor Bonaventura, per esempio. Man mano invece prende corpo un mondo fantascientifico ultracolorato che forse rimanda a Carpinteri e ai maestri del gruppo Valvoline. Condividi questi rimandi? Quali sono state le tue letture durante la lavorazione del libro?

Con il “Corriere dei piccoli” ci sei andato molto vicino ma per i motivi sbagliati. Ho guardato molto Antonio Rubino per alcune scelte stilistiche; ad esempio la nona tavola di Zibaude e l’amante stancante l’ho strutturata guardando illustrazioni come “Gli spettacoli pirotecnici sul Piave” o “La Russia Bolscevica vista a volo d’uccello”. Il rimando a Carpinteri e ai grandi nomi del fumetto italiano è giustissimo, infatti ho iniziato ad appassionarmi al fumetto proprio grazie ai loro lavori. In più, letture come Safary Honemoon di Jessie Jacobs, Hip Hop Family Tree di Ed Piskor, i fumetti di Shintaro Kago e il Taxista di Marti mi hanno aiutata molto.

L’incontro con la casa editrice Eris è avvenuto nel corso del festival del fumetto romano Arf. Ci racconti come è andata? Avevi già un’idea ben chiara di cosa avresti realizzato?

Io non ho mai un’idea ben chiara su niente. Praticamente ho partecipato al bando “Job Arf” che dà la possibilità alle persone di proporre i propri progetti alle case editrici. Portai quello che era prima Cronache di Amebò, un albo di dieci pagine con Zibaude e l’amante stancante ed era molto diverso qualche anno fa, non avevo neanche il soggetto generale della storia, ma non fu un problema, fortunatamente, perché a Eris piacque (credo) come agivo sulle tavole, come le strutturavo e come cercavo di trovare una soluzione alternativa nelle azioni tra i personaggi. 

Facciamo un rapido passo indietro. Quanto della tua formazione artistica credi ti sia servito per realizzare il tuo fumetto d’esordio? Ci sono nomi o esperienze che ritieni ti abbiamo dato una chiave o anche solo un consiglio per lavorare autonomamente?

La scuola Comix a Napoli – lo dico sempre – l’ho vissuta male per un periodo, però mi ha dato anche molto, grazie ad alcuni professori che effettivamente mi hanno insegnato bene il mestiere, come Giuseppe Boccia, Andrea Scoppetta, Andrea Chella, Gianluca Acciarino e soprattutto Pako, con cui sono ancora in contatto e che mi ha sempre supportata e spinta a non fermarmi.

Oltre al lavoro nel fumetto realizzi anche illustrazioni. Come gestisci le immagini singole, slegate dalla composizione della tavola a fumetti? Fra le tecniche, ad esempio, prediligi sempre la colorazione digitale?

Ultimamente sì, anche se mi piace sperimentare, infatti a volte dipingo in acrilico oppure uso pastelli e pennarelli. Sull’illustrazione ci ragiono di più rispetto a un fumetto, perché non mi viene facile concentrare un singolo tema in un’unica immagine. Mentre credo di cavarmela abbastanza bene nella composizione del disegno.

Stai lavorando a un nuovo libro a fumetti? Cosa puoi anticiparci?

Ancora no. Vorrei iniziare tanti progetti che ho in testa ma non so a quale dare la priorità. Sto cercando di darmi un’organizzazione giornaliera per non impazzire o, peggio, per non finire a non fare nulla.

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Strappare lungo i bordi: Zerocalcare alle prese con il senso (ironico) della vita https://www.fabriqueducinema.it/serie/strappare-lungo-i-bordi-zerocalcare-alle-prese-con-il-senso-ironico-della-vita/ Mon, 15 Nov 2021 08:32:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16383 E se le persone fossero costituite da un insieme di fogli impilati, di quei fogli di quando si stava alle elementari e si doveva ritagliare seguendo lungo la linea, lungo i bordi, senza sbagliare, perché poi non si poteva rimediare allo strappo? Se tutti gli altri riuscissero a seguire bene quelle istruzioni, mentre noi invece […]

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E se le persone fossero costituite da un insieme di fogli impilati, di quei fogli di quando si stava alle elementari e si doveva ritagliare seguendo lungo la linea, lungo i bordi, senza sbagliare, perché poi non si poteva rimediare allo strappo? Se tutti gli altri riuscissero a seguire bene quelle istruzioni, mentre noi invece vagassimo senza sapere cosa vogliamo nella vita? Ragionandoci, ci rendiamo conto che alla fine «è dal tempo degli antichi Greci che l’uomo se domanda se è meglio conoscere l’ignoto col rischio che sia un accollo o rimane’ nell’ignoranza, dove però nessuno te caga il cazzo».

Questa è la premessa della nuova miniserie disponibile dal 17 novembre su Netflix: Strappare lungo i bordi, ideata da Michele Rech, alias Zerocalcare (qui, a pag 10, una nostra intervista agli esordi). Prodotta da Movimenti Production in collaborazione con BAO Publishing, questa miniserie italiana (dalla forte risonanza internazionale) nasce dopo il successo raggiunto dall’artista romano durante i lockdown con i suoi corti trasmessi a Propaganda Live Rebibbia Quarantine. Così, collaborando nuovamente con Valerio Mastandrea (come in La profezia dell’armadillo, presentato nella sezione Orizzonti alla 75esima Mostra internazionale d’arte cinematografica del cinema di Venezia), Zerocalcare ha incorporato lo stile delle pillole (ogni puntata dura tra i 15 e i 20 minuti) in una struttura più compatta, costruendo un mosaico ricco e complesso al di fuori delle Mura romane.

Se infatti le opere di Michele Rech hanno da sempre avuto come sfondo la cultura capitolina (basti anche pensare al suo minicorto su Instagram, sul perché il carciofo fosse il male, o al suo accento che non nasconde le flessioni del romanaccio), i temi che decide di trattare e il modo in cui lo fa non possono non ritrovare un riscontro emotivo su un pubblico molto più ampio, com’è ancora più evidente nella miniserie.

Strappare lungo i bordi
Un’immagine da “Strappare lungo i bordi”.

In un racconto costellato di flashback e aneddoti che spaziano dalla sua infanzia, a lezioni di storia e filosofia, fino ai problemi di tutti i giorni, Zerocalcare tratteggia un percorso fatto di pochissime certezze, ma che proprio grazie a questo lascia un forte impatto nello spettatore. Lo stile è sempre quello, il suo marchio di fabbrica, la sua capacità di costruire un pensiero acuto e profondo, per poi catarticamente ironizzare su ciò che ha appena detto, decostruendolo con citazioni di ogni tipo.

Seguendo la caratteristica voce a macchinetta del fumettista, in ogni puntata lo spettatore viene catapultato in un pastiche di eventi, ricordi e considerazioni, che, oltre a non marcare nettamente la distinzione tra personale e universale (come lo spezzone sulla spinosa questione del “visualizzato” o dell’”online” su Whatsapp), si incastrano, come dei tasselli, con elementi della cultura mondiale.

Si parte da citazioni più implicite, come le strade di Roma di notte che ricordano La notte stellata di Van Gogh (non a caso la scena successiva, ambientata in un museo con L’urlo di Munch, illustra in décadrage proprio il dipinto del pittore olandese), o Le follie dell’Imperatore, quando Zerocalcare manda avanti e indietro l’episodio, per spiegare le parole del suo amico Secco al pubblico, o Tim Burton, di cui riprende lo stile anche visivo nell’illustrare il suo primo fumetto; per arrivare a quelle più esplicite, dalla Seconda Guerra Mondiale, all’abisso di Nietzsche (citazione mainstream sui social), ad Achille e la tartaruga che, tra black humor e dura consapevolezza, servono ad abbozzare il discorso della linea tratteggiata che dà nome e sostanza all’intera miniserie.

Strappare lungo i bordi è questo che dona: tantissimi momenti di distrazione e battute (come la legge del maschio contemporaneo, che con il femminismo non può più neanche lamentarsi del Vietnam a cui è costretto quando deve andare in un bagno pubblico), a cui seguono repentine strette al cuore. E tu, spettatore, vieni immerso in una tempesta, in un turbinio di ironia e consapevolezza in cui sembra che il fumettista romano stia parlando proprio di te e inizi a osservare meglio quel foglio strappato male, cadendo nel nero.

Numerosi sono i “neri” presenti nelle pillole di questa miniserie. Neri metaforici e neri visivi. In uno di questi ultimi echeggiano le parole della canzone Non abbiam bisogno di parole di Ron: «Non abbiam bisogno di parole per spiegare quello che è nascosto in fondo al nostro cuore». E insomma, alla fine, se bisogna descrivere l’esperienza (perché parlare di visione è troppo limitato per un prodotto del genere) di Strappare lungo i bordi basterebbe ciò, basterebbe sapere che è quel qualcosa che ci permette di spiegare quell’area buia dentro di noi. La miniserie di Zerocalcare è sicuramente qualcosa da non perdere, capace di farti ridere, riflettere e, infine, farti sentire meno solo e incasinato, dandoti risposte senza accennarne nemmeno una.

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Lee Miller, icona del ‘900, secondo la matita di Eleonora Antonioni https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/lee-miller-trame-libere/ Fri, 05 Feb 2021 09:44:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15171 Premiata come “Miglior autrice unica italiana” all’ultimo Treviso Comic Book Festival, Eleonora Antonioni, romana di nascita ma da anni residente a Torino, ha raccontato nel suo ultimo libro a fumetti, Trame libere (pubblicato da Sinnos), la vita complessa e affascinante di Lee Miller.  Modella prima, poi fotoreporter nella Seconda Guerra Mondiale e amica di alcuni […]

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Premiata come “Miglior autrice unica italiana” all’ultimo Treviso Comic Book Festival, Eleonora Antonioni, romana di nascita ma da anni residente a Torino, ha raccontato nel suo ultimo libro a fumetti, Trame libere (pubblicato da Sinnos), la vita complessa e affascinante di Lee Miller.

 Modella prima, poi fotoreporter nella Seconda Guerra Mondiale e amica di alcuni dei maggiori artisti delle avanguardie, Lee Miller – ed Eleonora con lei, nell’attenta fase di documentazione per il libro – ha attraversato alcuni snodi centrali della storia del Novecento.  

Trame libere è il tuo primo fumetto da autrice unica. Come sei arrivata a Lee Miller e come hai gestito il doppio binario della narrazione e del lavoro sui disegni?

La scelta di fare una biografia di Lee Miller è partita in parte da me e in parte da Sinnos, la mia casa editrice. Inizialmente conoscevo e amavo Lee quasi esclusivamente per il suo percorso con Man Ray, brevissimo ma molto prolifico. Quando mi sono ritrovata di fronte alla sua biografia intera ho avuto un momento di smarrimento. Ogni dettaglio sembrava irrinunciabile, ma allo stesso tempo troppo complesso da far rientrare in un libro di 160 pagine. Parte della complessità della vita di Lee sta nel fatto che ogni cosa che ha fatto sembra appartenere alla vita di una persona diversa. Ci ho riflettuto molto e alla fine ho deciso che questo doveva essere evidenziato e non nascosto. Ho dato a ogni capitolo un’identità grafica diversa, che fosse funzionale al contenuto del racconto. Al centro di tutto c’è lei, Lee Miller, che, pur crescendo, rimane solida e indipendente.

La biografia di Lee Miller incrocia le vite di molti artisti – da Man Ray a Picasso e a Paul Éluard – ma anche grandi eventi storici come la Seconda Guerra Mondiale. Raccontaci il tuo lavoro di ricerca.

La ricerca è stata molto complessa, però è anche uno step preparatorio del mio lavoro che amo. Ho letto tutto quello che potevo trovare anche lontanamente collegato al tema. Per fare un esempio: il libro si apre con una scena nello studio della pittrice Neysa McMein, che, secondo alcune fonti, sarebbe la persona che ha consigliato a Elizabeth Miller il nome d’arte Lee. Per arrivare a disegnare quelle poche pagine ho cercato informazioni su tutte le persone che gravitavano intorno al suo studio. Niente di tutta questa ricerca è finito in quella scena o nel libro, ma è stato importante per farmi immergere in quel clima. Sicuramente la parte che temevo di più di affrontare era quella della guerra, mi sembrava davvero troppo più grande di me. Per fortuna sono stata guidata dagli spunti che la stessa Lee Miller scriveva ad Audrey Whiters, la sua editor di British Vogue (sono raccolti in un libro curato dal figlio di Lee, Anthony Penrose) che mi hanno rivelato tutta la sua umanità, fornendomi la chiave su come gestire il capitolo.

Lee Miller nel fumetto Trame libere
Lee Miller aveva cominciato la sua carriera come modella.

Uno dei punti di forza del libro, a mio parere, è la composizione delle tavole, da cui si evince un profondo studio dei volumi e delle forme, accanto alle precise citazioni di pubblicità, abiti e riviste d’epoca. Un’attenzione al contesto, questa, che mi ha ricordato la Spagna della Guerra Civile di Vittorio Giardino in No Pasaran. Quali sono state le tue fonti?

Ti ringrazio tantissimo per il complimento, mi diverto molto nella progettazione delle tavole! La mia guida principale per diffidare dai tag sbagliati delle fonti sul web sono i volumi di pubblicità della Taschen (tutta la serie All American Ads del Novecento). Adoro inserire le pubblicità nei miei libri, l’ho fatto anche in Non bisogna dare attenzioni alle bambine che urlano (ambientato negli anni ’90), perché credo che siano una testimonianza importante delle varie epoche. In Lee Miller, in particolare, il primo capitolo riguarda la sua infanzia, fino alla fine della sua carriera da modella. Mi piaceva l’idea che il capitolo riguardante una parte di vita ancora in divenire rispecchiasse quello che la società si aspettava da una giovane donna in quegli anni. Quindi ho cercato di dare al capitolo l’aspetto di una rivista per signore con elementi decorativi liberty, geometrie e simmetrie a incorniciare le vignette. Mi piaceva l’idea che le pagine/magazine fossero la società e che Lee, già da ragazzina sentisse quella gabbia (di fumetto) stretta.

Lee Miller è stata una donna libera, dal carattere forte, pur con le sue debolezze. In passato, penso al tuo fumetto precedente – appunto Non bisogna dare attenzioni alle bambine che urlano, con Francesca Ruggiero, pubblicato da Eris – hai già mostrato interesse per un delicato passaggio di crescita in un gruppo di ragazze. C’è un filo conduttore rintracciabile nel tuo lavoro?

Sicuramente sì. Alla base c’è l’amore per i racconti al femminile: mi piace raccontare storie di ragazze e di donne. Mentre mi occupavo dell’adolescenza di Lee Miller provavo le stesse sensazioni di quando lavoravo alle Bambine con Francesca. L’unica differenza è che le Bambine guardavano Buffy, ascoltavano Fatboy Slim e volevano essere come Britney Spears, Lee Miller leggeva Anita Loos e voleva essere come Zelda Fitzgerald! Alla base c’è la stessa umanità. Lee ha fatto cose enormi, ma prima di andare a Parigi a 22 anni non aveva idea di cosa avrebbe fatto nella vita, la stessa cosa succede oggi ai ragazzi contemporanei. Spesso io e Francesca Ruggiero ci domandiamo cosa sono diventate da grandi le protagoniste di Non bisogna dare attenzioni alle bambine che urlano, magari un giorno lo racconteremo.

 

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Nessun filtro: Bacon raccontato a fumetti da Cristina Portolano https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/nessun-filtro-bacon-raccontato-a-fumetti-da-cristina-portolano/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/nessun-filtro-bacon-raccontato-a-fumetti-da-cristina-portolano/#respond Tue, 14 Jan 2020 08:54:59 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13491 Una profonda consapevolezza espressiva e personale, rende Cristina Portolano una delle fumettiste e illustratrici più interessanti nel panorama italiano. Napoletana, classe 1986, ha da poco pubblicato con successo per Centauria una biografia a fumetti del pittore irlandese Francis Bacon (ancora fino al 23 febbraio la mostra su di lui, Lucien Freud e la cosiddetta Scuola […]

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Una profonda consapevolezza espressiva e personale, rende Cristina Portolano una delle fumettiste e illustratrici più interessanti nel panorama italiano.

Napoletana, classe 1986, ha da poco pubblicato con successo per Centauria una biografia a fumetti del pittore irlandese Francis Bacon (ancora fino al 23 febbraio la mostra su di lui, Lucien Freud e la cosiddetta Scuola di londra a Roma al Chiostro del Bramante), ma, come la sua bibliografia dimostra, non ha problemi a raccontare sulle pagine disegnate anche la parte più intima di sé stessa.

 Com’è nato l’interesse per Francis Bacon e qual è più in generale il tuo rapporto con l’arte contemporanea?

È nato in un viaggio che ho fatto a Dublino, un anno fa, dove ho visitato la ricostruzione del suo studio londinese alla Dublin City Gallery The Hugh Lane. Tornata in Italia ho “intercettato” l’interesse di Centauria nel commissionare una biographic novel su di lui. Il mio rapporto con l’arte contemporanea è buono ma discontinuo: mi affascinano tutti i movimenti nati durante i decenni del dopoguerra e ognuno ha qualche artista che mi ha lasciato qualcosa. Oltre Freud e Bacon, che ammiravo molto anche prima di fare il fumetto, mi piacciono Mario Sironi, Edward Hopper, ma anche Claude Cahun, César Manrique. Credo che chi fa fumetti debba nutrirsi di altre immagini, di altri disegni, performance, installazioni e di tutto ciò che alimenta un pensiero critico. Noi siamo soltanto il prodotto di tutte le opere del passato e non possiamo fare a meno di accettare questa condizione. Essere la somma di ciò che abbiamo visto e vissuto.

Quali sono invece i tuoi riferimenti nel mondo del fumetto?

Tantissimi. Sono cresciuta negli anni ’90 con i Manga giapponesi di autori come Ai Yazawa, Naoko Takeuchi, Akira Toriyama, Clamp, Masakazu Katsura. Poi fumetto dopo fumetto sono inciampata nella rivista Kappa magazine che mi ha dirottata su Mondo Naif e da lì mi si è aperto un mondo di autori come Vanna Vinci, Davide Toffolo, Otto Gabos, Andrea Accardi, Marjane Satrapi. A Bologna, dove mi sono trasferita per frequentare l’Accademia di Belle Arti, ho conosciuto altri illustratori del calibro di Igort, Gipi, Lorenzo Mattotti, Gabriella Giandelli, Daniel Clowes, Phoebe Gloeckner, Rutu Modan, David.B e negli ultimi anni ho scoperto il Gekiga con Yoshihiro Tatsumi, Shin’ichi Abe, Tsuge, ripubblicati in Italia da Canicola.

Con Bacon ti sei occupata della biografia di un personaggio celebre, ma il tuo lavoro dimostra anche una grande capacità nel raccontare te stessa, da Quasi signorina a Non so chi sei. Quali sono state le difficoltà nell’affrontare il racconto autobiografico?

A vent’anni mi hanno segnata molto autori autobiografici nordamericani come Seth, Joe Matt e Chester Brown, quindi per me è naturale raccontarmi. Anche quando si tratta delle vite degli altri c’è sempre un po’ di te, o almeno questo è lo spirito con cui affronto le biografie. Nel raccontare me stessa, invece, il procedimento è semplice ma complesso allo stesso tempo, poiché il materiale da selezionare è tanto e spesso la realizzazione è una sorta di terapia, di psicoanalisi. Le difficoltà che ho riscontrato, nell’autobiografia ma non solo, sono relazionali. Devi stare attento a non offendere nessuno se decidi di raccontarlo/rappresentarlo, e questo vale sia per i personaggi principali sia per le “comparse”. Poi spesso in pubblico ti ritrovi a spiegare che se per te non è un problema raccontare determinate cose della tua vita non deve esserlo per gli altri. Non avrei mai raccontato qualcosa che non volevo si sapesse. Sono consapevole dell’uso che faccio dei personaggi e delle conseguenze che questo può avere e me ne assumo ogni responsabilità.

Nel corso del tempo, oltre a un ampliamento dei contenuti, i tuoi libri sembrano essere mutati anche nell’aspetto grafico, in un percorso che mi sembra più legato all’essenzialità del segno e alle precise scelte cromatiche. Come è cambiato, se è cambiato, il tuo approccio al lavoro nel corso del tempo?

Ogni libro ha bisogno di un suo stile grafico specifico. Faccio molta ricerca prima e mi sforzo di trovare il giusto compromesso tra un segno e una colorazione veloci ma funzionali. Bisogna trovare anche uno stile che rimanda a una certa sensazione che è quella che vorresti emergesse dalla storia. L’approccio ovviamente è cresciuto insieme a me ed è cambiato nel tempo. Prima usavo matite, fogli e china (perché per i progetti e libri lunghi voglio sempre qualcosa di “tangibile”), mentre adesso mi ritrovo ad usare anche solo il digitale.

 La tua storia breve per Post pink. Antologia di fumetto femminista conferma il tuo interesse nel raccontare, senza censure né timori, tematiche di genere, sessualità, aspetti intimi ma senza dubbio universali. Pensi che da questo punto di vista ci sia una maggiore attenzione nel panorama editoriale del fumetto, sia negli autori che nei lettori?

Assolutamente sì. Sono molto contenta che siano nate altre voci che si sono distinte e sono riuscite ad emergere in questo senso. Che ci sia attenzione da parte dei lettori lo dimostra sicuramente il grande successo di due giovani fumettiste come Fumettibrutti e Zuzu: entrambe non hanno paura di mostrarsi, raccontarsi e rappresentare il sesso, i sentimenti, i corpi e tutte quelle cose che fino a qualche anno fa erano tabù. La mia paura è vengano percepite solo come fenomeni passeggeri e non voci autorevoli da cui, magari, imparare anche qualcosa. C’è qualche progetto interessante in questo senso (Post Pink ne è un esempio) ma sono sempre troppo pochi e isolati. C’è un problema di “percezione”: si ha troppa paura del giudizio degli altri e troppo poco coraggio per dire ciò che si vuole o trattare argomenti scomodi senza demonizzarli o offrire soluzioni facili. Mi piacerebbe un mondo dell’editoria a fumetti italiana con più autrici coraggiose e più editrici temerarie.

Da un po’ di tempo hai aperto un canale Youtube in cui parli del tuo lavoro e dài suggerimenti sull’illustrazione e il fumetto. La scelta di comparire in video non è scontata per un disegnatore, come è nata questa esigenza?

Il tutto è partito dall’esigenza – e qui ritorniamo all’arte contemporanea – di fare qualcosa di performativo. Mi piace il mio corpo, mi piace interagire con spazi e corpi diversi e sentivo che il disegno, per lasciare la mia testimonianza nel mondo, non bastava. Un giorno mi sono detta che avevo già tutto quello che mi serviva per raccontare agli altri le mie esperienze e dare consigli: una webcam e un canale Youtube! Per questo ho deciso di lasciare le briciole del mio sapere nel tubo e chissà che magari possano servire davvero a qualche aspirante autrice o autore. Ora questa strada mi ha aperto tante possibilità. Ho creato una vera sinergia tra reale e digitale e viceversa.

 

 

 

 

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Romina, il disegno nel sangue https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/romina-moranelli-il-disegno-nel-sangue/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/arts/romina-moranelli-il-disegno-nel-sangue/#respond Mon, 12 Oct 2015 13:52:09 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2055 Un’artista campana con il disegno nel sangue studia fisica all’università perché affascinata dalle leggi che regolano la materia nel nostro sistema solare, ma a ventitré anni lascia gli studi per celebrare la propria vita con l’arte, dedicandosi ai fumetti e arrivando a prestare le proprie matite per case editrici francesi quali Claire de Lune e […]

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Un’artista campana con il disegno nel sangue studia fisica all’università perché affascinata dalle leggi che regolano la materia nel nostro sistema solare, ma a ventitré anni lascia gli studi per celebrare la propria vita con l’arte, dedicandosi ai fumetti e arrivando a prestare le proprie matite per case editrici francesi quali Claire de Lune e salpare oltreoceano per i disegnare i simboli più imponenti della mitologia contemporanea: i supereroi Marvel.

Quest’ultimo principio è chiamato principio dell’ineluttabilità della destinazione e creazione artistica, detto anche vita di Romina Moranelli.

Romina ha un tratto dinamico capace di comunicare simultaneamente movimento sinuoso ma umano e rotondo, così come è la vita e le forze materiali che la travolgono. Sarà stato lo studio misto all’ambizione e ammirazione per il fumetto ad aver permesso a Romina di creare un campo antigravitazionale capace di trascinare in alto le sue capacità di illustratrice. La sua etica-estetica è forgiata dai classici, incastonata di capolavori di disobbedienza.

Immagina di osservare un obelisco inciso, con robuste fondazioni progettate dalla scuola internazionale di comics di Napoli, che sostengono un’architettura elegante e oltraggiosa, e casse dritte che ai piedi di questa struttura rilasciano le note di Love will tear us apart mentre display integrati trasmettono in loop Pulp Fiction, immagina questo monumento per comprendere la meravigliosa complessità dietro i fumetti di Romina. Eppure malgrado tanto oscuro e cinico sfarzo, ho chiesto a Romina di dirmi quale fosse l’opera più importante della sua carriera, una carriera costellata di collaborazioni con le più influenti case editrici del mondo, la risposta è stata: «Illustrare le copertine della saga fantasy scritta da mia sorella». Si tratta di Armonia di Pietragrigia di Angelica Elisa Moranelli edito da Edizioni 0111, un romanzo per il pubblico young/adults. Un altro contrasto, un altro pregio, del resto sono le sfaccettature a fare la differenza, sempre.

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