Francesco Di Leva Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 19 Jul 2023 13:13:17 +0000 it-IT hourly 1 Mixed by Erry: quei bravi ragazzi di Sydney Sibilia https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/mixed-by-erry-quei-bravi-ragazzi-di-sydney-sibilia/ https://www.fabriqueducinema.it/cinema/nuove-uscite/mixed-by-erry-quei-bravi-ragazzi-di-sydney-sibilia/#respond Wed, 01 Mar 2023 13:59:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18241 Chi tra i nati prima del 1985 non ha mai ascoltato un’audiocassetta musicale non originale, registrata? Magari doppiata da un amico o comprata su una bancarella. O forse solo decantata da genitori nostalgici ancora fieri di antichi stereo e oramai sorpassati soprammobili al tempo di Spotify. Gli album e le compilation pirata di una volta, […]

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Chi tra i nati prima del 1985 non ha mai ascoltato un’audiocassetta musicale non originale, registrata? Magari doppiata da un amico o comprata su una bancarella. O forse solo decantata da genitori nostalgici ancora fieri di antichi stereo e oramai sorpassati soprammobili al tempo di Spotify. Gli album e le compilation pirata di una volta, quei supporti fisici che erano la musica negli anni ’80, videro il fenomeno tutto partenopeo di Mixed by Erry. Tre ragazzi, i fratelli Frattasio, iniziarono quasi per caso a copiare e vendere cassette musicali a Forcella, poi l’exploit che divenne business perché nelle personalizzazioni di Erry, i loro amici si ritrovavano canzoni extra e rimandi ad artisti e generi musicali nuovi per approfondirli con altri acquisti. Altre cassette. Altro business.

Anche con il suo precedente L’incredibile storia dell’Isola delle Rose il regista Sydney Sibilia raccontava di un curioso evento di cronaca, a cavallo tra anarchia e poesia. Qui invece Erry, Enrico, insieme ai suoi fratelli Peppe e Angelo infrange con spensieratezza tutte le regole sul Diritto d’Autore, materia che in quegli anni ancora non acquisiva l’istituzionalità delle maiuscole.

Questo film ci parla a diversi livelli. C’è la storia di una famiglia che vive d’espedienti, tre fratelli legatissimi e in ascesa un po’ come Quei bravi ragazzi di Scorsese, ma in salsa comedy. Luigi D’Oriano, Erry, potrebbe corrispondere al De Niro leader; Giuseppe Arena, Peppe, il fratello maggiore e anche il più posato e responsabile, a Liotta; e alla scheggia impazzita Pesci somiglia per certi versi il personaggio del piccolo di casa, quindi Emanuele Palumbo. I tre giovani talenti innestano un motore dai tempi comici perfetti. Il gatto e la volpe a due tempi, sono però Adriano Pantaleo, nei panni del papà traffichino dei ragazzi, e Fabrizio Gifuni, manager milanese e inamidato che li porterà oltre ogni sogno più sfrenato. La loro nemesi trova invece il muso e l’irresistibile toupet di Francesco Di Leva nei panni del finanziere che indaga sui protagonisti.

Con leggerezza Sibilia sfiora anche stragi di camorra di quegli anni senza mai perdere il timone della commedia intelligente e d’intrattenimento. Ci mostra il celebre fuoco d’artificio, il Pallone di Maradona, prima che venisse battezzato, gli interni del Teatro Ariston di Sanremo durante il Festival, immagini dal primo scudetto del Napoli e di repertorio fuse con il lavoro scenografico dal sapore pop niente male di Tonino Zera. Apre al pubblico del 2023 e soprattutto ai suoi millenials i vicoli di una storia tappezzata di poster di Cioè sui muri delle camerette degli adolescenti, motorini, cuffiette e musica. Racconta l’esigenza della musica, la mancanza della musica dove non c’erano negozi di dischi, la proverbiale arte di arrangiarsi del Sud e quella fiducia nel futuro che caratterizzava quegli anni. In verità i Frattasio sono stati antesignani di Napster, ma utilizzavano già rimandi e suggerimenti in stile Spotify. Del resto Erry lo dice candidamente: “Io volevo solo fare il Dj”.

Mixed by ErryIl film targato Groenlandia, quindi della premiata ditta Sydney Sibilia – Matteo Rovere, esce al cinema il 2 marzo. Belle queste nuove scorpacciate vintage di anni ’80 che mostrano Napoli nella sua vitalità, nei suoi colori e nelle sue speranze. A partire dalla Mano di Dio di Sorrentino, la serie La vita bugiarda degli adulti, e approdando ora a Mixed by Erry. Chissà cosa ne avrebbe pensato Nanni Loy, che di truffaldine trovate napoletane ne raccontò così tante proprio in quegli anni.

 

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Francesco Patierno e La cura per parlare di Covid e Camus https://www.fabriqueducinema.it/festival/francesco-patierno-e-la-cura-per-parlare-di-covid-e-camus/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/francesco-patierno-e-la-cura-per-parlare-di-covid-e-camus/#respond Sat, 15 Oct 2022 08:42:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17804 Nella Napoli odierna si dipana La cura, vicenda ispirata al romanzo La peste di Albert Camus, in concorso alla Festa del Cinema di Roma. Era ambientato in Africa, nell’Algeria Francese di Orano, ma Francesco Patierno traspone i ruoli originali su uno scacchiere con il Covid e il lockdown al posto della peste bubbonica degli anni […]

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Nella Napoli odierna si dipana La cura, vicenda ispirata al romanzo La peste di Albert Camus, in concorso alla Festa del Cinema di Roma. Era ambientato in Africa, nell’Algeria Francese di Orano, ma Francesco Patierno traspone i ruoli originali su uno scacchiere con il Covid e il lockdown al posto della peste bubbonica degli anni Quaranta, rilanciando con un gioco tra due dimensioni narrative disposte in un metacinema fatto di copioni da set e attori al lavoro sempre più coinvolti nella nascente pandemia. I personaggi del medico, del giornalista, del gesuita predicatore, del portiere d’albergo e dello speculatore senza scrupoli permangono, ma nella sceneggiatura firmata anche da Francesco Di Leva e Andrej Longo vengono plasmati nuovamente intorno a doppi ruoli.

Oltre al protagonista Di Leva, nel cast abbiamo Alessandro Preziosi e Peppe Lanzetta nei ruoli di Tarrou, figlio del pubblico ministero, e di Padre Paneloux, che in questa versione parla a chiesa e città vuote, e telefonini che lo trasmettono da un treppiedi. Forse i loro monologhi sono i più forti, nonché fedeli al testo originale. Ma emergono anche Francesco Mandelli, Cristina Donadio e Antonino Iuorio. Il regista partenopeo inserisce sequenze e panoramiche girate con il drone durante il lockdown. Il risultato offre prospettive della città che ne rimarcano al tempo stesso la magnificenza dei lineamenti architettonici quanto la tragicità di quelle strade silenziosamente vuote. Senza traffico, quasi svuotate della loro stessa anima.

la cura

In questa Festa del Cinema di Roma numero 17, il lavoro di Patierno viene presentato in concorso nella sezione Progressive. Benché i presupposti e l’impostazione concettuale fossero un buon punto di partenza, La cura si sviluppa preferendo, a un linguaggio più cinematografico, una narrazione più vicina nelle forme alla letteratura da cui proviene e al teatro, dal quale forse anche Di Leva ha colto molta ispirazione.

Ne viene fuori, nonostante le prospettive offerte dalla Napoli deserta e il parterre di attori e attrici valenti, un risultato ostico a chi non conosce il romanzo, e senza mai un mordente che esuli dalle immagini toccanti legate alla pandemia. Si potevano escogitare dei cambi di registro più forti nel metacinema tra set e realtà dei personaggi, e il mescolare tutto risuona quasi autoassolutorio. Coraggiosa poi la scelta di portare adesso al cinema, e in maniera così cruda, quella stessa tragedia che ha fatto fuggire il pubblico da due anni. Ma quanto realmente utile in termini di presenze in sala? E d’incasso? Il tempo ci risponderà sulla domanda: “Esercizio di stile o molto di più?”

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Ti mangio il cuore, Pippo Mezzapesa: “Elodie come il bianco e nero, una scelta istintiva e potente” https://www.fabriqueducinema.it/festival/ti-mangio-il-cuore-pippo-mezzapesa-elodie-come-il-bianco-e-nero-una-scelta-istintiva-e-potente/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/ti-mangio-il-cuore-pippo-mezzapesa-elodie-come-il-bianco-e-nero-una-scelta-istintiva-e-potente/#respond Sun, 04 Sep 2022 16:27:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17583 Ti mangio il cuore, il nuovo film di Pippo Mezzapesa, è in concorso a Orizzonti a Venezia. Il film è una decisa zampata d’autore nella carriera del regista pugliese che, dopo Il paese delle spose infelici e Il bene mio, affronta una storia di faide familiari, perpetrate nel tempo, nell’oscuro mondo della mafia del Gargano, […]

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Ti mangio il cuore, il nuovo film di Pippo Mezzapesa, è in concorso a Orizzonti a Venezia. Il film è una decisa zampata d’autore nella carriera del regista pugliese che, dopo Il paese delle spose infelici e Il bene mio, affronta una storia di faide familiari, perpetrate nel tempo, nell’oscuro mondo della mafia del Gargano, la cosiddetta quarta mafia, raccontata nel libro omonimo di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, edito da Feltrinelli.

Mezzapesa gira un film materico, intriso di terra, fango, sangue, sudore, carnale sia nelle manifestazioni della morte che in quelle dell’amore, attraversato da uno spirito selvaggio che sembra annullare lo scorrere del tempo, il 1960 è uguale al 2014, che sarà uguale fra cent’anni. Un potente bianco e nero, la presenza seducente e mefistofelica di Elodie, femme fatale di un mondo primitivo e crudele, una squadra di attori affiatati: di questo e altro parliamo con Mezzapesa, poco prima della première del film.

Quando hai cominciato a pensare a Ti mangio il cuore?

Il libro mi è stato proposto dagli autori, quando era ancora in bozze, e leggendo questa analisi attentissima del fenomeno della mafia foggiana, la cosiddetta quarta mafia, ho ritrovato una storia alla quale mi ero appassionato molti anni prima, quando era emersa dalla cronaca la vicenda della prima pentita della mafia del Gargano, una donna che per la sua ricerca di amore, un amore bruciante, fa esplodere la faida assopita fra due famiglie. Eppure, questa sua scelta aiuta a decapitare questo stesso sistema mafioso.

Il Gargano non è la terra di cui sei originario.

Io sono di un’altra parte della Puglia che però comunque è vicina. Conosco il contesto di questo film, è una realtà quasi sconosciuta, su cui far luce perché è estremamente violenta e che si è accresciuta proprio a causa del suo essere poco nota. Raccontare questa ferita, quest’ombra nella mia terra, credo che possa servire a rimarginarla.

Il bianco e nero ti è servito a dare l’impressione che, nonostante un passaggio temporale fra il prologo e il resto del film, le dinamiche si ripropongano uguali, un eterno ritorno?

Il bianco e nero è stato scelto per raccontare i grandi contrasti di questa storia. C’è un contrasto anche nel titolo: “ti mangio il cuore” può essere promessa di morte ma anche folle dichiarazione d’amore. Questa ambivalenza è anche il contrasto della storia, che è cruda, dura, violenta, ma anche fatta di fragilità, di voglia di vivere, di sensibilità, di grazia. Per restituire queste dinamiche quindi ho pensato di utilizzare solo due colori: il bianco e il nero. In fondo il bianco e nero mi ha anche consentito una sorta di astrazione e, non ultimo, la possibilità di raccontare il fulcro della storia: l’ineluttabilità del male e la difficoltà di sradicarlo.

In un film dall’estetica così precisa il rapporto con il direttore della fotografia è cruciale.

Quando ho comunicato al direttore della fotografia, Michele D’Attanasio, l’esigenza di girare in bianco e nero, lui l’ha subito condivisa. È stato bello cominciare a vivere, a guardare in bianco e nero: le scelte dei colori, le consistenze dei materiali sono fatte tutte in funzione dei contrasti del bianco e nero, ci siamo abituati a vivere così.

Hai scelto molti attori che non sono pugliesi, questo ha comportato un grande lavoro sulla lingua.

Avevo a cuore che il dialetto fosse attendibile, e di conseguenza il lavoro sulla lingua è durato mesi, c’era un dialogue coach che ha seguito gli attori in preparazione e poi è stato presente sul set a controllare fino al minimo accento. Per me restituire l’idioma di quella terra, che è molto crudo, gutturale, era essenziale per il racconto.

Hai riunito Tommaso Ragno e Francesco Di Leva, che tornano insieme dopo Nostalgia di Mario Martone.

Sono due grandissimi attori, attori di struttura ma allo stesso tempo anche di grande istinto, capaci di mimesi, è stato un privilegio dirigerli.

Sei un regista che lascia spazio all’improvvisazione?

Credo che il set sia un momento di vita, di creazione, un viaggio che va vissuto tutti insieme. Ci deve essere una guida, certo, ma la guida deve anche farsi influenzare da tutte le energie che emergono sul set, che sono sia umani che paesaggistici. Ci si lascia influenzare dall’estro degli attori, da come il personaggio viene reinterpretato e rivisto dall’attore, e allo stesso tempo si deve essere disponibili a tutti i piccoli imprevisti che i luoghi in cui si va a girare ti presentano. Tutto questo arricchisce la storia.

Le location sono posti che già conoscevi?

Sono posti che conoscevo molto bene ma che ho imparato a conoscere ancora meglio, perché la prima cosa che faccio, prima ancora di fare scouting con la produzione, è visitare da solo o al massimo col direttore della fotografia i luoghi in cui si andrà a girare, per entrare nell’anima dei posti, capirne l’essenza e raccontarli con consapevolezza.

Come è avvenuta la scelta di Elodie, qui al suo esordio?

Un po’ come la faccenda legata al bianco e nero: un’intuizione iniziale, istintivamente. Serviva una personalità forte, che avesse una sensualità dirompente, violenta, ma allo stesso tempo sapesse comunicare verità, sensibilità, capacità di emozionare. Elodie era perfetta. Il percorso di ricerca del personaggio è stato incredibile, è stata una scelta molto coraggiosa sia da parte mia e della produzione che, soprattutto, da parte sua, perché non è semplice esordire al cinema con un personaggio così sfaccettato.

Il finale di Ti mangio il cuore apre a una speranza, a una remissione, però l’ultimissima inquadratura può significare che esiste qualche cosa di inestirpabile negli esseri umani. Sei d’accordo?

Ancora una volta: l’ineluttabilità del male. Il male è alienabile, sì, è una scelta di vita: la scelta di Marilena, il personaggio di Elodie, va nella direzione dello sradicamento del male, ma attenti, perché le radici sono difficili da estirpare.

 

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Nostalgia di Mario Martone: Favino detective del passato nelle viscere di Napoli https://www.fabriqueducinema.it/focus/nostalgia-di-mario-martone-favino-detective-del-passato-nelle-viscere-di-napoli/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/nostalgia-di-mario-martone-favino-detective-del-passato-nelle-viscere-di-napoli/#respond Wed, 25 May 2022 06:56:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17238 Mario Martone è un artista infaticabile. Senza menzionare nel dettaglio tutte le incursioni a teatro e nell’opera lirica (che comunque, solo nell’ultimo anno e mezzo, hanno registrato delle vette ne Il filo di mezzogiorno, da Goliarda Sapienza, e nella trilogia di film-opera per la Rai, Traviata, Barbiere di Siviglia e Bohème), Martone si è messo […]

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Mario Martone è un artista infaticabile. Senza menzionare nel dettaglio tutte le incursioni a teatro e nell’opera lirica (che comunque, solo nell’ultimo anno e mezzo, hanno registrato delle vette ne Il filo di mezzogiorno, da Goliarda Sapienza, e nella trilogia di film-opera per la Rai, Traviata, Barbiere di Siviglia e Bohème), Martone si è messo al lavoro sul suo ultimo film immediatamente dopo le impegnative riprese di Qui rido io. Anzi, in realtà è successo durante: come ha raccontato in una intervista rilasciata a Film TV Ippolita di Majo, il lavoro su Nostalgia era cominciato nel lockdown del 2020, che di fatto spezzò in due le riprese del film su Eduardo Scarpetta, interrotto dopo gli interni a Roma e al quale mancavano due settimane di esterni da girare a Napoli.

Nostalgia è un romanzo postumo di Ermanno Rea, grande scrittore napoletano che ha fatto letteratura sublime attingendo alla sua esperienza di giornalista cominciata negli anni ’50 all’Unità di Napoli, all’angiporto Galleria (oggi piazzetta Matilde Serao), una redazione che all’epoca era una palestra eccezionale e si ammantò, successivamente, di alone leggendario. Dopo Mistero Napoletano, La dismissione, Napoli Ferrovia e Il sorriso di don Giovanni (per citarne alcuni), Rea non fece in tempo a vedere pubblicato Nostalgia, uscito nel 2017, un anno dopo la morte dell’autore.

Mario Martone sul set di Nostalgia
Mario Martone in una pausa delle riprese di “Nostalgia” (ph: Elio Di Pace).

Al centro del romanzo, l’amicizia virile di Felice Lasco e Oreste Spasiano, inseparabili, simbiotici nel bene e soprattutto nel male, cresciuti nel Rione Sanità, il più misterioso e mistico dei quartieri antichi di Napoli, un quartiere di catacombe, di cimiteri, di riti sacri e pagani, di fondaci e palazzi monumentali, scavato nel tufo della collina di Capodimonte e al quale Ermanno Rea ha sempre fatto riferimento ed è sempre tornato, come in alcuni bei momenti di cui si legge già in Napoli Ferrovia.

Martone cominciò subito i sopralluoghi alla Sanità, accompagnato dal direttore della fotografia Paolo Carnera, e nel settembre del 2021 le riprese ebbero inizio. Per quanto ci sia potuta essere programmazione, il Rione Sanità non è stato uno sfondo neutro ma, formicolante della sua varia e febbrile umanità, ha avuto una vita propria che Martone è stato geniale ad accogliere e integrare dentro al film. Stabilito il campo base in un parcheggio nelle viscere del rione, agili furgoncini con le macchine da presa, le attrezzature per la presa diretta, i costumi e i fabbisogni di scenografia correvano avanti e indietro per i vicoli, la maggior parte della troupe sfrecciava in motorino per raggiungere più in fretta le location, la complicità degli abitanti aiutava ad avere a disposizione punti di vista privilegiati da balconi, terrazzi, cortili e vasci (i bassi).

Se nel romanzo Rea si cala nei panni di un narratore interno che racconta le vicende di Felice e Oreste, nel film Martone inventa un raffinato concerto di sguardi: a volte noi siamo Felice Lasco, altre volte, pedinandolo con la macchina a mano oppure seguendolo dall’alto con teleobiettivi strettissimi che lo isolano dallo sfondo, lo stiamo evidentemente spiando, come lo sta spiando Oreste Spasiano, l’amico perduto che Felice vuole ritrovare dopo quarant’anni di assenza da Napoli e di lontananza dall’anziana madre.

Ma non può bastare un affettuoso viaggio nella memoria: non può bastare a Oreste, che si è sentito tradito dall’amico che ha ricostruito la propria vita in un’altra città, in un’altra nazione, in un altro continente, e non basta neanche alla madre di Felice, giunta a un grado di consunzione raccontato da Martone con una pietas magistrale, che consegna a una ideale antologia alcune scene di questo film.

Pierfrancesco Favino Nostalgia
Pierfrancesco Favino.

La seconda, grande differenza rispetto all’opera di Rea è che il romanzo comincia dalla fine. Martone e di Majo, sfrondando la storia di ogni dettaglio cronachistico o giornalistico, hanno invece privilegiato uno svelamento progressivo della vicenda: Martone non vuole fare un film “sociale”, ma vuole raccontare un sentimento, una vicenda umana, e se Felice scende negli inferi, nel vero senso della parola, noi ci scenderemo con lui. E se si guarda Nostalgia da questa prospettiva, non si fa fatica a considerarlo un gemello, in chiave maschile, de L’amore molesto, dove la Delia di Anna Bonaiuto pure si trasforma in detective di un doloroso passato. E, a voler essere più naïf, il parallelismo non finisce qui: L’amore molesto è l’unico film di Martone a essere stato in concorso al Festival di Cannes, raggiunto proprio quest’anno da Nostalgia.

Infine, come sempre nei film di Martone, un accenno alla statura degli interpreti, fra nuove e antiche collaborazioni: Pierfrancesco Favino nei panni di Felice è monumentale, non solo per lo studio fatto sulla lingua, una commistione di napoletano, riacquisito poco a poco con l’avanzare del film, e l’arabo, la lingua del lavoro e dell’amore, ma per una caratterizzazione del personaggio che parte dal modo in cui cammina e arriva fino al modo in cui mangia e beve; l’orco Oreste Spasiano di Tommaso Ragno, chiuso nel suo fatiscente castello da cui domina il quartiere, nerboruto, animalesco nelle espressioni verbali e fisiche, una presenza così misteriosa e temibile che, arrivati alla fine del film, si potrebbe tentare una acrobazia interpretativa e immaginare che non esista, che sia un demone, uno dei tanti che infestano le grotte della Sanità; il padre Rega cucito addosso a Francesco Di Leva, che trasmette fedelmente al suo personaggio una missione che è propria della sua quotidianità, con il NEST di San Giovanni a Teduccio; sempre grandi, Aurora Quattrocchi nei panni della madre, Luciana Zazzera nel ruolo della commara e Nello Mascia, un po’ guantaio, un po’ angelo custode.

 

 

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Un mondo in più, storia di padri e di maestri https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/un-mondo-in-piu-storia-di-padri-e-di-maestri/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/un-mondo-in-piu-storia-di-padri-e-di-maestri/#respond Tue, 19 Apr 2022 08:44:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17082 Tutti noi dovremmo avere un mondo in più in cui vivere, quello che ci costruiamo con le nostre emozioni», dice Diego, il giovane protagonista del primo lungometraggio di Luigi Pane. E proprio da quelle parole deriva il titolo del film, Un mondo in più, che da oggi comincia un giro nelle sale a partire dal […]

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Tutti noi dovremmo avere un mondo in più in cui vivere, quello che ci costruiamo con le nostre emozioni», dice Diego, il giovane protagonista del primo lungometraggio di Luigi Pane. E proprio da quelle parole deriva il titolo del film, Un mondo in più, che da oggi comincia un giro nelle sale a partire dal Cinema Farnese di Roma. Dopo il cortometraggio L’Avenir e con la pandemia che fa da sfondo, Luigi Pane torna a «raccontare quanto accade realmente nel mondo», ancorando il suo cinema alla realtà. Protagonisti Francesco Ferrante, Francesco Di Leva, Denise Capezza e Renato Carpentieri.

Qual è stato lo spunto iniziale del film?

L’idea era quella di raccontare una storia che fosse contemporanea e dare allo spettatore la sensazione di star vedendo al cinema qualcosa che sarebbe potuto accadere nella realtà. Volevo raccontare una vicenda che da una parte avesse al centro i legami di sangue, quelli che non siamo noi a scegliere, e dall’altra volevo parlare di eredità culturali. Perché mentre un padre non si può scegliere, un maestro sì. E questo è un concetto fondamentale per me, visto che viviamo in un’epoca in cui molti riferimenti culturali si stanno perdendo. Perciò volevo raccontare di un ragazzo che si trova catapultato in un luogo che per molti è brutto, ma non per lui, perché riesce a vedere il mondo con occhi nuovi grazie proprio alla sua cultura.

Quindi per te radicare Un mondo in più nell’attualità era fondamentale.

Sì, decisamente. Nella prima versione della sceneggiatura che avrei dovuto girare ad aprile 2020 non era neanche presente il Covid. Ma durante il lockdown ho parlato con i miei produttori per inserire dei riferimenti alla pandemia, perché più il tempo passava più pensavo di non poter ignorare quanto stava accadendo, era un evento troppo grande. Mentre vedo che il cinema in parte lo sta ancora ignorando.

Sin da subito il film mostra una vocazione fortemente sociale, che andando avanti viene confermata. È questa la tua idea di cinema?

Credo di sì, perché mi piace raccontare ciò che vedo ogni giorno. Il cinema per me è sempre stato qualcosa in grado di dare ordine alla trama dell’esistenza, e per farlo deve essere legato al sociale e al presente che vivo. La mia idea non solo da regista, ma anche da spettatore, è quella di un cinema che non sia solo di intrattenimento, ma che possa riportare quanto accade realmente nel mondo.

Un mondo in più
Francesco Di Leva.

Pasolini è molto presente nel tuo film e si evince il legame che hai con le sue opere. Quali altri autori del cinema italiano sono fonte di ispirazione per te?

Pasolini per me è stato importante in un determinato momento della vita. Come il protagonista mi sono trovato catapultato in un’altra città e mentre studiavo i film di Pasolini vivevo nei luoghi in cui quei film erano stati girati. Per me si trattava quindi di una doppia scoperta: notavo come alcune cose erano profondamente cambiate, mentre altre restavano invece uguali negli anni. Altri autori che personalmente considero importanti sono Antonioni e soprattutto Bertolucci, che ha lasciato una traccia molto forte in tutto quello che faccio. Magari può anche non notarsi dall’esterno, ma io ne riconosco l’influenza.

Un mondo in più è il tuo primo film. Come è cambiato il tuo metodo nel passaggio dal corto al lungometraggio?

Sinceramente non è cambiato. Ci ho messo lo stesso impegno che metto nei corti. I tempi sono stati diversi, sicuramente, ma ho mantenuto il mio approccio di sempre. Certo, è stata un’emozione più forte, più dilatata per certi versi, come i tempi d’altronde, ma il modo di lavorare  è rimasto lo stesso.

Diego, il protagonista, ha una passione per la fotografia. Qual è il tuo rapporto con questa pratica?

Mio padre era fotografo e se tante cose riesco ad immaginarle, soprattutto a livello di composizione dell’immagine, lo devo proprio alla fotografia. È così che ho iniziato. Il gusto dell’inquadratura, lo studio della luce: sono cose che ho imparato grazie alla macchina fotografica. Non ho mai nemmeno comprato una videocamera. Anzi, io consiglio sempre ai giovani che si accostano tecnicamente al mestiere di imparare a usare una macchina fotografica.

 

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Come prima, Tommy Weber e Antonio Folletto raccontano il film https://www.fabriqueducinema.it/festival/come-prima-tommy-weber-e-antonio-folletto-raccontano-il-film/ Wed, 20 Oct 2021 08:05:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16281 All’interno della selezione ufficiale della XIX edizione Alice nella Città trova posto anche l’ultimo film di Tommy Weber, Come prima, in sceneggiatura al fianco di Filippo Bologna e Luca Renucci. Un road movie che lega la Francia a Procida, una storia di due fratelli costretti a ritrovarsi dopo essersi separati 17 anni prima, ai tempi […]

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All’interno della selezione ufficiale della XIX edizione Alice nella Città trova posto anche l’ultimo film di Tommy Weber, Come prima, in sceneggiatura al fianco di Filippo Bologna e Luca Renucci. Un road movie che lega la Francia a Procida, una storia di due fratelli costretti a ritrovarsi dopo essersi separati 17 anni prima, ai tempi della Seconda guerra mondiale. Fabio (Francesco Di Leva) è una camicia nera mai pentita, rimasto aggressivo e violento nel corso del tempo, mentre André (Antonio Folletto) accantona l’orgoglio per tornare ad abbracciare il sangue del suo sangue in occasione del funerale del padre, scomparso da pochissimo e il cui ultimo desiderio è far riunire i propri figli. Abbiamo discusso del film con il regista e Antonio Folletto in occasione di un incontro ravvicinato.

Come prima è tratto dall’omonimo graphic novel dell’artista francese Alfred. Cosa ti ha affascinato e come è nata poi l’idea di farne un film?

Tommy Weber: Cercavo da diverso tempo di scrivere una mia sceneggiatura che parlasse di due fratelli. Quando poi mi è capitato di leggere il lavoro di Alfred mi è sembrato che fosse tutto già pronto per essere portato sul grande schermo. L’ho amato tanto e da subito, raccontava tutto in maniera molto diretta, piena di luce e umanità.

Antonio Folletto: Io il graphic novel l’avevo già letto in tempi non sospetti. Un anno e mezzo prima del film il nostro produttore, Luciano Stella, mi dice di leggere assolutamente il lavoro di Alfred perché era convinto che avrebbe trovato il modo di portarlo al cinema. Siccome lui è una persona seria che se dice una cosa poi la fa, poi è andata effettivamente così. Tommy ci ha aiutato molto per l’impianto della storia, ma non ci siamo mai posti il problema di essere esattamente aderenti a quello che c’è nel lavoro originale. L’importante è la dinamica tra i due fratelli, del loro amore e del viaggio che li porta a Procida.

Il film è sostanzialmente un road movie, un viaggio di formazione e di riscoperta della relazione tra i fratelli. Come avete gestito il passaggio dai momenti più tesi a quelli di rilascio, a volte quasi comici?

TW: Abbiamo lavorato a quattro o cinque letture del copione prima di lavorare in scena. È stata una cosa molto importante per me perché non parlo l’italiano molto bene e ai tempi delle riprese lo parlavo anche peggio. La comunicazione con gli attori era la mia più grande paura. Ho avuto un’assistente che mi ha aiutato moltissimo, Lucia Ceracchi, così da avere un dialogo con Antonio e Francesco con i quali abbiamo parlato molto tranquillamente di come io sentivo i momenti di violenza e di tormento. Sono una persona molto impulsiva e mi piace quando l’emozione emerge ed esce fuori. L’ho detto agli attori e Antonio e Francesco hanno avuto fiducia di me come io l’ho avuta della loro idea di personaggio. Ho avuto la fortuna di lavorare con due attori come loro, che si sono “tuffati” e hanno abbracciato i momenti di violenza come quelli di tenerezza.

AF: In questo senso ti aiuta molto la stanchezza… Come accade nella vita di tutti i giorni, dove quando discuti a lungo con una persona le cose alla fine diventano naturali, perché sei stremato e non ce la fai più. Quei momenti arrivavano così, ci aiutavano perché andavano a smussare lo scontro perenne tra i due personaggi.

Come prima di Tommy Weber
Un momento di “Come prima”.

La scelta dei luoghi e delle location in un film in movimento come questo è importante. Come avete lavorato da questo punto di vista?

TW: La verità è che non abbiamo avuto tanta scelta perché dovevamo girare una gran parte del film entro cinque settimane. Abbiamo girato molto ad Arpino, un luogo ricco di paesaggi e differenti scorci.

I personaggi di André e Fabio sono in contrapposizione tutto il tempo. L’unica cosa che hanno in comune sono il padre e una donna che forse amano entrambi. Come emerge nel carattere dei personaggi?

AF: Il padre è usato da André come pretesto per portare Fabio a casa. Non che non gliene importi realmente, è una cosa che fa soprattutto per se stesso. Va a prendersi suo fratello perché ne ha bisogno. Fabio è tremendamente aggressivo, ma anche André dentro di sé lo è e in alcuni momenti lo vediamo anche da fuori: è come un grido di aiuto nei confronti del fratello più grande che se ne è andato. C’è una frase bellissima che Tommy ha scritto assieme agli sceneggiatori, quando André dice a Fabio «la verità è che Maria stava con me per stare un po’ con te, e per me era lo stesso». Entrambi cercano colmare un vuoto: uno fuggendo lontano da casa, senza più nulla in mano se non i traumi del passato. L’altro facendo lo stesso viaggio, per poter sciogliere tutti i dubbi rivedendo il proprio fratello.

A guardare alcuni eventi recenti accaduti qui in Italia sembra che ci siano dei conti in sospeso con un passato mai realmente affrontato, come quello del fascismo che fa da sfondo anche alla storia di Come prima. Quanto ritieni sia importante approcciare questo genere di discorsi al cinema?

TW: La cosa che per me era più importante era il parlare di uomini, soprattutto quelli come Fabio, che era un fascista e continua a rivendicarlo. Di fatto è uno stronzo, violento e dai tanti aspetti negativi. Per questo penso sia importantissimo portare uno sguardo di amore e umanità su questo tipo di persone: sono persone che dimentichiamo spesso, perché è più facile lasciarle perdere, perché sono difficili da comprendere, ma nei confronti delle quali dobbiamo cercare comunque un dialogo.

 

 

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Il sindaco del rione Sanità secondo Martone https://www.fabriqueducinema.it/magazine/teatro/il-sindaco-del-rione-sanita-secondo-martone/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/teatro/il-sindaco-del-rione-sanita-secondo-martone/#respond Thu, 03 May 2018 12:47:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=10209 San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli. Il Bronx partenopeo con le palazzine di Via Taverna del Ferro a pochi metri dal mare, tristemente famose per le scorribande camorriste delle baby gang. Su una di queste c’è il volto di Maradona dello street art Jorit Agoch. Non è l’unica opera di riqualificazione nata nel […]

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San Giovanni a Teduccio, periferia est di Napoli. Il Bronx partenopeo con
le palazzine di Via Taverna del Ferro a pochi metri dal mare, tristemente famose per le scorribande camorriste delle baby gang. Su una di queste c’è il volto di Maradona dello street art Jorit Agoch. Non è l’unica opera di riqualificazione nata nel quartiere; c’è la iOS Devoloper Academy, la scuola della formazione Apple, la prima in Europa e un nuovo Campus dell’Università Federico II. Poi ci sono le famiglie Mazzarella D’Amico e Rinaldi -Reale-Formicola che secondo la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) si contendono i territori di spaccio.

E infine c’è il Napoli Est Teatro, un collettivo, un progetto socio culturale, nato per usare il teatro come antidoto alla camorra. Con i ragazzi del Nest, Mario Martone ha
realizzato la sua prima regia di un testo di Eduardo De Filippo, Il sindaco del rione Sanità. Lo spettacolo nasce grazie alla collaborazione produttiva tra il Teatro Stabile di Torino e la compagnia di Luca De Filippo, Elledieffe ora guidata dalla moglie, Carolina Rosi.

La commedia di Eduardo venne scritta nel 1960, appartiene alla raccoltaCantata dei giorni dispari, nasce come un testo scomodo che porta alla ribalta la camorra con il suo protagonista Antonio Baraccano, guida del Rione Sanità, uomo d’onore e amministratore a modo suo delle diatribe del quartiere. Per la riscrittura di questo testo, Martone parte dalla realtà di San Giovanni a Teduccio e dai ragazzi del Nest, attori giovani che vivono sulla propria pelle la guerra di camorra.

Il sindaco del rione sanitàCosì la lussuosa villa di Antonio Baraccano si trasforma in un appartamento moderno con mobili d’acciaio e plexiglas (scene di Carmine Guarino). Un bunker patinato regno di un Antonio Baraccano (Francesco Di Leva), giovane e palestrato. Non è, come lo aveva immaginato Eduardo, l’uomo d’onore simbolo di un’epoca
di valori che procede verso il tramonto, ma il giovane boss della nuova camorra, deciso e spietato, pragmatico e razionale al tal punto da comprarsi l’amore dei figli e della moglie.

L’ambiguità degli affetti intimi della famiglia Baraccano è una pedina che la regia di Martone sa muovere bene, con un ritmo serrato, scene cruente, che ricordano serie televisive come Gomorra o Suburra. La lingua non è più il dialetto napoletano armonioso di Eduardo, ma quello violento delle strade, delle nuove generazione e del rap. Proprio con questa musica inizia lo spettacolo, il rapper Ralph P canta la sua Niente ‘e nuovo, profetica dichiarazione di un futuro condannato a non cambiare.

Indispensabile per questa operazione folle e complessa sono gli attori, i protagonisti volti noti della televisione e del cinema. Francesco Di Leva veste i panni giovani e violenti di Antonio Baraccano, dandogli un’energia unica mentre Giovanni Ludeno (il dottor Della Ragione) e Massimiliano Gallo (Arturo Santaniello) restano legati di più alla tradizione eduardiana, creando un contrasto coerente che crea un equilibrio costante. “Il teatro è vivo quando s’interroga sulla realtà, se parla al proprio pubblico agendo in una dimensione politica”. Queste sono le parole che Mario Martone usa per descrivere il suo sindaco del rione Sanità.

Un gesto politico e sociale che va oltre la rappresentazione teatrale e incarna
un mondo vivo e reale in tutta la sua drammaticità.

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