Festival di Venezia Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 18 Mar 2022 09:47:12 +0000 it-IT hourly 1 Federico Demattè e il suo Inchei, che “in rumeno significa finire” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/federico-dematte-e-il-suo-inchei-che-in-rumeno-significa-finire/ Fri, 04 Mar 2022 09:37:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16870 Adolescenza: quel periodo della vita in cui solo i nostri coetanei sembrano comprenderci. Cosa succederebbe se in una fase così delicata fossimo costretti ad allontanarci proprio da loro? Tenta di dare una risposta a questa domanda Inchei, cortometraggio di esordio di Federico Demattè, vincitore come Miglior Short Film e Miglior Regia alla Settimana Internazionale della […]

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Adolescenza: quel periodo della vita in cui solo i nostri coetanei sembrano comprenderci. Cosa succederebbe se in una fase così delicata fossimo costretti ad allontanarci proprio da loro? Tenta di dare una risposta a questa domanda Inchei, cortometraggio di esordio di Federico Demattè, vincitore come Miglior Short Film e Miglior Regia alla Settimana Internazionale della critica nell’ambito del Festival di Venezia 2021. La motivazione della giuria recita: «per la narrazione libera da ogni sovrastruttura che permette ai protagonisti di essere completamente credibili».

“Inchei” è una parola rumena che significa “finire”. Il film racconta di Armando, ragazzo rom di 15 anni che vive con la madre e i fratelli tra le baracche della periferia di Milano Est; nel pieno della sua adolescenza è costretto a lasciare amici e amori per partire con la famiglia alla volta di Berlino, dove il nuovo compagno della madre è riuscito a trovare un lavoro. Federico Demattè nasce a Trento nel ’96, si sposta nel 2016 a Berlino, poi a Londra e dopo tre anni torna in Italia pubblicando il romanzo Jennifer salta giù. Attualmente frequenta l’Accademia Naba a Milano.

Il tuo arrivo nel mondo del cinema avviene con un film che parla di addii: perché questa scelta?

La partenza è un tema che mi ha da sempre affascinato. Paradossalmente ho sempre iniziato i miei lavori parlando di momenti finali, addii: quando suonavo in una band musicale, il primo EP parlava della nostra partenza da Trento e il mio primo romanzo raccontava di quella per Berlino. È un tema che torna spesso nel mio lavoro: forse è la mia tendenza a farmi affascinare dalla nostalgia e dalla malinconia, sentimenti che mi suggeriscono tante sfumature narrative ed estetiche.

Come hai conosciuto Armando e perché hai scelto proprio la sua storia?

Prima di conoscere Armando avevo già scritto la sceneggiatura del corto, volevo parlare della partenza di un ragazzo rom. Armando mi è stato consigliato da un’assistente sociale per la sua situazione insolita: la sua famiglia, rom, aveva deciso di staccarsi dai campi nomadi e di vivere in una sorta di ibrido, una vita nelle baracche piena però di conoscenze e frequentazioni milanesi. Di Armando mi ha colpito subito la dolcezza, è un ragazzo molto sensibile e di grande empatia. E dal punto di vista “antropologico” è stato naturalmente molto interessante osservare il suo essere rom e al contempo adolescente milanese al 100%.

Inchei
Armando Barosanu in “Inchei”.

Con Inchei hai vinto il premio come miglior regia per «la capacità di entrare in intimità con i personaggi e gli ambienti». Come ci sei riuscito?

In molti hanno pensato che le scene che mostro nel cortometraggio fossero state “spiate”, mentre in realtà scaturiscono dall’intimità che io e gli attori abbiamo costruito insieme. Si è creata una grande vicinanza fra noi della troupe e i ragazzi e questo anche grazie al fatto che per mesi ci siamo visti e abbiamo progettato insieme battute e scene. Alla fine osservavo la compagnia di amici di Armando e, sempre per riprendere il discorso della nostalgia, mi sembrava di rivedere la mia vecchia comitiva di amici sedicenni di Trento.

Come è andata con la famiglia di Armando?

Inserirmi all’interno della famiglia è stato più complesso. La sintonia con i ragazzi è avvenuta in maniera più naturale, mentre con la madre di Armando all’inizio non nego che ero in imbarazzo. Ero frenato da scrupoli morali, non ero sicuro che fosse realmente giusto entrare così dentro le loro faccende personali. Gradualmente però ci siamo avvicinati gli uni agli altri e alla fine ciò che era nato come un “mio” progetto è diventato un obiettivo condiviso. Si è creata una sorta di simbiosi di sogni.

Nasci a Trento, nel 2016 ti  sposti a Berlino, poi a Londra e infine a Milano. A differenza di Armando tu non sembri temere cambiamenti e addii.

Ricerco in continuazione il cambiamento e contemporaneamente ne ho paura, ma mi consola il fatto che novità e futuro alla fine terrorizzano un po’ tutti. Sono un carattere fragile, sensibile e sempre indeciso ma sento di avere dei sogni così grandi che non posso contenerli. Quando si tratta di seguire questi sogni metto la paura da parte, anzi la uso proprio come fosse un mezzo per raggiungerli

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È stata la mano di Dio, a Venezia 78 per Sorrentino applausi a scena aperta https://www.fabriqueducinema.it/festival/e-stata-la-mano-di-dio-a-venezia-78-per-sorrentino-applausi-a-scena-aperta/ Fri, 03 Sep 2021 08:59:57 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15948 Dopo il road movie statunitense, primo approdo oltreoceano, dopo le flaneries disilluse e decadenti di Jep Gambardella sul lungotevere e nei palazzi romani, dopo il racconto di due dolorose senilità in una gabbia dorata in Svizzera, dopo il mega affresco di due pontefici, il divo e Mefistofele, e dopo il magniloquente dittico sul Cavaliere, Paolo […]

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Dopo il road movie statunitense, primo approdo oltreoceano, dopo le flaneries disilluse e decadenti di Jep Gambardella sul lungotevere e nei palazzi romani, dopo il racconto di due dolorose senilità in una gabbia dorata in Svizzera, dopo il mega affresco di due pontefici, il divo e Mefistofele, e dopo il magniloquente dittico sul Cavaliere, Paolo Sorrentino torna a Napoli con È stata la mano di Dio.

È un ritorno felice, felicissimo, cinematograficamente parlando, pur con al centro un enorme dolore, che qui l’autore semina e dissemina in un memoir, in un racconto di formazione, in un coming of age sulla base di una scrittura che quasi mai è stata così precisa, essenziale, leggera. In una parola: vera.

Vera, nonostante il racconto di È stata la mano di Dio cominci subito con un’evocazione che più napoletana non si può: un enorme abbraccio alla città, che comincia dal mare, individua Castel dell’Ovo, la collina di San Martino, finisce sul mare e poi si inoltra, di notte, insieme niente di meno che a San Gennaro, nei meandri oscuri della città dove facciamo la conoscenza di una presenza misteriosa, che a Napoli – come racconta Matilde Serao – esiste dalla notte dei tempi: il munaciello. Lo possono vedere solo in pochi. Lo può vedere solo chi ha il dono.

L’alter ego che Sorrentino sceglie per questa trasposizione divertita e insieme commovente della propria giovinezza si chiama Fabietto Schisa, interpretato dal giovane Filippo Scotti che è bravissimo. Certo, è stato guidato da un grande direttore di attori, ma il ragazzo ha stoffa.

Questo giovanotto solitario, allampanato, caratterizzato splendidamente dall’inseparabile walkman con le cuffie, si muove nella Napoli alta della metà degli anni ’80, l’epoca che potremmo chiamare a.D., avanti Diego, se è vero che un Messia venuto dall’Argentina ha segnato in questa città un evidente prima e dopo che ancora oggi porta i suoi malinconici strascichi.

Napoli alta perché Sorrentino racconta una classe sociale che nella proficua produzione cinematografica napoletana si vede rarissimamente: la borghesia. Gli Schisa abitano al Vomero, in un parco sobrio e pieno di gente per bene, al piano di sopra c’è una baronessa decaduta e decadente ma che gioca un ruolo decisivo in questa storia, la dirimpettaia è un’aspirante attrice che sogna di fare la protagonista per Zeffirelli e per un attimo sembra esserci riuscita, c’è anche il fool dal cuore d’oro che si traveste da Super Mario. E poi le vacanze: i momenti di svago, meravigliosamente corali, con una rappresentazione precisa, impietosa ma affettuosa, del caleidoscopio di umanità di Napoli e dintorni riunita tutta insieme, coppie male assortite, anziane uccellacce del malaugurio che poi avranno il loro riscatto, la zia bellissima che genera i primi pruriti adolescenziali, lo zio che agisce al limite dell’illegalità ma ha il cuore d’oro, e tanti altri.

In È stata la mano di Dio Sorrentino ha dato fondo a una mole sconfinata di ricordi, di immagini, di parole ascoltate o origliate in quel momento della sua vita, che verrebbe voglia di guardare questo film seduti accanto a lui e chiedergli cosa sia accaduto davvero e cosa no, cosa sia troppo assurdo per non essere successo invece veramente oppure cosa sia stato ammorbidito per pudore, o per qualunque altro motivo.

Eppure, in questo romanzo per immagini vivace, colorato, divertente come forse mai è stato Sorrentino, c’è anche un’immane sofferenza, la più grande che un adolescente, già di per sé fragile, potrebbe incontrare sul suo cammino. E quel momento, proprio quella tragica agnizione, è un momento altissimo del film, quasi buzzatiano, con questa surreale impossibilità dei medici di riuscire a dire al ragazzo cosa sia successo ai suoi genitori.

In chiusura, il dialogo con l’agognato maestro Antonio Capuano: quante grandi verità quel profeta è capace di dire al giovane Sorrentino, che illuminazione, che rivelazione devono essere state per lui quelle parole. Che le abbia pronunciate davvero, poco importa, perché il futuro regista dimostra di aver appreso la lezione.

Ultima menzione per gli attori. Già detto del sorprendente Scotti, sugli altri non ci potevano essere dubbi: Servillo e Saponangelo, Betti Pedrazzi memorabile nel ruolo della baronessa, Renato Carpentieri con le sue solite sublimi fiammate, Ciro Capano nei panni di Capuano, il bravissimo Biagio Manna che è il contatto del film – e di Fabio – con il ventre di Napoli, Luisa Ranieri, che in questa storia, della città di Napoli, è un po’ l’incarnazione.

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The Book of Vision apre la Settimana della Critica a Venezia https://www.fabriqueducinema.it/festival/the-book-of-vision-apre-la-settimana-della-critica-a-venezia/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/the-book-of-vision-apre-la-settimana-della-critica-a-venezia/#respond Thu, 03 Sep 2020 08:00:08 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14301 Figlio d’arte ˗ il padre è stato attore teatrale, cinematografico e doppiatore di rango ˗ Carlo S. Hintermann arriva al suo primo lungometraggio a soggetto con una vasta e lunga esperienza alle spalle, nel cinema e non solo. Produttore, tecnico del suono, musicista, filmmaker completo, Hintermann ha diretto diversi documentari, ha lavorato accanto a nomi […]

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Figlio d’arte ˗ il padre è stato attore teatrale, cinematografico e doppiatore di rango ˗ Carlo S. Hintermann arriva al suo primo lungometraggio a soggetto con una vasta e lunga esperienza alle spalle, nel cinema e non solo. Produttore, tecnico del suono, musicista, filmmaker completo, Hintermann ha diretto diversi documentari, ha lavorato accanto a nomi autorevoli della scena internazionale (regista della seconda unità per Malick, produttore per Naderi), ha pubblicato ˗ lavorando nelle collane della casa editrice Ubulibri ˗ e scritto libri di cinema, in Italia e oltreconfine.

The Book of Vision, una produzione imponente in cui figura anche Terrence Malick

The Book of Vision, che apre l’edizione di quest’anno della SIC a Venezia, è il risultato di un congegno produttivo imponente, soprattutto per un esordio che coinvolge tre diversi paesi ˗ Italia, Gran Bretagna e Belgio ˗ e raggruppa un cast tecnico-artistico internazionale di alto livello (dallo scenografo David Crank al direttore della fotografia Jörg Widmer, fino all’interprete Charles Dance) coronato dalla presenza di Terrence Malick come produttore esecutivo.

Una giovane chirurgo abbandona la carriera per dedicarsi agli studi sull’involuzione del rapporto tra medico e paziente, concentrando le sue ricerche sul diario illustrato che raccoglie le seicentesche annotazioni di quel che si rivela l’ultimo illuminato uomo di scienze ancora capace di sincretistica apertura all’idea del corpo umano come parte di un organismo fatto anche di componenti immateriali e invisibili; appena prima che la scienza finisca per concentrarsi sulla meccanica razionale dei processi organici. Nel passato come nel presente le nascite e le morti scandiscono incessantemente il progredire degli eventi.

Dietro il fasto della lussureggiante fotografia e dei costumi d’epoca non c’è, come ci si potrebbe aspettare, l’ennesimo film europeo d’autore dalle alte pretese pseudoartistiche, ma il racconto teorico e fantasioso di un appassionato artigiano d’immagini in movimento. Così è Carlo S. Hintermann, che pensa l’arte come ottenimento tecnico e non frutto d’ispirazione aerea, e che pratica il cinema come lavoro collettivo applicato con dedizione alla messa in forma del mondo.

Passato e presente in un unico flusso temporale

Al centro del film sta il gioco di un racconto che congiunge in un solo flusso temporale il diciassettesimo secolo e il presente: anche in questo caso, alla prevedibile pendolarità del meccanico andirivieni tra passato e presente il regista sostituisce una inconsueta commistione, confusione, permeabilità tra il già stato, un profondo presente e il futuro prossimo. Nonostante ci siano successione di azioni e reazioni, uno sviluppo narrativo e un movimento progressivo, si ha la forte impressione che tutto avvenga fuori del tempo, e che i personaggi ˗ che mostrano una fin troppo accurata attenzione nella messa in scena e nello studio del gesto ˗, quasi immobili, non facciano che adempiere al compiersi di un destino circolare.

Il più forte impulso dinamico viene forse da una colonna sonora stratificata e sovrabbondantemente condita, nella quale intorno alle voci e ai suoni si rincorrono brani musicali che sferzano longitudinalmente il film, rubando di quando in quando la scena alle immagini.

The Book of Vision è aperto da una citazione dello scrittore Bufalino ˗ presa tra l’altro da un romanzo, Diceria dell’untore, in rima suggestiva coll’impianto del film ˗ che allude al perno centrale del racconto: la “visione” del titolo è quella “apocalittica” dell’essere umano che, non oltre ma attraverso la propria condizione materiale, allunga lo sguardo oltre la storia di sé, scorgendo il tempo del mondo come una successione di tracce intrecciate l’una nell’altra, dentro un unico flusso senza interruzioni, che intorno alle sue rivoluzioni circolari conforma una trasformazione costante e senza fine.

A valle di queste suggestive e stimolanti idee, la prosa di Hintermann non mostra (ancora) i segni della fluidità matura, restando come irrigidita e in alcune delle sue articolazioni addirittura bloccata dal sovraccarico di senso atteso e non espresso. E tuttavia colpisce la gamma di scelte ardite e originali, tra le quali di certo spicca il gusto dichiaratamente riferito al cinema fantasy degli anni Ottanta, che fonde trucchi analogici e effetti visivi digitali in un coerente e concreto universo iconografico fantasmagorico.

 

 

 

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“Con Le sorelle Macaluso a Venezia”, parla la produttrice Marica Stocchi https://www.fabriqueducinema.it/focus/con-le-sorelle-macaluso-a-venezia-parla-la-produttrice-marica-stocchi/ Wed, 26 Aug 2020 06:32:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14277 Marica Stocchi: giovane, donna, produttrice indipendente. Nel 2018 con Giuseppe Battiston fonda Rosamont, società di produzione cinematografica nata per realizzare film di alta qualità rivolti al pubblico e al mercato nazionale e internazionale. Con Rosamont Marica Stocchi ha prodotto due film subito approdati nell’empireo dei festival: Here we are di Nir Bergman, in coproduzione con Israele, […]

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Marica Stocchi: giovane, donna, produttrice indipendente. Nel 2018 con Giuseppe Battiston fonda Rosamont, società di produzione cinematografica nata per realizzare film di alta qualità rivolti al pubblico e al mercato nazionale e internazionale. Con Rosamont Marica Stocchi ha prodotto due film subito approdati nell’empireo dei festival: Here we are di Nir Bergman, in coproduzione con Israele, tra i selezionati del Festival di Cannes 2020, e Le sorelle Macaluso di Emma Dante, in competizione alla 77a Mostra del Cinema di Venezia.

Di te si conosce ancora poco, in concorso a Venezia con un film di Emma Dante e a Cannes con un film in coproduzione con Israele: tu, Marica Stocchi, come ti definiresti?

Se dovessi scegliere una frase per descrivermi ti direi che sono una persona che ama raccontare storie. Nella mia vita ho sperimentato tanti mondi lavorativi differenti: prima in teatro, poi giornalista per “Il Messaggero”, collaboratrice per la casa editrice Minimum Fax e altre realtà editoriali, il tutto sempre con l’unico scopo di stare in mezzo alle storie.

Nel 2018 hai fondato la casa di produzione Rosamont insieme a Giuseppe Battiston. Come è nata questa collaborazione?

L’incontro è avvenuto sul set di Bookshow, il programma televisivo a cui stavo lavorando per Minimum Fax Media e che abbiamo realizzato per Sky Arte. Alcuni grandi attori italiani leggevano parti del loro libro preferito nella loro città e così ho conosciuto Giuseppe nella sua Udine. È stata fin da subito stima e simpatia reciproche. Poi, dal momento in cui ho iniziato a occuparmi di cinema, Giuseppe mi ha proposto di produrre il suo primo film da regista: «Aspetto che tu concluda il tuo primo film come produttrice, e se sopravvivi ti prometto che torno». È tornato e, quando ho deciso di fondare la mia società, lui era lì, il partner perfetto! Il nome significa “tramonto rosso”, da una poesia di Pierluigi Cappello, grande poeta friulano amico di Battiston, precocemente scomparso.

Marica Stocchi
Marica Stocchi

Le sorelle Macaluso, scritto e diretto da Emma Dante, è in concorso al Festival di Venezia. Raccontaci qualcosa del film.

Le sorelle Macaluso è tratto dall’omonimo spettacolo che Emma ha portato a teatro con grande successo. Quello con Emma è stato un altro incontro importante: lei era alla ricerca di un produttore e io sono riuscita, grazie al rapidissimo aiuto di RAI Cinema, a trovarle i necessari finanziamenti. Lavorare con lei è come stare sulle montagne russe… non ti annoi mai! Da grande regista di teatro quale è, Emma ha avuto una grande cura nel valorizzare le caratteristiche teatrali del suo cinema senza mai ridimensionarle. Durante le riprese ha vissuto non come regista dietro la camera, ma come un’anima dentro il gruppo delle sorelle. Ha sentito le loro azioni e a volte le ha modificate allontanandosi dalla sceneggiatura per adeguarsi all’energia che sentiva in quel preciso momento. Questo tipo di improvvisazione ha regalato al film uno dei suoi punti di forza, poiché permette allo spettatore di entrare in quello stesso gruppo, con quella stessa intensità. La vicenda narrata nel film è quella delle cinque sorelle Macaluso, che vivono nella periferia di Palermo, descritte in tre diversi momenti della loro vita: da bambine, in età adulta e infine da anziane. Alle cinque sorelle si è anche aggiunto un sesto personaggio: l’appartamento. La casa nella periferia di Palermo partecipa infatti attivamente a tutti gli sconvolgimenti della vita familiare, mutando insieme alle sorelle. Il film uscirà il 10 settembre distribuito da Teodora e invito vivamente il pubblico ad andare a vederlo al cinema, perché ritengo che la sala sia il luogo giusto dove vivere quest’esperienza.

Here we are di Nir Bergman, coproduzione israeliana, selezionato al festival di Cannes 2020. Una collaborazione internazionale importante.

Here we are racconta il rapporto tra un padre e un figlio con una disabilità che lo rende incapace di interagire con il mondo, in modo puro e vero, mai drammatico o triste. Credo questa sia in assoluto la cosa più straordinaria del film: nonostante il tema sia molto delicato, si prova malinconia, ma non tristezza. E sono orgogliosa di dire che questa è la prima coproduzione ufficiale tra Italia e Israele.

Progetti in cantiere?

Stiamo lavorando al primo film da regista di Giuseppe Battiston, scritto insieme a Marco Pettenello, che si trova già in uno stato relativamente avanzato. Le riprese erano previste per lo scorso maggio, ma a causa dell’emergenza Covid abbiamo rimandato al prossimo anno. È un film completamente diverso dai due precedenti, è una commedia che si avvicina un po’ al cinema di Mazzacurati, il più grande maestro di Giuseppe. Il cast è davvero straordinario e questa è una delle caratteristiche di Giuseppe regista: non lesinare sulla ricerca degli attori, anche la parte più piccola del film è affidata infatti a un bravissimo interprete. Due, questo il titolo, è una coproduzione internazionale con la Slovenia: tengo molto a costruire collaborazioni internazionali perché credo che lavorare con altri paesi sia un importante gemellaggio artistico e creativo, grazie al quale si incontrano tradizioni e culture diverse.

Fabrique è un giornale letto soprattutto dai giovani che amano il cinema e stanno muovendo i primi passi in questo mondo. Che consigli daresti loro, in base alla tua storia professionale?

Il primo consiglio che ci tengo a dare è quello di non mollare mai, perché quando si ha la fortuna di sapere ciò che si vuole si deve perseguire l’obiettivo con forza. Contemporaneamente a ciò credo sia fondamentale essere, passami il termine un po’ abusato, estremamente “liquidi”. È indispensabile possedere la capacità di ascoltare quello che il mondo ti propone e di adattarsi a situazioni diverse, perché sono tutte esperienze che alla fine ti migliorano e ti insegnano qualcosa di nuovo. Non ritengo esista un unico percorso da seguire o regole fisse da rispettare, perché l’unico percorso che ha senso è il tuo, ti costruisce mentre tu costruisci lui.

Se dopo di me potessi prendere un caffè con una persona per te importante, con chi lo prenderesti?

Non si può fare questa domanda a una mamma che lavora tante ore al giorno come me, perché ovviamente ti dice il proprio figlio! Il mio ha appena compiuto 12 anni e mi sorprende tutti i giorni, cambia continuamente e questo mi diverte e mi incuriosisce. In questi ultimi due anni così intensi ha accettato con pazienza i miei tempi, le mie mancanze, i miei entusiasmi e le mie incertezze: gli sono davvero grata.

 

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“Pecore in erba”: quando l’odio fa ridere https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/pecore-in-erba/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/pecore-in-erba/#respond Wed, 16 Dec 2015 17:30:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2420 Basta con questo razzismo! Anche gli antisemiti hanno il diritto di esprimere se stessi! Su questo (folle) assunto si basa Pecore in erba, brillante mockumentary confezionato dall’esordiente Alberto Caviglia. Per riflettere sull’antisemitismo, il coraggioso Caviglia, che si è fatto le ossa sui set di Ferzan Ozpetek come assistente alla regia, ha deciso di esplorare le […]

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Basta con questo razzismo! Anche gli antisemiti hanno il diritto di esprimere se stessi! Su questo (folle) assunto si basa Pecore in erba, brillante mockumentary confezionato dall’esordiente Alberto Caviglia.

Per riflettere sull’antisemitismo, il coraggioso Caviglia, che si è fatto le ossa sui set di Ferzan Ozpetek come assistente alla regia, ha deciso di esplorare le possibilità di un genere poco frequentato in Italia piegandolo a una romanità che trapela da ogni inquadratura. Pecore in erba (bisogna vedere il film per capire il titolo, diciamo che è un riferimento alla cultura calcistica…) è un film politico e al tempo stesso un pazzo diario in cui il regista esplora le proprie radici, romane ed ebree, riflettendo sulla discriminazione, sulle deformazioni storiche e sulla violenza subita dal popolo ebraico. E cosa c’è di meglio di una bella risata per svecchiare un tema seminale e proprio per questo già ampiamente affrontato?

«La scelta di usare la satira, nello specifico il mockumentary, per parlare di antisemitismo è stata un punto di arrivo» ci racconta Alberto. «Volevo aggiungere un punto di vista nuovo all’argomento per dargli profondità. Sono consapevole che in molti prima di me hanno affrontato questo tema, perciò ho scelto di ribaltare la prospettiva trasformando il protagonista della mia storia, l’antisemita Leonardo Zuliani, in un eroe dei nostri giorni. A quel punto la scelta del mockumentary è stata automatica».

Per amplificare ulteriormente la dimensione di follia con cui viene trattato il razzismo, Caviglia si è inventato addirittura una patologia sconosciuta dalla medicina tradizionale, l’antisemifobia, repulsione fisica all’ebraismo e alle sue manifestazioni. Basta, infatti, una melodia ebraica per provocare a Leonardo un attacco convulsivo. Riflettendo sui modelli a cui si è ispirato per il suo originale progetto, il regista non può esimersi dal citare Zelig: «Lo humor è nel DNA ebraico e Woody Allen è un maestro. Ma oltre a Zelig, il mio punto di riferimento è stato Forgotten Silver, geniale mockumentary di Peter Jackson che in pochi conoscono. In Italia il falso documentario è un genere inesplorato, perciò sapevo di muovermi su un terreno delicato. Ero consapevole che chi non conosce questo linguaggio avrebbe capito il mio film più tardi rispetto agli altri, ma le reazioni in sala sono state buone. Il pubblico si è divertito e anche la critica lo ha accolto bene. Resta l’amarezza al pensiero che prodotti come il mio rimangono in sala troppo poco tempo per sfruttare il passaparola, ma io ho fatto il film che volevo perciò sono soddisfatto».

Anche se i modelli di riferimento cinematografici citati da Caviglia sono stranieri, guardando il suo film non può non venire in mente certa tv satirica italiana. Complice la presenza di Marco Ripoldi del Terzo Segreto di Satira, che interpreta il presidente della Lega Nerd (versione intellettuale della Lega Nord), i riferimenti al piccolo schermo si sprecano. «Uno dei temi trattati nel film è proprio la comunicazione, la relatività della verità esposta dai media» conferma il regista «e le webserie si prendono gioco della realtà, perciò sono state uno dei miei punti di riferimento. Ma è il mockumentary che, per sua natura, spinge a coinvolgere personaggi della cultura e della tv». Personaggi che non hanno tardato a rispondere all’appello. A sorpresa, in Pecore in erba compaiono Enrico Mentana, Carlo Freccero, Vittorio Sgarbi, Corrado Augias, Ferruccio De Bortoli, Linus, Mara Venier, Giancarlo De Cataldo, Giancarlo Magalli e tanti altri volti noti che si sono prestati al gioco interpretando se stessi.

Nel raccontare di come sia riuscito a convincerli a partecipare al film, Alberto Caviglia non si sbilancia, tenendo per sé gli aneddoti più gustosi, ma ci svela che «alcuni, come Carlo Freccero, hanno dimostrato grande entusiasmo; altri, come Gipi e Sgarbi, si sono fatti pregare prima di dire di sì. Alla fine, però, tutti hanno accettato di farsi prendere in giro e di prendere in giro il proprio ruolo». Un caso a parte è rappresentato dal cast di Paura d’odiare, dramma fictional ispirato alla vita di Leonardo Zuliani dai toni molti vicini alla soap più infima, i cui frammenti vengono genialmente incastonati tra le finte immagini di repertorio e le interviste. A interpretare Zuliani – a fianco del “titolare” Davide Giordano – è Vinicio Marchioni. Con lui vi sono Margherita Buy nei panni della madre, Carolina Crescentini in quelli della fidanzata, mentre il padre ha il volto severo di Francesco Pannofino. La coppia Crescentini-Pannofino, peraltro, rievoca quella grande satira dell’industria televisiva che è Boris. «È vero che ho riunito parte del team di Boris, ma non era voluto. Erano ruoli marginali, quasi mi vergognavo a proporre la sceneggiatura a Carolina. Ma lei e Vinicio, dopo averla letta, hanno accettato immediatamente. Quanto a Margherita Buy, era oltre ogni mia ambizione averla sul set, ma anche lei ha dimostrato grande sense of humor».

 

 

In questo gioco di specchi tra realtà e finzione, non sono però reali i membri della comunità ebraica che compaiono nel finale. Alberto ci tiene a puntalizzare di non aver subito veti o censure nella realizzazione del film, ciononostante ha deciso di non calcare troppo la mano. «Se è vero che l’umorismo ebraico ha radici antiche, è vero anche che la comunità ebraica di Roma, in passato, non ha brillato per ironia o autoironia. L’importante è che tutti abbiano compreso il messaggio del mio film. A Roma si sono verificati episodi di intolleranza, ma lo stesso è accaduto in altre parti d’Italia. Non è per questo che ho scelto di ambientare qui il mio film. Roma è la mia città. Trastevere è il quartiere che amo ed è stato naturale per me puntare la macchina da presa sui luoghi che conosco». E proprio a Trastevere vive e si muove Leonardo Zuliani. Qui il giovane affetto da antisemifobia concepisce tutte le sue trovate razziste, accolte con successo dal pubblico. Dal fumetto antisemita Bloody Mario, ispirato alle molestie nei confronti del compagno di scuola ebreo, alla linea di abiti Baci Ebreacci, dalla New Bible Redux, edizione della Bibbia da cui sono stati espunti tutti i riferimenti agli ebrei, al gruppo neonazista greco Tramonto di Bronzo, Pecore in erba è un caleidoscopio di trovate satiriche nonsense. Come spiega il regista «in fase di scrittura, ho scoperto che il film si stava trasformando in una sorta di meraviglioso contenitore e ogni giorno inserivo nuove trovate. Il finale è una follia, ma ho scelto di concludere rivolgendomi all’unico personaggio sano del film, il nonno di Leonardo [Omero Antonutti]. L’importante era mettere in chiaro che il mio non era un film antisemita e non volevo che ci fossero ambiguità al riguardo». Ambiguità che invece appartengono al personaggio di Leonardo Zuliani, in apparenza quanto di più lontano dai classici naziskin haters degli ebrei. Al posto del cranio rasato, Leonardo ha una chioma di riccioli fluenti, accompagnati dagli occhi sgranati e da un animo, in apparenza, sensibile. Ma nel fitto puzzle di testimonianze e interviste in cui si parla di lui, non sentiamo mai la sua voce.

«Leonardo non parla perché non possiede un’ideologia» chiarisce Alberto. «Lui odia gli ebrei, ma non è in grado di spiegare la ragione del suo rifiuto nei loro confronti. Non avrei mai voluto sentire la sua voce». L’ultima curiosità riguarda Ferzan Ozpetek, con cui Caviglia ha collaborato per sette anni. Eppure la sua opera d’esordio è quanto di più lontano si possa concepire dal cinema del regista turco. La spiegazione è semplice: «Ozpetek mi ha insegnato tutto ciò che so sul mestiere del regista, ma stavolta la sfida era metterci del mio!».

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From Fabrique to Industry https://www.fabriqueducinema.it/education/tavole-rotonde/dalla-fabbrica-allindustria/ https://www.fabriqueducinema.it/education/tavole-rotonde/dalla-fabbrica-allindustria/#respond Tue, 29 Sep 2015 13:58:13 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=1970 Indagare sulle possibilità di crescita della capacità di vendita dei prodotti audiovisivi italiani nel mercato internazionale. Prepararsi all’avvento delle nuove tecnologie e investire nei nuovi autori giovani italiani. Noi crediamo sia la giusta strategia per il futuro. Per questo Fabrique ha dato vita a un nuovo filone di analisi e studio dell’industria cinematografica italiana, che […]

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Indagare sulle possibilità di crescita della capacità di vendita dei prodotti audiovisivi italiani nel mercato internazionale. Prepararsi all’avvento delle nuove tecnologie e investire nei nuovi autori giovani italiani. Noi crediamo sia la giusta strategia per il futuro.

Per questo Fabrique ha dato vita a un nuovo filone di analisi e studio dell’industria cinematografica italiana, che avrà due facce: sulla rivista cartacea, grazie a una serie di dossier che studieranno a fondo le tecniche e i modi di fare industria con il cinema; dal vivo, con  tavole rotonde che ospiteranno i più eminenti specialisti della filiera industriale presa in esame.

L’iniziativa è stata inaugurata con due appuntamenti: il primo durante il festival del cinema di Venezia e il secondo a Roma.

Nella prima tavola rotonda (il 5 settembre presso l’Hotel Excelsior a Venezia Lido) il focus è stato sulle realtà competitive italiane dell’americana Netflix ormai prossima allo sbarco nel Belpaese, ovvero le piattaforme nostrane già dotate delle tecnologie per la diffusione di contenuti video e le società di produzione e il loro piani d’azione per il futuro immediato. All’incontro veneziano hanno partecipato gli amministratori e i direttori responsabili di Chili Tv, Mymovies e Bim, mentre per la parte della produzione Gianluca Arcopinto, Cross Production (ex Magnolia Fiction), Kahuna Films, Alberini Films e Roberto De Feo (con il contributo di Tempi Moderni e Il festival del cinema di Catania).

Ascolta l’audio della tavola rotonda di Venezia

Dalla tavola rotonda è emerso che l’Italia è pronta e ha la sua risposta competitiva al colosso Usa: anche i produttori si dicono pronti a investire su serie di ampio respiro internazionale adatte al nuovo modo di fruire i contenuti. Da più parti si è tuttavia convenuto sulla necessità per l’industria audiovisiva italiana di lavorare di più sulla scrittura e ideazione di nuove storie vendibili nel mercato estero.

Questo l’input che ha portato all’idea di organizzare un nuovo nuovo incontro sulla scrittura seriale, che si è svolto al MAXXI di Roma lo scorso 26 settembre.

Ne hanno discusso gli esperti delle serie televisive che secondo noi rappresentano l’avanguardia della nuova generazione, gli sceneggiatori e editor di quei titoli che già oggi sono innnovativi e hanno la possibilità di essere esportati in tutto il mondo.

Fra di loro Ottavia Madeddu de I delitti del barlume (Sky), Viola Rispoli di Non uccidere (Rai); Stefano Sardo di 1992 (Sky), Mauro Uzzeo di Dylan Dog e Orfani (Bonelli Editore), Tommaso Renzoni, sceneggiatore per lo Youtuber Claudio di Biagio (Youtube), e il vincitore del FictionLab (della Regione Piemonte) Umberto Francia, responsabile di Writers Guild Italia.
Ad arricchire il dibattito l’avvocato esperto in  tutela del diritto d’autore sul web Giovanni Maria Riccio.

Infine, per Fabrique Tommaso Agnese ha raccontato la sua esperienza di producer nella società francese Elephant.

Ha moderato l’affolatissimo workshop Gabriele Niola, esperto di nuove tecnologie e webserie, che ha illustrato i diversi percorsi di scrittura che l’avvento del web ha portato con sé e le differenze tra scrivere per la tv generalista gratuita e scrivere per emittenti specializzate con canali dedicati al cinema a pagamento.

Ascolta l’audio della tavola rotonda di Roma

Le due tavole rotonde Fabrique du Cinéma su l’avvento di Netflix  e la risposta degli autori italiani  sono eventi culturali promossi da:

Tempi Moderni, UBI Banca, V°73

 

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Making of “Street Style” https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/making-of-street-style-2/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/italia/making-of-street-style-2/#respond Thu, 03 Sep 2015 13:48:21 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=1867 I sei giovani talenti italiani con noi al festival di Venezia e sulla carta stampata di Fabrique n. 11. Ci si vede tutti al Lido il 5 settembre, ma noi siamo già in ottima compagnia! Thanks to: V73, Cotril  

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I sei giovani talenti italiani con noi al festival di Venezia e sulla carta stampata di Fabrique n. 11. Ci si vede tutti al Lido il 5 settembre, ma noi siamo già in ottima compagnia!

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