Festival di Locarno Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 07 Nov 2024 16:53:47 +0000 it-IT hourly 1 Sulla terra leggeri: diario d’amore https://www.fabriqueducinema.it/focus/sulla-terra-leggeri-diario-damore/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/sulla-terra-leggeri-diario-damore/#respond Thu, 07 Nov 2024 16:53:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19416 Presentato in concorso a Locarno e ora al Medfilm Festival di Roma (11 novembre) Sulla terra leggeri, il film d’esordio di Sara Fgaier, è una storia composta un tassello alla volta. È il racconto dell’amnesia di un uomo (Gian, interpretato da Andrea Renzi) che attraverso un vecchio diario e l’aiuto della figlia (Sara Serraiocco), “ritrova” […]

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Presentato in concorso a Locarno e ora al Medfilm Festival di Roma (11 novembre) Sulla terra leggeri, il film d’esordio di Sara Fgaier, è una storia composta un tassello alla volta. È il racconto dell’amnesia di un uomo (Gian, interpretato da Andrea Renzi) che attraverso un vecchio diario e l’aiuto della figlia (Sara Serraiocco), “ritrova” la moglie scomparsa e comprende l’unica verità utile a stabilirsi un’identità: che da soli non si è nulla, in due ci si riconosce.

Fgaier ha due corti all’attivo (Gli anni, 2018, selezionato a Venezia nella sezione Orizzonti e vincitore del Nastro d’argento 2019 per la categoria Corti Doc; L’umile Italia, 2014) e alle spalle una carriera da montatrice e produttrice insieme a e per Pietro Marcello – ha lavorato con lui su La bocca del lupo e Bella e perduta e fondato con lui la casa di produzione Avventurosa. «Tutto è cominciato mentre lavoravo al mio ultimo cortometraggio, Gli anni [ambientato in Sardegna, ndr]. Mi sono imbattuta in alcune immagini del carnevale sardo [di cui si vede un estratto all’interno di Sulla terra leggerindr] e ho voluto approfondire la dimensione che vedevo spalancarsi davanti a me. Ho sempre lavorato con immagini di archivio, è una ricerca che integro nella mia pratica, così come il lavoro con materiali diversi. Poi queste prime impressioni si sono legate alla lettura di un libro di Julian Barnes, Livelli di vita».

«Questo – continua Fgaier – mi ha portato al filo conduttore dell’opera: mettere insieme due cose che sarebbero canonicamente distanti, che siano immagini o persone ma anche stati di vita. Torniamo al carnevale con la sua compresenza di lutto e festeggiamento, di vita e di morte. È una ricerca molto interessante anche dal punto di vista del montaggio, perché queste giustapposizioni aprono una dimensione collettiva: non c’è più solo il racconto di un “io”, ma la prospettiva si ramifica nel “noi” della società. Nel film per me la contrapposizione più forte, in questo senso, è il rimanere in vita in presenza della morte, il ricercare la persona amata nel dolore, quando questa non c’è più. Sono esperienze che riconfigurano il tempo e lo spazio. Che ci riportano a istinti che potremmo aver sopito, dimenticato. L’idea alla base di tutto è: che cosa succede se l’amore della nostra vita ci dimentica? Non perdiamo noi una parte di ciò che siamo, l’altro una parte di ciò che è?».

In questa ricerca si parte dall’incertezza: le immagini si allargano e i contorni si sfumano. Noi con Gian non sappiamo dove risieda la verità, non ci è dato sapere se la raggiungeremo. Anche perché, cercando, Gian si avvale di un suo diario: per quanto contenga la soluzione, all’inizio sembrano le parole di un altro, niente torna, non ci si ritrova. Il vero si confonde nel falso.

«È in questo senso che, come dicevo, la storia nasce dall’accostamento di componenti distanti: la non-memoria di Gian, quindi le sue impressioni, e le parole contenute nel diario, che per quanto ipoteticamente veritiere vengono messe in discussione. Chi è Gian, dov’è Gian? Lui esiste all’incrocio tra queste due versioni del tempo, e dunque del mondo, nell’equilibrio e nelle relazioni. Che vuol dire anche tra la storia e la Storia, tra le mie immagini e quelle d’archivio. In particolare non volevo subordinare queste ultime alla trama, non volevo che fossero né illustrative né metaforiche, ma che avessero una propria esistenza ed economia. Per me voleva dire mettersi in discussione anche con la nostra epoca storica, presentando un modo di vivere, e ricordare, diverso. Quando una persona se ne va non muore un singolo, ma muore il mondo che si portava dietro. Amare una persona non è solo un sentimento, è una forma di interpretazione della realtà, è un’epoca tutta. Ecco, l’archivio per me rappresenta l’epoca che Gian sta cercando di ritrovare».

Trovare il legame tra memoria e amore: questo, mi dice Fgaier, è la chiave di tutto. È un baratro, se pensiamo alle categorie che siamo soliti usare per validare la nostra esperienza nel mondo e tenerci a galla. E una volta rotto questo nesso, infatti, Gian rischia di affogare. Per trovare le immagini che ben rendessero questa dichiarazione, la regista ha cercato per circa tre anni. Altre invece erano vecchie conoscenze, impressioni durature che non hanno desistito. Una tecnica a collage per attrazioni, o psicogeografia, che si ritrova anche nelle parole pronunciate nel mistero dei ricordi perduti di Gian. «Le voci off provengono da testi miei, da testi che ho letto, testi che ho trovato. Avevo la sensazione di aver raccolto materiale per tanto tempo, quasi senza essermene resa conto. E si sono uniti tutti in un’unica figura. Come se mi fossi preparata per questo film più a lungo di quanto credessi».

Sulla terra leggeriNella serendipità, una guida pratica si ritrova: è Walter Murch, regista e montatore di Touch of Evil, Apocalypse Now, Ghost, Il Padrino parte III e Il talento di Mr. Ripley per citarne alcuni. «Sono autodidatta», spiega Fgaier, «ho studiato storia del cinema all’università e ho iniziato subito a lavorare. Sapevo che mi interessava il cinema ma non sapevo bene in che ottica. Ho cominciato sul documentario e come montatrice, a posteriori sono contenta perché mi hanno dato l’opportunità di scoprire vari aspetti del mestiere, di provare la mano su varie cose e scoprire il mio stile. L’incontro con Walter è arrivato a 29 anni, nel momento perfetto. L’ho seguito per un anno e mezzo, ho lavorato a un suo film e poi, per Sulla terra leggeri, lui ha fatto da consulente, ci siamo confrontati molto. Gli sarò sempre grata. Lavorare con qualcuno che fa il tuo lavoro, vedere come fa il tuo lavoro… è importantissimo».

Un parte importante nel percorso del film l’ha giocato il Torino Film Lab, attivo del 2008, che in più di 15 anni ha contribuito a realizzare più di 200 opere tra sceneggiature accompagnate durante la fase di sviluppo e opere con sceneggiatura già in stato avanzato, poi aiutate durante le fasi finali della produzione.

«Accompagniamo i progetti per un anno, così da formare i professionisti anche per il futuro». Così Mercedes Fernandez, Managing Director TorinoFilmLab, che come il Torino Film Festival si situa sotto l’egida del Museo del Cinema del capoluogo piemontese. «Quello che facciamo non è solo affiancare tutor mirati a seconda delle esigenze del progetto, ma anche spingere i partecipanti di ogni gruppo, di solito dai 10 ai 20, a lavorare con i colleghi creando un ciclo di feedback virtuoso. Vogliamo creare una safe zone che permetta ai ragazzi di mettersi a nudo di fronte ai colleghi, di creare un confronto profondo e aperto. Non è facile quando si crea, non lo è nei confronti di potenziali “competitor” come altri registi o sceneggiatori».

Per Sulla terra leggeri gli interventi sono stati di finalizzazione – era infatti inserito nel programma FeatureLab. E poi, dopo il TFL Meeting Event, il co-production market di Torino Film Lab che si tiene in concomitanza con il Torino Film Festival a novembre di ogni anno, il Lab ha anche assegnato un premio a Fgaier per gli ottimi risultati portati a casa. Spiega Fernandez: «Per quanto le success stories del Torino Film Lab siano tante, riuscire ad arrivare in fondo a un percorso con profitto non è mai banale. Siamo molto contenti e orgogliosi di questi risultati. È un ottimo segnale per noi ma anche per tutta l’industria».

Bello che una storia di ponti, e transizioni, possa chiudersi sul futuro.

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Patagonia, l’opera prima di Simone Bozzelli in concorso a Locarno https://www.fabriqueducinema.it/festival/patagonia-lopera-prima-di-simone-bozzelli-in-concorso-a-locarno/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/patagonia-lopera-prima-di-simone-bozzelli-in-concorso-a-locarno/#respond Tue, 11 Jul 2023 10:50:36 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18564 L’universalità di ogni relazione e i conseguenti rapporti di potere. Indaga su questo il cinema di Simone Bozzelli, regista under 30 già vincitore della SIC a Venezia con il corto J’ador nel 2020, mentre con Giochi ha vinto nella sezione Italia Corti al Torino Film Festival nel 2021. L’exploit è arrivato con il videoclip dei […]

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L’universalità di ogni relazione e i conseguenti rapporti di potere. Indaga su questo il cinema di Simone Bozzelli, regista under 30 già vincitore della SIC a Venezia con il corto J’ador nel 2020, mentre con Giochi ha vinto nella sezione Italia Corti al Torino Film Festival nel 2021. L’exploit è arrivato con il videoclip dei Måneskin, I wanna be your slave, ma adesso tutti attendono la sua opera prima, Patagonia, che sarà presentata in anteprima assoluta in concorso al Festival di Locarno (2-12 agosto).

Hai lavorato e studiato da regista di cinema. Girando il videoclip dei Måneskin, come hai nuotato in acque così diverse?

Quello che ho cercato di ereditare dal corto è il processo di ricerca del concept. Grandissima ricerca visiva e teorica su determinati temi che spesso vado a toccare nei film. Per il videoclip mi sono lasciato ispirare dalla fotografia di Robert Mapplethorpe, riuscendo a fare tutte quelle cose difficili da realizzare con il cinema. Come grandangoloni spinti, fish-eye, rotazione a 360° della telecamera, l’uso di certe luci rosse.

E adesso con il tuo primo lungometraggio, Patagonia, che cosa ci aspetta?

Innanzitutto parto da una storia estremamente personale. Da luoghi e persone che conosco e ho conosciuto. Patagonia parla di Yuri, un ragazzo molto ingenuo che a una festa di compleanno per bambini incontra un animatore che vive per stare sempre su di giri. Ha fatto delle feste il suo mestiere, è ambiguo, sfuggente, con dei picchi di love bombing che lo fanno oscillare tra calore e freddi improvvisi. I due iniziano a viaggiare su un camper, di festa in festa, instaurando un rapporto di dominio e sottomissione psicologica, per poi spostarsi in un altro tipo di ritrovo: un rave.

Quindi lo vedi più come un coming of age o un dramma sentimentale?

Anch’io all’inizio pensavo fosse un coming of age, ma il mio distributore mi ha stuzzicato: «No, è uno young adult». Al ché mi son detto che un po’ tutti i film sono coming of age perché in ogni storia c’è un racconto di formazione, un percorso dell’eroe che alla fine cambierà inevitabilmente i personaggi. Hai ragione, feste, viaggio e rave ti riportano al coming of age, ma a me interessava seguire il protagonista nella fascinazione per una persona arrivando a far cose che non immaginava possibili. Tutti i miei film rispondono alla domanda: cosa sono disposto a fare per la persona che amo? E qui esploro la possibilità di fare cose non per sé stessi ma per compiacere l’altro. E fin dove si è disposti ad arrivare per questo.

PatagoniaQuindi hai ritagliato la tua storia pensando anche a una certa universalità?

Tutte le relazioni, sentimentali, lavorative, familiari, master & slave, sono potenzialmente universali perché sempre piene di sacrifici, piccole molestie morali e ribaltamenti nei ruoli. È questo corollario di piacere/sofferenza che mi piace raccontare. Ma a livello di commozione e spietatezza la mia reference è stata La strada di Fellini, con l’ingenua Gelsomina portata in viaggio dal violento girovago Zampanò.

E lo hai anche girato in Abruzzo con attori abruzzesi.

Si, per me l’Abruzzo è stato importante come spirito natale: una parte del film è stata girata a Silvi Marina e Montesilvano, dove abbiamo ottenuto un’ottima collaborazione dai comuni per i permessi. Lì abbiamo trovato le location per le feste dei bambini. Invece a Roma, in una cava della Magliana, abbiamo allestito il set per il rave. E sull’Abruzzo, il mio casting director Davide Zurolo mi ha proposto alcuni volti d’attori del territorio che potevano interessarmi. Uno era Andrea Fuorto. Inizialmente mi ero impuntato sul prendere il protagonista dalla strada, ma dopo aver visto Andrea tra self-tape e provino ho detto ok, è lui. Però l’altro protagonista, Augusto Mario Russi, lo abbiamo incontrato a un rave. È il suo esordio.

L’estetica nei tuoi cortometraggi ricorda Xavier Dolan per lo guardo intimo che poni sui tuoi personaggi, con una macchina da presa che sta sempre col fiato sul collo.

Io sono ossessionato dai corpi. Quando vado in giro è sempre il mio oggetto d’interesse. Per il mio corto, Giochi, portavo sempre con me i biglietti da visita e se vedevo, anche in metro, qualcuno con un corpo interessante lo avvicinavo per farmi inviare foto per il mio film. Quanto alla vicinanza della macchina da presa era dovuta, soprattutto nei primi corti, alla mancanza di scenografia per una questione economica. Non mi potevo permettere uno scenografo, ma sul casting mi ritrovavo ampia scelta per capacità ed energia. Penso che i limiti che un regista ha all’inizio, poi diventeranno stile. Sì, i limiti fanno lo stile.

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Il legionario, l’esordio avvincente di Hleb Papou https://www.fabriqueducinema.it/cinema/recensioni/legionario/ Tue, 10 Aug 2021 13:24:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15924 A Locarno, nel concorso “Cineasti del presente”, Hleb Papou ha presentato in prima mondiale il suo esordio nel lungometraggio. Il legionario è il risultato del lavoro di sviluppo che Papou ha condotto – insieme a Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi – sull’omonimo cortometraggio realizzato come prova di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Distribuito da […]

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A Locarno, nel concorso “Cineasti del presente”, Hleb Papou ha presentato in prima mondiale il suo esordio nel lungometraggio. Il legionario è il risultato del lavoro di sviluppo che Papou ha condotto – insieme a Giuseppe Brigante ed Emanuele Mochi – sull’omonimo cortometraggio realizzato come prova di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia. Distribuito da Fandango, il progetto è stato scelto da Clemart durante un pitch interno alla scuola di cinema, rendendo possibile così un quasi immediato approdo al formato lungo per il regista neodiplomato.,

Hleb Papou, classe ’91, è nato in Bielorussia; trasferitosi in Italia appena adolescente, si è laureato al Dams e poi ha seguito il triennio di regia al CSC. Nella sua prima prova da professionista “adulto” porta la sua passione per certo cinema main stream (l’action drama francese e statunitense, il nuovo polar, certo cinema militaresco, il prison film), una ormai non comune intelligenza politica, un’istanza da narratore popolare che si confronta con il mondo in cui vive e con il pubblico al quale vuole rivolgersi.

Il nucleo d’origine è ancora vistosamente quello al centro del corto: un celerino di seconda generazione, nero figlio di una donna migrante, integrato nella comunità chiusa del corpo della Polizia della mobile al quale partecipa convintamente, dentro il quale – per converso – nasconde e tace la posizione politica e la condizione di vita di madre e fratello che ha in parte rinnegato, si ritrova costretto a scegliere tra la violenza ordinata dallo Stato e la difesa della sua famiglia d’origine.

Girato durante i mesi più caldi della seconda ondata di pandemia, il film risente del ritmo forsennato al quale ci si è visti costretti a lavorare a causa di un contagio sul set durante le riprese e del conseguente lungo blocco delle attività; la scarsa esperienza del regista non gli ha impedito tuttavia di tenere saldo il timone, anche se qualche elemento è inevitabilmente sfuggito a un controllo ferreo (la direzione degli attori avrebbe richiesto una “registrata” prima di considerare “buone” diverse inquadrature). Nonostante tutto questo e nonostante lo script fatichi a trovare una sua forma linguistica credibile (non sempre il ricalco pedissequo del vero produce il verosimile), Il legionario dimostra un autentico desiderio di scontrarsi frontalmente con la realtà e di raccontarla a un pubblico vasto, attraversandone contraddizioni dilaganti e quotidiane ossessioni.

Così la vicenda del protagonista – buono e cattivo, nero ma docilmente adeguato al birignao fascistoide nel quale s’immerge dentro e fuori il tempo del lavoro, italiano e straniero e forse per questo così tanto avvinghiato al feticcio della legge dello Stato in cui vive – diventa il diorama implicito di alcune delle tensioni dalle quali è agitata e divisa la società italiana dei nostri giorni; con i personaggi che gli si muovono intorno quasi ordinati in teorie di caratteri rispetto ai quali il protagonista agisce e reagisce. Papou procede agilmente evitando psicologismi, pathos, pseudointellettualismi (indulgendo semmai solo a qualche schematismo sociologico), inanellando un vortice di scene brevi che rapidamente e inesorabilmente sembrano stringere il poliziotto in una vertiginosa e soffocante spirale chiusa.

Spirale che conduce infine alla scena madre, un finale che, saggiamente, non punta sulla sorpresa né sull’enfasi dell’azione, ma sulla soluzione del turbine di violenza, diffidenza, sospetto e segregazione in uno scambio di sguardi che sintetizza e distilla l’essenza della difficoltà complessa della relazione di impossibile (?) solidarietà tra diversi, del rifiuto di autoconfinamento e reclusione dalla parte dei reietti.

 

 

 

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