festival di Cannes Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 15 Jul 2022 10:24:49 +0000 it-IT hourly 1 Nostalgia di Mario Martone: Favino detective del passato nelle viscere di Napoli https://www.fabriqueducinema.it/focus/nostalgia-di-mario-martone-favino-detective-del-passato-nelle-viscere-di-napoli/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/nostalgia-di-mario-martone-favino-detective-del-passato-nelle-viscere-di-napoli/#respond Wed, 25 May 2022 06:56:29 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17238 Mario Martone è un artista infaticabile. Senza menzionare nel dettaglio tutte le incursioni a teatro e nell’opera lirica (che comunque, solo nell’ultimo anno e mezzo, hanno registrato delle vette ne Il filo di mezzogiorno, da Goliarda Sapienza, e nella trilogia di film-opera per la Rai, Traviata, Barbiere di Siviglia e Bohème), Martone si è messo […]

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Mario Martone è un artista infaticabile. Senza menzionare nel dettaglio tutte le incursioni a teatro e nell’opera lirica (che comunque, solo nell’ultimo anno e mezzo, hanno registrato delle vette ne Il filo di mezzogiorno, da Goliarda Sapienza, e nella trilogia di film-opera per la Rai, Traviata, Barbiere di Siviglia e Bohème), Martone si è messo al lavoro sul suo ultimo film immediatamente dopo le impegnative riprese di Qui rido io. Anzi, in realtà è successo durante: come ha raccontato in una intervista rilasciata a Film TV Ippolita di Majo, il lavoro su Nostalgia era cominciato nel lockdown del 2020, che di fatto spezzò in due le riprese del film su Eduardo Scarpetta, interrotto dopo gli interni a Roma e al quale mancavano due settimane di esterni da girare a Napoli.

Nostalgia è un romanzo postumo di Ermanno Rea, grande scrittore napoletano che ha fatto letteratura sublime attingendo alla sua esperienza di giornalista cominciata negli anni ’50 all’Unità di Napoli, all’angiporto Galleria (oggi piazzetta Matilde Serao), una redazione che all’epoca era una palestra eccezionale e si ammantò, successivamente, di alone leggendario. Dopo Mistero Napoletano, La dismissione, Napoli Ferrovia e Il sorriso di don Giovanni (per citarne alcuni), Rea non fece in tempo a vedere pubblicato Nostalgia, uscito nel 2017, un anno dopo la morte dell’autore.

Mario Martone sul set di Nostalgia
Mario Martone in una pausa delle riprese di “Nostalgia” (ph: Elio Di Pace).

Al centro del romanzo, l’amicizia virile di Felice Lasco e Oreste Spasiano, inseparabili, simbiotici nel bene e soprattutto nel male, cresciuti nel Rione Sanità, il più misterioso e mistico dei quartieri antichi di Napoli, un quartiere di catacombe, di cimiteri, di riti sacri e pagani, di fondaci e palazzi monumentali, scavato nel tufo della collina di Capodimonte e al quale Ermanno Rea ha sempre fatto riferimento ed è sempre tornato, come in alcuni bei momenti di cui si legge già in Napoli Ferrovia.

Martone cominciò subito i sopralluoghi alla Sanità, accompagnato dal direttore della fotografia Paolo Carnera, e nel settembre del 2021 le riprese ebbero inizio. Per quanto ci sia potuta essere programmazione, il Rione Sanità non è stato uno sfondo neutro ma, formicolante della sua varia e febbrile umanità, ha avuto una vita propria che Martone è stato geniale ad accogliere e integrare dentro al film. Stabilito il campo base in un parcheggio nelle viscere del rione, agili furgoncini con le macchine da presa, le attrezzature per la presa diretta, i costumi e i fabbisogni di scenografia correvano avanti e indietro per i vicoli, la maggior parte della troupe sfrecciava in motorino per raggiungere più in fretta le location, la complicità degli abitanti aiutava ad avere a disposizione punti di vista privilegiati da balconi, terrazzi, cortili e vasci (i bassi).

Se nel romanzo Rea si cala nei panni di un narratore interno che racconta le vicende di Felice e Oreste, nel film Martone inventa un raffinato concerto di sguardi: a volte noi siamo Felice Lasco, altre volte, pedinandolo con la macchina a mano oppure seguendolo dall’alto con teleobiettivi strettissimi che lo isolano dallo sfondo, lo stiamo evidentemente spiando, come lo sta spiando Oreste Spasiano, l’amico perduto che Felice vuole ritrovare dopo quarant’anni di assenza da Napoli e di lontananza dall’anziana madre.

Ma non può bastare un affettuoso viaggio nella memoria: non può bastare a Oreste, che si è sentito tradito dall’amico che ha ricostruito la propria vita in un’altra città, in un’altra nazione, in un altro continente, e non basta neanche alla madre di Felice, giunta a un grado di consunzione raccontato da Martone con una pietas magistrale, che consegna a una ideale antologia alcune scene di questo film.

Pierfrancesco Favino Nostalgia
Pierfrancesco Favino.

La seconda, grande differenza rispetto all’opera di Rea è che il romanzo comincia dalla fine. Martone e di Majo, sfrondando la storia di ogni dettaglio cronachistico o giornalistico, hanno invece privilegiato uno svelamento progressivo della vicenda: Martone non vuole fare un film “sociale”, ma vuole raccontare un sentimento, una vicenda umana, e se Felice scende negli inferi, nel vero senso della parola, noi ci scenderemo con lui. E se si guarda Nostalgia da questa prospettiva, non si fa fatica a considerarlo un gemello, in chiave maschile, de L’amore molesto, dove la Delia di Anna Bonaiuto pure si trasforma in detective di un doloroso passato. E, a voler essere più naïf, il parallelismo non finisce qui: L’amore molesto è l’unico film di Martone a essere stato in concorso al Festival di Cannes, raggiunto proprio quest’anno da Nostalgia.

Infine, come sempre nei film di Martone, un accenno alla statura degli interpreti, fra nuove e antiche collaborazioni: Pierfrancesco Favino nei panni di Felice è monumentale, non solo per lo studio fatto sulla lingua, una commistione di napoletano, riacquisito poco a poco con l’avanzare del film, e l’arabo, la lingua del lavoro e dell’amore, ma per una caratterizzazione del personaggio che parte dal modo in cui cammina e arriva fino al modo in cui mangia e beve; l’orco Oreste Spasiano di Tommaso Ragno, chiuso nel suo fatiscente castello da cui domina il quartiere, nerboruto, animalesco nelle espressioni verbali e fisiche, una presenza così misteriosa e temibile che, arrivati alla fine del film, si potrebbe tentare una acrobazia interpretativa e immaginare che non esista, che sia un demone, uno dei tanti che infestano le grotte della Sanità; il padre Rega cucito addosso a Francesco Di Leva, che trasmette fedelmente al suo personaggio una missione che è propria della sua quotidianità, con il NEST di San Giovanni a Teduccio; sempre grandi, Aurora Quattrocchi nei panni della madre, Luciana Zazzera nel ruolo della commara e Nello Mascia, un po’ guantaio, un po’ angelo custode.

 

 

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Esterno notte, la sinfonia della storia di Marco Bellocchio https://www.fabriqueducinema.it/serie/esterno-notte-la-sinfonia-della-storia-di-marco-bellocchio/ https://www.fabriqueducinema.it/serie/esterno-notte-la-sinfonia-della-storia-di-marco-bellocchio/#respond Mon, 23 May 2022 08:44:45 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17222 Marco Bellocchio è prossimo agli 83 anni ma la sua linfa cinematografica è a un punto inarrivabile, per ispirazione, per ambizioni tematiche e visive, per profondità di indagine sul cinema, sulla Storia, perfino su se stesso: Esterno notte, l’opera monumentale che è stata presentata a Cannes e uscirà nelle sale italiane divisa in due tranche, […]

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Marco Bellocchio è prossimo agli 83 anni ma la sua linfa cinematografica è a un punto inarrivabile, per ispirazione, per ambizioni tematiche e visive, per profondità di indagine sul cinema, sulla Storia, perfino su se stesso: Esterno notte, l’opera monumentale che è stata presentata a Cannes e uscirà nelle sale italiane divisa in due tranche, da tre episodi ciascuna, è un richiamo al Buongiorno, notte del 2003 ma ne rappresenta il controcanto.

Un controcanto sinfonico nella misura in cui quello era una lettura cameristica di una pagina oscura della storia italiana: l’autore getta contro la sua creatura (peraltro, una creatura meravigliosa, considerabile un classico della modernità) un guanto di sfida, un processo condotto con il codice del cinema, cambia l’angolazione da cui osserva l’affaire Moro e lo espande in un affresco corale con tanti protagonisti, ognuno con una statura epica, avvolgendo il tutto nei toni foschi della fotografia di Francesco Di Giacomo e nella partitura drammatica, bellissima, di Fabio Massimo Capogrosso.

La prima grande virtù dell’opera di Bellocchio è già nella scrittura, e un plauso va tributato a Ludovica Rampoldi, Davide Serino, Stefano Bises e il regista stesso: la più coraggiosa e anche più vincente delle idee è stata quella di raccontare la prigionia di Moro attraverso le reazioni dei politici, dei suoi cari, dei brigatisti stessi. Un “colore”, come insegnano nelle scuole di sceneggiatura: un evento che non è in primo piano, ma influenza tutto quello che vediamo sullo schermo.

Mantenendo la struttura corale del racconto, ci sono comunque personaggi che si elevano a protagonisti di puntata (espressione televisiva, non proprio piacevole da usare per un’opera come questa): è il caso di Toni Servillo nel secondo episodio, straordinario per l’intensità sofferta che ha conferito a papa Paolo VI, dapprima apparentemente padrone della situazione quando illustra alla signora Moro “lo sterco del diavolo” e i suoi impieghi, ma poi in preda a una dolente crisi quando arriva il fatidico momento della scrittura della lettera ai brigatisti.

Ma su tutti, probabilmente, svetta il Cossiga di Fausto Russo Alesi, che già era stato Giovanni Falcone ne Il traditore: è stata decisiva la scelta in sceneggiatura di dare la giusta centralità al ministro degli interni, di fatto il primo a dover correre ai ripari quando la situazione precipita, quando c’è uno stato di allerta da gestire e gli equilibri non si decidono più nelle stanze del palazzo fra un compromesso e l’altro. Cossiga era molto affezionato a Moro, il loro rapporto è molto ben raccontato, e l’impossibilità di trovare una soluzione per l’amico rapito (nonostante l’imponente e avveniristico impiego di risorse investigative), la successiva crisi e il definitivo senso di colpa rendono il personaggio drammaturgicamente fondamentale.

Non si può non ammirare, infine, il Moro di Fabrizio Gifuni: il grande, grandissimo attore riesce a fugare fin dalla prima scena, fin dal discorso all’assemblea, il sospetto della semplice imitazione e grazie a un sapiente uso del corpo, delle mani soprattutto, il suo Moro è più vero del vero: la scena del ritorno a casa e della umile cena a base di uova è una vetta poetica, da parte sua e da parte di Bellocchio.

Esterno notteè più vicino a Todo modo e Cadaveri eccellenti che non ad altri film orientati verso la cronaca e la ricostruzione d’epoca: nella modellazione plastica degli uomini di potere, le cui fisionomie e fisicità sono esaltate, sottolineate, scolpite quasi a fare di loro delle maschere piuttosto che fac-simile storici fedelmente ricostruiti col trucco e il parrucco, Bellocchio raggiunge il difficile e sempre insidioso traguardo del grottesco. Ma sarebbe riduttivo limitare a questo aspetto la riuscita dell’opera di Bellocchio: come ha bene scritto su Quinlan Alessandro Aniballi, “Bellocchio si sta imponendo di fare grandi film, grandi affreschi storici. E meno male, viene da concludere. Perché, oltre a Martone, non c’è nessun altro nel cinema italiano contemporaneo che sia in grado di farlo, nessun altro che abbia la volontà, la voglia e la capacità di scavare a fondo nei nostri misteri e nelle nostre ambiguità, in quei fatti e in quegli snodi che in fin dei conti formano la nostra identità”.

 

 

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Piccolo corpo, Agata in viaggio verso il miracolo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/piccolo-corpo-agata-in-viaggio-verso-il-miracolo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/piccolo-corpo-agata-in-viaggio-verso-il-miracolo/#respond Wed, 09 Feb 2022 08:56:35 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16762 Accolto con favore alla Semaine de la Critique dell’ultimo Festival di Cannes, esce domani al cinema Piccolo corpo di Laura Samani: un film inconsueto che, tra realismo e favola, recupera la tradizione del racconto popolare e dei fratelli Grimm. Siamo agli inizi del Novecento quando in un’isoletta italiana del Nordest Agata partorisce una bimba morta. […]

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Accolto con favore alla Semaine de la Critique dell’ultimo Festival di Cannes, esce domani al cinema Piccolo corpo di Laura Samani: un film inconsueto che, tra realismo e favola, recupera la tradizione del racconto popolare e dei fratelli Grimm.

Siamo agli inizi del Novecento quando in un’isoletta italiana del Nordest Agata partorisce una bimba morta. Secondo la religione cattolica, l’anima di questo piccolo corpo è condannata a vagare per sempre nel limbo. La giovane donna viene però a conoscenza dell’esistenza di un santuario, nelle innevate montagne del nord, in cui i bambini vengono miracolosamente riportati in vita per l’attimo necessario a battezzarli. Agata inizia così un lungo e incerto viaggio per dare un nome alla bambina e potersi riunire di nuovo a lei nella vita ultraterrena.

La 32enne regista e sceneggiatrice triestina Laura Samani, con alle spalle il solo cortometraggio di diploma del Centro Sperimentale La santa che dorme, firma un’opera prima sentita e già matura dal punto di vista stilistico, recitata in dialetto e quasi esclusivamente da attori non professionisti, che abbiamo voluto approfondire con l’autrice.

Da dove nasce l’idea alla base di Piccolo corpo?

L’ispirazione arriva dai pellegrinaggi avvenuti a partire dal 1500 in Friuli-Venezia Giulia, come in tutto l’arco Alpino, verso i cosiddetti santuari del respiro, luoghi in cui si diceva che grazie alla forza della preghiera i bambini nati morti potessero compiere un unico respiro e ricevere il sacramento del battesimo. La storia dei miracoli di Trava, che non conoscevo, mi è stata raccontata da un signore friulano qualche anno fa e ne sono rimasta subito molto affascinata. Dai documenti risulta che a intraprendere questi viaggi fossero gli uomini e così, attratta da ciò che solitamente viene omesso dalle narrazioni ufficiali, ho iniziato a pensare insieme ai due co-sceneggiatori Marco Borromei ed Elisa Dondi a cosa sarebbe successo se a dirigersi verso il santuario fosse stata una madre.

Il tuo esordio è una co-produzione tra Italia, Francia e Slovenia. Qual è stata la genesi produttiva del film?

Nel 2016 ero al Festival di Cannes per presentare in Cinéfondation La santa che dorme e a un padiglione del mercato mi è stata presentata Nadia Trevisan di Nefertiti Film. Pur essendo entrambe friulane, non ci eravamo mai incontrate. Si è trattato di un momento fortunato, in quanto io ero alla ricerca di una casa di produzione che comprendesse la necessità di ambientare il film in Friuli-Venezia Giulia e Nefertiti stava per la prima volta cercando una collaborazione con un nuovo autore, dopo aver prodotto principalmente i lavori di Alberto Fasulo. In seguito, abbiamo avuto la possibilità di aprirci progressivamente alla co-produzione coinvolgendo Danijel Hočevar, un produttore sloveno molto stimato a livello europeo con il quale Nadia aveva già collaborato in precedenza, e Thomas Lambert, produttore francese che abbiamo conosciuto nel contesto del prezioso Torino Film Lab, cui abbiamo partecipato per due anni consecutivi.

Piccolo corpoIl rapporto con la fede e la religione era al centro anche de La santa che dorme. Cosa ti affascina di questo tema?

Come quasi tutti in Italia ho avuto un’educazione cattolica e per molti aspetti che riguardano la narrazione sono attratta da quella zona grigia in cui la superstizione e la ritualità pagana si mescolano con il cattolicesimo. In realtà, però, Piccolo corpo e La santa che dorme sono interconnessi fin dall’inizio perché la persona che mi ha parlato dei miracoli di Trava lo ha fatto in quanto sapeva del mio cortometraggio precedente. Si tratta quindi di un collegamento tematico, o di arena del racconto, che non ho fatto io per prima. In qualche modo è la storia di Piccolo corpo ad avermi trovata e non viceversa.

Per immergere lo spettatore nel viaggio della protagonista, la regia si alimenta dell’uso esclusivo della macchina a mano e perlopiù di inquadrature lunghe.

 L’intento in effetti era proprio questo. Con il direttore della fotografia Mitja Licen abbiamo scelto la macchina a mano perché fin da subito la volontà era quella di viaggiare insieme ad Agata, sentendo l’irregolarità del terreno e la fatica del viaggio. Il cavalletto lo abbiamo usato solo in un paio di momenti, che non sono poi neanche rientrati nel montaggio finale. L’idea iniziale era anche di realizzare la maggior parte delle scene con dei piani sequenza, ma su questo poi l’arrivo della pandemia ci ha fortemente condizionato. Quando siamo tornati sul set dopo aver dovuto interrompere le riprese per diversi mesi, avevamo meno tempo a disposizione e abbiamo dovuto trovare soluzioni linguistiche più rapide e tutelanti. Basti pensare che per realizzare il piano sequenza della prima scena, quella del rito, ci abbiamo messo un’intera giornata. Per restituire l’immersività dell’esperienza del viaggio, per noi è stato poi fondamentale girare il film in continuità cronologica rispetto agli eventi narrati.

Hai già in mente il tuo prossimo progetto da regista?

In questo momento sono ancora in fase di elaborazione. Di sicuro, però, posso dire due cose: a cinque anni da La santa che dorme ho la volontà di tornare a lavorare con attori adolescenti e oggi – cosa che non era avvenuta quando ho scoperto l’esistenza dei santuari del respiro – sento di aver approfondito a sufficienza la questione della fede e del rapporto con la religione. Con ogni probabilità, quindi, il mio nuovo lavoro si incentrerà sul mondo adolescenziale e su temi differenti.

 

 

 

 

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Europa di Haider Rashid, una bella sorpresa a Cannes https://www.fabriqueducinema.it/festival/europa-di-haider-rashid-una-bella-sorpresa-a-cannes/ Sun, 18 Jul 2021 12:38:02 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15867 È Europa l’ultimo film italiano (per metà: la coproduzione è del Kuwait) passato in rassegna nella Quinzaine des Réalisateurs, sezione quest’anno particolarmente ricca di grande cinema e per la quale c’è da fare tanti complimenti al nuovo delegato Paolo Moretti. Diretto da Haider Rashid, fiorentino di nascita, padre iracheno e madre italiana, Europa è un’opera […]

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È Europa l’ultimo film italiano (per metà: la coproduzione è del Kuwait) passato in rassegna nella Quinzaine des Réalisateurs, sezione quest’anno particolarmente ricca di grande cinema e per la quale c’è da fare tanti complimenti al nuovo delegato Paolo Moretti.

Diretto da Haider Rashid, fiorentino di nascita, padre iracheno e madre italiana, Europa è un’opera coraggiosa che vince la propria scommessa sia per l’argomento trattato che per le scelte formali.

Il tema qui è l’immigrazione, raccontata attraverso l’avventurosa fuga per la sopravvivenza del giovane migrante iracheno Kamal, interpretato Adam Ali, lodevole per lo sforzo duplice della resa precisa delle emozioni del personaggio e contemporaneamente la restituzione dello sforzo, della fatica fisica, dei gesti irrigiditi dalla paura.

Il suggestivo incipit notturno racconta uno scenario che è ben noto allo spettatore mediamente informato sui fatti: la raccolta del denaro dei migranti da parte dei trafficanti che si occuperanno del viaggio, la luce della luna e le torce dei cellulari illuminano volti sui quali la macchina da presa indugia febbrilmente, quel tanto che basta per suggerire che il tempo stringe, e che bisogna agire nell’ombra. Ma l’arrivo improvviso dei miliziani di frontiera (siamo al confine fra Bulgaria e Turchia) fa precipitare gli eventi, i migranti si disperdono, molti vengono uccisi, qualcuno scappa ma viene catturato. Il sogno si infrange su quelle sponde, ma Kamal riesce a fuggire.

Ed è qui che comincia il suo percorso di sopravvivenza, raccontato in maniera intelligente ed efficace da Rashid con l’ausilio del direttore della fotografia Jacopo Caramella, che qui mette in mostra le sue formidabili abilità di operatore attaccandosi in maniera solidale al protagonista, facendo perno sul suo volto e sul suo corpo, sia che fugga, sia che si arrampichi su un albero, sia che si ingegni ad accendere un fuoco o a procurarsi scarsissime quantità di cibo.

In questo film, il discorso visivo si fa parte integrante del racconto: la macchina da presa di Rashid segue Kamal ossessivamente, al punto da non più generare solo empatia, ma anche imponendo allo spettatore di condividerne fisicamente il punto di vista, c’è immedesimazione, non solo comprensione distaccata della sua corsa nel bosco (location per esigenze produttive ritrovata in provincia di Arezzo).

Europa alterna sapientemente, nei suoi 70 minuti circa di durata, momenti dal ritmo forsennato a sospensioni che raccontano la tregua di Kamal e, per quanto sia il racconto di una solitudine, sono disseminati alcuni incontri che rientrano pienamente nei topoi dell’avventura: un compagno defunto, un inseguitore, una donna che presta soccorso, un possibile salvatore finale.

Una bella sorpresa, un cinema intelligente che padroneggia il linguaggio e allo stesso tempo ragiona sul racconto, usa il particolare per riflettere sul generale e, infine, apre alla speranza.

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Futura, i giovani secondo Marcello, Munzi e Rohrwacher https://www.fabriqueducinema.it/festival/futura-i-giovani-secondo-marcello-munzi-e-rohrwacher/ Sat, 17 Jul 2021 14:57:50 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15862 Il terzo dei quattro film italiani selezionati alla Quinzaine des Réalisateurs è il film collettivo (la definizione è degli autori) Futura, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, con il titolo – appropriato e suggestivo – mutuato da Lucio Dalla, il quale è stato oggetto di un altro lavoro di Pietro Marcello che in […]

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Il terzo dei quattro film italiani selezionati alla Quinzaine des Réalisateurs è il film collettivo (la definizione è degli autori) Futura, di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, con il titolo – appropriato e suggestivo – mutuato da Lucio Dalla, il quale è stato oggetto di un altro lavoro di Pietro Marcello che in questi giorni è visionabile su Nexo Digital, Per Lucio, montaggio di materiale d’archivio sul grande musicista bolognese.

Futura è un film sui giovani. Come ha voluto precisare a chiare lettere Marcello in una delle serate della Quinzaine in cui il film è stato proiettato, nel nostro tempo si dà troppo spazio alla voce dei “vecchi”, è invece giusto che i giovani abbiano una propria tribuna di espressione, un territorio d’elezione che li elegga portavoce del proprio tempo. Ed è molto bello che questo territorio sia il cinema.

Un cinema didattico, quello dei nobili intenti di cui antichi maestri italiani sono stati paladini: si pensi a Rossellini, naturalmente, ma anche il reportage-fiume di Luigi Comencini I bambini e noi, di cui alcuni spezzoni significativi e iconici sono sapientemente inseriti nel montaggio di Futura.

Questa è dunque la missione di Marcello, Munzi e Rohrwacher, un cinema didattico che non tenga la lezioncina pedante agli spettatori, ma che in qualche modo ne smuova la coscienza, ne amplifichi le vedute, insomma, non un cinema che finisca in parlamento e generi la redazione di nuovi DDL (che, comunque, non sarebbe male), ma un cinema che penetri nel quotidiano, e che aiuti a gettare uno sguardo nuovo su questo enorme, importante e variegato corpus della società: la gioventù.

Il film ha vissuto una lavorazione avventurosa (è proprio il caso di dirlo: come il nome della casa di produzione di Pietro Marcello). Iniziato nel febbraio del 2020 come un viaggio attraverso tutta la penisola (Marcello è un grande ammiratore di Guido Piovene e del suo Viaggio in Italia, chissà che la suggestione non venga da lì), alla ricerca di ragazze e ragazzi in ogni contesto urbano ed extra-urbano, ha poi avuto la battuta d’arresto della pandemia e dei vari lockdown. La diffusione del nuovo virus, senza diventare un fatto su cui speculare opportunisticamente e sul quale aggiustare la rotta del film, è una circostanza storica che, per tragica ed epocale che sia, non cambia il punto di vista sui giovani e sul loro futuro: le incertezze e le speranze delle allieve del corso per estetiste di Mariglianella in provincia di Napoli sarebbero state le stesse, comunque, e lo stesso vale per le matricole della Normale di Pisa; i ragazzi della campagna teramana vivono in un tempo che sembra sospeso (per quanto il film sia orizzontale, come lo ha definito Marcello nell’introduzione a una delle proiezioni di Cannes, la sensibilità dei registi emerge seppur discretamente dai rispettivi reportage: in questo caso, il discorso su una dimensione a-temporale, di un’epoca indefinibile, è una cifra che appartiene ad Alice Rohrwacher da sempre), viceversa hanno le idee molto chiare sul presente e su alcune sue deformazioni dovute ai social network i ragazzi della periferia romana intervistati da Francesco Munzi.

L’aspetto visivo, infine, merita una sottolineatura: le riprese rigorosamente in 16 millimetri (una tavolozza quasi ideologica alla quale Pietro Marcello, per fortuna, non rinuncia mai) conferiscono ai volti di questi ragazzi una statura iconica che col digitale difficilmente si sarebbe raggiunta, e i tre autori, tutti eccezionali ideatori di immagini per il cinema, non rinunciano mai alle sacrosante regole della composizione. Per questa felice commistione fra la cura estetica e la profondità di penetrazione dentro alla materia d’indagine, questo film sì, come auspica Pietro Marcello, può fare scuola.

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Re Granchio: alla Quinzaine un film fra doc e visionarietà https://www.fabriqueducinema.it/festival/re-granchio-alla-quinzaine-un-film-fra-doc-e-visionarieta/ Tue, 13 Jul 2021 07:07:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15846 Il secondo dei film italiani della Quinzaine des Réalisateurs, Re Granchio, è l’esordio al film di finzione di due giovani e talentuosi registi, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, che avevano conquistato pubblico e critica nel 2015 con Il solengo, film documentario che aveva trionfato a DocLisboa, che con l’escamotage del racconto popolare tramandato oralmente […]

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Il secondo dei film italiani della Quinzaine des Réalisateurs, Re Granchio, è l’esordio al film di finzione di due giovani e talentuosi registi, Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, che avevano conquistato pubblico e critica nel 2015 con Il solengo, film documentario che aveva trionfato a DocLisboa, che con l’escamotage del racconto popolare tramandato oralmente dai vecchi della comunità raccontava l’esistenza misteriosa di un uomo di Vejano, un piccolo centro nella Tuscia laziale, che per sessant’anni aveva vissuto lontano da tutto e da tutti, rintanato in una grotta.

Con Re Granchio, film presentato a Cannes, i due registi, entrambi approdati ad altri lidi nel corso della loro vita (Alessio in Argentina, Matteo a Berlino) tornano nello paese del solengo e elevano all’ennesima potenza l’ambizione narrativa e il potere evocativo delle storie del focolare.

Ritroviamo personaggi – anzi, persone: gli anziani che si riuniscono a tavola davanti a un bicchiere di vino, leitmotiv di tutto il film, non sono attori – che avevamo già visto nel documentario, però questa volta ci viene raccontata una storia accaduta alla fine del XIX secolo, la storia di un reietto, Luciano,  che si oppone ai soprusi del principe del villaggio ed è amato teneramente da una giovane contadina, il cui matrimonio è assolutamente proibito dal padre padrone.

A causa di questa ribellione, Luciano viene messo all’indice, fino a subire addirittura un attentato, a essere dato per morto, ed è a questo punto che il film, perfettamente bipartito, prende la sua seconda strada, e si sposta nella Terra del Fuoco, in cui anche quella basilare forma di civilizzazione, per arcaica e feudale che fosse, del villaggio della Tuscia qui viene a mancare, c’è solo la montagna, la natura selvaggia dell’uomo e delle cose, dove è un granchio a guidare gli avventurieri.

La maturità registica di Rigo de Righi e Zoppis si manifesta soprattutto nella capacità di raccogliere influenze molteplici, metabolizzarle e piegarle a un linguaggio proprio. Come dovrebbe sempre essere, infatti.

La prima parte del film, quella che più porta alle estreme conseguenze il lavoro de Il solengo, sfocia in momenti che potrebbero far pensare al documentario antropologico, agli insuperati maestri italiani delle feste e della tradizione popolare portata al cinema De Seta e Di Gianni, ma Rigo de Righi e Zoppis, che già dispongono di una propria cifra stilistica per il racconto dal vero, travalicano la dimensione documentaristica e cristallizzano e sublimano le immagini della festa popolare in tableau vivants di chiara natura pittorica, debitrice sicuramente di un regista da loro amatissimo, e cioè Paradjanov.

Mentre nella seconda parte di Re Granchio, che sarebbe semplicistico bollare come western, nonostante una mano sicura nel gestire la tensione, il montaggio, il sonoro, il ritmo tipici del genere, le coordinate spazio-temporali vanno via via offuscandosi, confondendosi, fino a diventare irrilevanti, o nulle, e questo tipo di operazione visiva (e visionaria) è in comune con il Lisandro Alonso di Jauja, e non a caso troviamo il suo nome nei ringraziamenti.

Un’ultima sottolineatura meritano due scelte attoriali di Rigo de Righi e Zoppis: il protagonista Luciano è interpretato da Gabriele Silli, artista contemporaneo che pure sulla natura e sulla materia (proprio come in questo film) stabilisce il suo campo d’indagine, e poi il ruolo del principe che gode della geniale e ieratica performance di Enzo Cucchi, l’artista simbolo della Transavanguardia italiana.

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Festival di Cannes: applausi per “A Chiara” di Carpignano https://www.fabriqueducinema.it/festival/a-chiara/ Sun, 11 Jul 2021 13:32:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=15842 Un’emozione forte, commovente, per noi spettatori e per la delegazione di A Chiara presente in sala al gran completo: applausi, grida di giubilo, sguardi che si incrociavano con il regista Jonas Carpignano, con gli attori-non attori del meraviglioso film di cui ancora scorrevano i titoli di coda, un rito collettivo che è tornato a rinnovarsi […]

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Un’emozione forte, commovente, per noi spettatori e per la delegazione di A Chiara presente in sala al gran completo: applausi, grida di giubilo, sguardi che si incrociavano con il regista Jonas Carpignano, con gli attori-non attori del meraviglioso film di cui ancora scorrevano i titoli di coda, un rito collettivo che è tornato a rinnovarsi dopo quasi un anno e mezzo di disperazione, di uno smarrimento di cui non si riusciva a vedere la fine.

E invece è stata un tripudio la serata della Quinzaine des Réalisateurs, sotto la nuova direzione di Paolo Moretti, in cui è stato proiettato A Chiara, ultimo lavoro di Jonas Carpignano (che siamo orgogliosi di aver avuto come giurato dei Fabrique Awards nel 2018), portato eroicamente a termine dopo una lavorazione travagliata, interrotta più volte per cause dovute alla pandemia, destino che è toccato a tante altre produzioni italiane e internazionali che hanno voluto comunque spiegare le vele in un periodo di mare pericolosamente in tempesta.

Carpignano racconta ancora, irriducibilmente, Gioia Tauro.

A Chiara è il terzo capitolo di una trilogia che indaga tre grandi aspetti presenti in città: dopo l’immigrazione in Mediterranea (2015, visto a Cannes alla Semaine de la Critique) e la comunità rom di A Ciambra (2017, prima volta in Quinzaine), ora è la ’ndrangheta a essere oggetto di indagine narrativa.

Anzi, per meglio dire, la ’ndrangheta è un pretesto.

Ad aprire il film è la festa di compleanno della maggiore delle tre sorelle Guerrasio, Giulia. Il contesto giovanile è descritto con mano sicura, c’è un’analisi affidabile dei comportamenti, dei riti, delle piccole ossessioni di ragazzi e ragazze adolescenti di un importante e problematico centro urbano calabrese. Il giorno seguente, quando Claudio, il padre, parte improvvisamente, Chiara, la seconda delle tre figlie, vuole scoprire la ragione dietro quel gesto. E comincia a fare domande, a cui non ottiene risposta, finché non decide di mettersi da sola in cerca della verità. Sul padre, certo, ma soprattutto su se stessa.

A Chiara non è un gangster movie, ma il racconto tenero, addirittura con derive oniriche, avventurose, fiabesche, della crescita di un’adolescente nata in un contesto difficile. Il racconto di un rapporto perso, cercato, riconquistato di una figlia con il padre, la maturazione di una coscienza morale, il coraggio di disobbedire quando il prezzo è un bene superiore. A interpretare Chiara e la sua famiglia nel film sono la straordinaria Swamy Rotolo e le sue vere sorelle, il suo vero padre, la sua vera madre, che non hanno mai letto la sceneggiatura ma venivano informati giorno per giorno sulle scene da girare.

Il metodo-Carpignano ha quindi dato, ancora una volta, i suoi straordinari frutti. Anche lo stile che avevamo ammirato nei film precedenti è riproposto ma questa volta più libero, senza la preoccupazione di dover tener conto anche di esigenze documentaristiche: è un film di solido impianto drammaturgico e altrettanto solide sono le idee di regia che lo sostengono, i piani sequenza pieni di suspense, l’uso creativo e dinamico delle luci (fotografia, ancora in pellicola, di Tim Curtin), la creazione delle atmosfere (l’incontro nella nebbia fra padre e figlia è una sequenza memorabile), la già citata deriva onirica legata al bunker (i passaggi segreti sono un topos del film d’avventura), e qualche rimando simbolico affidato all’attività fisica di Chiara: al tapis roulant di prima scena, un nastro dove si corre, si suda, ci si sforza, ma non si va da nessuna parte, si oppone la pista di atletica dell’inquadratura finale, dove finalmente Chiara spicca il proprio volo. Un parallelo che ricorda il finale di un altro grande film visto a Cannes qualche anno fa, Loveless di Andrej Zviagintsev, dove pure il tapis roulant veniva utilizzato come metafora di un mondo che non riesce ad andare avanti.

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Fabrizio Benvenuto: “Sottovoce” con Stella Egitto https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/fabrizio-benvenuto-sottovoce/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/futures/fabrizio-benvenuto-sottovoce/#respond Wed, 14 Jun 2017 08:15:22 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8766 24 anni, studente al terzo anno presso l’Università RUFA di Roma, Fabrizio Benvenuto è da poco rientrato dallo Short Film Corner di Cannes, la piattaforma per eccellenza dedicata ai giovani talenti provenienti da tutto il mondo, un palcoscenico di prestigio in cui le speranze e ambizioni di nuovi registi, sceneggiatori, produttori, si intrecciano grazie ai […]

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24 anni, studente al terzo anno presso l’Università RUFA di Roma, Fabrizio Benvenuto è da poco rientrato dallo Short Film Corner di Cannes, la piattaforma per eccellenza dedicata ai giovani talenti provenienti da tutto il mondo, un palcoscenico di prestigio in cui le speranze e ambizioni di nuovi registi, sceneggiatori, produttori, si intrecciano grazie ai loro lavori.

Fabrizio Benvenuto si è messo in luce con un piccolo gioiello autoprodotto, scritto e diretto, dal titolo suggestivo, Sottovoce, con protagoniste le bravissime Stella Egitto e Marina Crialesi, un ritratto tutto al femminile

«Il film – dice lo stesso regista – racconta delle aspettative che creiamo nel prometterci amore, sperimentando invece poi abbandoni e fughe; è una storia a tratti malinconica, un po’ come me. Sentivo però che prima o poi avrei fatto questo percorso, il cinema talvolta risolve i nostri dubbi. Ogni anno alla RUFA siamo tenuti a girare un corto aumentando il minutaggio, prima tre, poi dodici, infine è nato Sottovoce. Abbiamo portato il lavoro, per la prima volta, a un festival internazionale, scoprendo peraltro che al di fuori dell’Italia il cortometraggio rientra nei 45 minuti, quindi mi sono mosso con maggior libertà».

un'immagine di stella egitto

Un ritorno naturale, quello che fa da scenario al progetto, in quell’angolo di Calabria in cui lo stesso Benvenuto è cresciuto e ha vissuto in prima persona il periodo migliore, i laghi di Sibari. «Sapevo che questa poteva essere una chance e così l’ho presa seriamente. L’idea nasce anche dalla voglia di rivivere quel posto che cela una storia tragica, da meta gettonata negli anni ’90 al fantasma deturpato che è oggi, a causa di tanti disservizi. Per questo desideravo ridargli luce utilizzandolo come filtro per raccontare di emozioni».

Una bella prova che lo proietta verso un prossimo passo significativo, il lungometraggio, ora solo in fase di scrittura e di cui per scaramanzia ancora non vuole dire nulla.  «Tutto si è evoluto in parallelo con i miei gusti, talvolta scendendoci a patti. Tim Burton è il regista che prediligo, talvolta è difficile a tenere a bada il mio lato fiabesco, poi sono un fan di Paolo Sorrentino, ho collaborato come assistente alla fotografia nel documentario di Fabio Mollo su The Young Pope – Behind the scenes, partecipando anche ad un collettivo, Il miracolo, vincitore di una menzione speciale ai Nastri d’Argento nel 2015».

il regista fabrizio benvenuto

L’ambiente tende a supportare i giovani autori? gli chiediamo. «Ho bussato a poche porte, ma devo dire che nessuna si è chiusa completamente: secondo me è il momento giusto per provare a lanciarsi, non solo per la nascita di nuovi generi e forse la morte di altri, vedo soprattutto un territorio fertile, che induce all’ottimismo».

 

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Festival di Cannes: “Cuori puri” https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-cuori-puri/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-cuori-puri/#respond Thu, 25 May 2017 08:44:25 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8613 Siamo forti, a questa Quinzaine. Amatissimo e applauditissimo anche Cuori puri, terzo e ultimo film italiano della sezione, lungometraggio d’esordio di Roberto De Paolis, che arriva alla prima regia dopo un percorso composito che è partito dalla fotografia (con esposizioni in tutta Europa) e la video arte. C’era un’energia particolare nella sala dell’Hotel Marriott, sede […]

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Siamo forti, a questa Quinzaine. Amatissimo e applauditissimo anche Cuori puri, terzo e ultimo film italiano della sezione, lungometraggio d’esordio di Roberto De Paolis, che arriva alla prima regia dopo un percorso composito che è partito dalla fotografia (con esposizioni in tutta Europa) e la video arte.

Simone Liberati in una scena di Cuori puri

C’era un’energia particolare nella sala dell’Hotel Marriott, sede della Quinzaine: oltre a tutto il cast del film e a buona parte della troupe, era presente anche Jonas Carpignano, e una congiuntura astrale favorevole ci ha permesso di godere del film seduti accanto niente di meno che a Ed Lachman, affascinato durante la proiezione e molto contento all’accensione delle luci.

Cuori puri è una storia di periferia. È una storia, ancora una volta, che parla dei margini, siano essi sociali e/o geografici. Come A Ciambra, che sta tra i rom di Gioia Tauro, o L’intrusa, ambientato a Ponticelli, all’ombra del Vesuvio, Cuori puri affonda le radici nel grigiore di Tor Sapienza, ed è la storia di due ragazzi, Stefano e Agnese (Simone Liberati e Selene Caramazza, bravissimi, mai sotto la soglia dell’autenticità delle parole e dei gesti), che si aprono l’uno con l’altra fino a un atto di sacrificio estremo, che per lui significa perdere il lavoro, per lei, invece, perdere qualcos’altro, qualcosa di più intimo, nascosto, proibito, contravvenendo a una madre religiosissima (Barbora Bobulova) e alla lezione del parroco-guida spirituale dell’intera comunità (Stefano Fresi).

Stefano è un ragazzo che vive davvero una vita difficile: la madre e il padre sono disperati, il padrone di casa dopo due anni di affitto arretrato li sfratta e li costringe a vivere in una roulotte, con il conseguente inasprimento delle tensioni familiari, viene licenziato da un supermercato, riesce a trovare un altro lavoro come guardiano di un parcheggio con la complicazione del campo rom confinante e si ritrova con la madre che gli elemosina quelle poche centinaia di euro che lui riesce a guadagnare e un padre intrattabile con il quale viene quasi alle mani.

Ci sarebbe l’alternativa dello spaccio, ma Stefano proprio non è portato, e l’esuberante amico Lele (Edoardo Pesce, che gigioneggia e incute timore allo stesso tempo) prova a farglielo capire: ma Stefano è un “cuore puro”, non è fatto per frequentare la scuola della strada, fa il duro con i rom ma poi li difende, dovrebbe vendere la droga ma la coscienza lo bacchetta di fronte alle richieste dei ragazzini di 12 anni.

Selene Caramazza in una scena di Cuori puri

Il destino lo fa incontrare due volte con Agnese, prossima al compimento dei 18 anni e incatenata alla promessa di arrivare vergine al matrimonio, di cui sono artefici una madre fin troppo possessiva e il simpatico Don Luca, interprete molto sui generis delle Sacre Scritture.

Il film, date le premesse, è il barcamenarsi di questi due ragazzi fra cause impedienti di vario genere e barriere sociali o morali che in qualche modo bisogna scavalcare. Denominatore comune di altre prove del nostro cinema recente, si pensi a Fiore, a La ragazza del mondo, sono le nostre storie, che i nostri registi dimostrano di saper affrontare con piglio sicuro.

De Paolis si affida alla scuola del cinema-verità, sgancia la macchina dal cavalletto e alterna i primi piani ai campi lunghissimi, accenna il contesto e poi si attacca ai personaggi, predilige ogni volta che è possibile la luce naturale e suggerisce ai suoi attori di improvvisare i dialoghi, di conferire alle scene il loro apporto, il loro vissuto, e la strategia è vincente: l’aderenza alla realtà in più momenti raggiunge picchi talmente elevati che si prova quasi la sensazione di essere intrusi; anche grazie alla fluidità del dialetto Simone Liberati e Edoardo Pesce, su tutti, riescono a farci credere a ogni parola che dicono. E questo è sempre un pregio.

 

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Festival di Cannes 2017: “L’intrusa” https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-2017-lintrusa/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-cannes-2017-lintrusa/#respond Wed, 24 May 2017 13:36:04 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8588 Applausi e commozione a Cannes per L’intrusa, il secondo film di finzione di Leonardo Di Costanzo dopo il memorabile L’intervallo (Venezia Orizzonti, 2012). L’intrusa è un titolo ambiguo. Di intrusa ce ne potrebbe essere più d’una. Ma si potrebbe anche parlare di intrusi, personaggi-funzione appena accennati ma che sono il motore della storia, e intrusi […]

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Applausi e commozione a Cannes per L’intrusa, il secondo film di finzione di Leonardo Di Costanzo dopo il memorabile L’intervallo (Venezia Orizzonti, 2012).

L’intrusa è un titolo ambiguo. Di intrusa ce ne potrebbe essere più d’una. Ma si potrebbe anche parlare di intrusi, personaggi-funzione appena accennati ma che sono il motore della storia, e intrusi di un altro tipo ancora, quelli in divisa.

Raffaella Giordano nel film intrusaProtagonista è la torinese Giovanna (interpretata da Raffaella Giordano, coreografa, ha danzato anche con Pina Bausch nella leggendaria compagnia di Wupperthal), operatrice sociale che lavora in un centro ricreativo per i bambini del difficile quartiere di Ponticelli: «non un film sulla camorra» precisa Di Costanzo «ma un film con la camorra all’interno», proprio come fu L’intervallo, e anche in questo caso c’è un locus che dalla camorra protegge, isola, redime, o forse non fa nulla di tutto questo, perché – altra componente comune sia a Intrusa che a Intervallo – in nessuna delle due storie si racconta uno status destinato a perdurare, una condizione di stabilità, uno stanziamento, una felicità raggiunta, un esito accomodante.

Perché anche in questo sta la grandezza di Di Costanzo e dei suoi film: ha il tocco lieve di chi mette il racconto davanti a ogni cosa, ha uno sguardo d’autore autentico ma che non sta mai al di sopra dei suoi personaggi, la sua macchina a mano sta invece in mezzo a loro, alla loro altezza (anche e soprattutto quando si tratta di bambini), ne condivide i destini, ne asseconda i gesti, eppure non è mai conciliante, non si risparmia rispetto alle pieghe talvolta dolorose e impreviste che possono prendere gli eventi.

E d’altra parte la lezione del documentario sta proprio in questo tipo di approccio, prim’ancora che nello stile, affidato a una cura che non sfugge all’occhio attento (la fotografia fu di Bigazzi, nel film precedente, questa volta è affidata alla veterana francese Hélène Louvart, già dop per i lungometraggi di Alice Rohrwacher). In questo particolare cortile dove ambienta L’intrusa, Di Costanzo fa muovere un caleidoscopio di personaggi che a un certo punto quasi sembrano una compagnia circense, e tale, tutto sommato, è la loro sorte nel pittoresco finale.

Set del film Intrusa di Leonardo di Costanzo.
Foto: Gianni Fiorito

Nella “Masseria” (questo il nome del centro di recupero) arriva Maria, sposata a un sanguinario camorrista che la polizia locale viene prontamente ad arrestare con una retata che sconvolge la serenità del luogo. La figlia Rita, asociale e scorbutica (anche lei un po’ selvaggia, anche lei dedita allo sputo, come un’altra bambina italiana che abbiamo conosciuto qui a Cannes…), viene incoraggiata da Giovanna a far parte della compagnia: i primi passi sono anche sorprendenti, ma poi la “diversità” sua e della madre prende il sopravvento.

Giovanna, filantropa illuminata, vuole che i suoi colleghi siano superiori a certe tendenze discriminatorie che si mettono in moto nei confronti della famiglia del malamente, che sarebbe ovviamente più sano per tutti cercare l’integrazione piuttosto che l’allontanamento (un concetto che si può estendere a tanti ambiti…). Ma come intrusa è Maria, è intrusa allo stesso modo anche Giovanna in un mondo che ha delle leggi, dei comportamenti stabiliti, i dettami del quieto vivere napoletano.

Giovanna e Maria sono due donne di principio, coraggiose, ciascuna a modo proprio. Prendono decisioni che in un modo o nell’altro possono ferire qualcuno. E pazienza se si tratta dello spettatore.

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