Festival di Berlino Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 03 Mar 2023 08:37:40 +0000 it-IT hourly 1 Le proprietà dei metalli: quando i bambini avevano i superpoteri https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/le-proprieta-dei-metalli-quando-i-bambini-avevano-i-superpoteri/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/le-proprieta-dei-metalli-quando-i-bambini-avevano-i-superpoteri/#respond Tue, 21 Feb 2023 13:32:47 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=18198 Curiosamente i due film che rappresentano l’Italia alla 73a Berlinale hanno al loro centro il sovrannaturale e il mistero, intesi in modo molto personale. Se in Disco Boy di Giacomo Abbruzzese c’è uno scambio fra anime che sovverte le regole del mondo fisico, Le proprietà dei metalli, primo lungometraggio di Antonio Bigini (passato nella sezione […]

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Curiosamente i due film che rappresentano l’Italia alla 73a Berlinale hanno al loro centro il sovrannaturale e il mistero, intesi in modo molto personale. Se in Disco Boy di Giacomo Abbruzzese c’è uno scambio fra anime che sovverte le regole del mondo fisico, Le proprietà dei metalli, primo lungometraggio di Antonio Bigini (passato nella sezione Berlinale GenerationK plus e prodotto da Kiné con Rai Cinema), racconta di un bambino che ha il dono di piegare oggetti di metallo.

Siamo negli anni Settanta: in un paesino montuoso dell’Italia centrale un giorno arriva David, professore universitario di origine americana, per indagare scientificamente le capacità fenomenali del piccolo Pietro che piega, non si sa come, utensili di metallo durissimo. Il bambino, orfano di madre, vive con il padre, un contadino duro e affogato dai debiti, il fratello minore e la nonna. La possibilità di vincere il ricco premio messo in palio “dagli americani” per chi riesce a dimostrare la fondatezza di un fenomeno paranormale innesca in Pietro e nella famiglia una tensione che si risolverà in un non facile ritorno alla vita rurale.

La storia di Le proprietà dei metalli è ispirata ai minigeller, i bambini di cui all’epoca si diceva fossero in grado di piegare i metalli più resistenti, su imitazione del “mago” tedesco Uri Geller e delle sue esibizioni televisive. Alcuni di loro furono in effetti oggetto di studi scientifici da parte di ricercatori, ma alla fine nessuno fu capace di riprodurre il fenomeno in condizioni sperimentali.

Ma tutto questo nel film di Bigini rimane sullo sfondo: non c’è alcun intento di riprodurre un episodio storico dettagliato né di portare sullo schermo degli anni Settanta oleografici. Il cuore del film è tutto nelle parole del professore, che nonostante l’iniziale obiettivo scientifico, riesce a entrare emotivamente in contatto con Pietro, a capire le sue ansie, avvertire la mancanza di affetto di cui soffre da parte dell’unico genitore rimastogli. E se all’inizio sprona il bambino spiegandogli che il dono che possiede è in grado di «cambiare il mondo», facendo capire a tutti che c’è qualcosa oltre le leggi fisiche note, alla fine, disilluso, conclude che quel mondo ignoto, se esiste, vuole restare tale e sottrarsi a qualsiasi verifica.

Il mondo raccontato ne Le proprietà dei metalli è quello remoto di un’Italia contadina, percorso da un “paganesimo rurale”, come lo definisce lo stesso Bigini, in cui l’elemento del mistero e della magia aveva ancora un posto nella vita di uomini abituati a vivere a contatto con la terra e gli animali. Elemento che oggi abbiamo perduto e di cui invece abbiamo un necessità profonda, che il cinema di genere, pare dire il regista, non basta a riempire.

Un mondo povero, fatto di oggetti semplici e di uso quotidiano – Pietro piega chiavi, cucchiai e coltelli – così come essenziale è lo stile del film stesso, per venire incontro, questa la coraggiosa scommessa di Bigini, al bisogno di pulizia e linearità che oggi c’è nel pubblico, saturo di prodotti calligrafici e virtuosistici.

 

 

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Ileana D’Ambra, la trasformista https://www.fabriqueducinema.it/cinema/people/ileana-d-ambra/ Mon, 25 May 2020 09:30:13 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14007 Un esordio coraggioso Ileana D’Ambra è una giovane attrice al suo debutto cinematografico accanto ad Elio Germano nel film Favolacce dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo (Orso d’Argento per la sceneggiatura a Berlino), da qualche giorno in onda sulle maggiori piattaforme streaming. Vilma, donna-bambina Scelta dai talentuosi fratelli romani per il suo volto “portatore di […]

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Un esordio coraggioso

Ileana D’Ambra è una giovane attrice al suo debutto cinematografico accanto ad Elio Germano nel film Favolacce dei fratelli Fabio e Damiano D’Innocenzo (Orso d’Argento per la sceneggiatura a Berlino), da qualche giorno in onda sulle maggiori piattaforme streaming.

Vilma, donna-bambina

Scelta dai talentuosi fratelli romani per il suo volto “portatore di dolcezza”, Ileana D’Ambra si è messa in gioco con grande coraggio e ci ha regalato un personaggio senza filtri, Vilma, per la quale è ingrassata di quasi 20 kg.

Ti abbiamo vista nei panni di Vilma in Favolacce, vuoi raccontarci qualcosa di lei?

Vilma è una ragazza di 19 anni, vive e lavora con la mamma, il papà non lo vediamo, ed è fidanzata con Mattia. Lei però non è sola e si presenta fin dalla prima scena con un grembo gonfio che dentro contiene una bambina. Vilma la definirei una “middleclass decaduta”, come d’altronde tutti i personaggi del film.  È un personaggio pieno di contraddizioni: è molto bambina, lo si nota da aspetti estremamente infantili come il suo modo di vivere la femminilità e la sessualità. Un’altra contraddizione di Vilma è il contrasto tra il suo voler apparire gentile e i suoi naturali modi un po’ rudi e sgraziati.

Ileana D'Ambra al Festival di Berlino
Ileana D’Ambra al Festival di Berlino

Come sei stata scelta dai d’Innocenzo?

Io non credo nella fortuna, credo semplicemente che esista il momento giusto. Fare l’attrice per me è stata una scelta di vita legata a una passione innata. In questo mestiere devi avere le spalle larghe per accettare un quantitativo gigantesco di no e tradurli in occasioni per crescere e migliorarsi. È fondamentale essere resilienti e volgere al positivo quanto ti capita, perché è proprio grazie a questo che le esperienze personali diventano nuove “sfumature” di te nel tuo lavoro. Ecco, penso che con Favolacce sia arrivato il mio momento giusto.

Vilma è stato un personaggio impegnativo dal punto di vista psicologico ma anche fisico, considerando che per interpretarlo hai dovuto prendere quasi 20 kg.

In realtà, nonostante l’iniziale difficoltà, credo sia proprio grazie a questo importante aumento di peso che mi sono realmente calata nel personaggio di Vilma. Fin da subito il mio viso, scelto dai fratelli D’Innocenzo perché – dicono – “portatore di infinita dolcezza”, con l’aumentare dei chili cambiava e diventava altro, così come il mio fisico e il mio portamento. Ero goffa e scoordinata, con un’andatura da camionista! Ho capito che Vilma stava prendendo forma dentro di me.

Questo è stato il tuo primo film, che effetto ti ha fatto il set?

Inizio dicendoti che Fabio e Damiano riescono a rendere veramente semplici anche le cose più difficili. Da subito è scattato come un “clic” tra di noi, una sintonia e una stima reciproca che ha reso tutto estremamente naturale. Non dimenticherò mai il primo giorno sul set. Avevo l’adrenalina a mille e non appena sono arrivata mi sono detta: “Ok, questo è il mio posto, sono a casa mia!”. È esattamente per questo che spero di continuare a fare il cinema, perché mi sono veramente sentita al mio posto come mai sentita prima. La prima scena che ho girato, ambientata in un mercatino, per me non ha semplicemente rappresentato la nascita di Vilma, ma è stato anche l’inizio di un percorso di cambiamento personale. Una cosa con cui ho dovuto da subito fare l’abitudine sono stati i piani strettissimi sul mio viso e sul mio corpo. Prima dell’inizio delle riprese ho trascorso due giornate con Paolo Carnera, il direttore della fotografia, e con lui ho assistito ai provini per la camera e alla scelta degli obiettivi e delle lenti. È stato molto utile perché ho imparato e capito quello che poi ho ritrovato sul set.

Ileana-D-Ambra
Un ritratto di Ileana D’Ambra

Favolacce è uscito in un momento difficile e ci ha tenuto compagnia durante un periodo di isolamento forzato. Tu come hai trascorso il lockdown? Cosa ne hai guadagnato?

Ovviamente il radicale cambiamento di quotidianità che mi ha portata a passare da ritmi serrati e pienissimi a giornate lente e vuote, soprattutto all’inizio, è stato duro. Anche se il mio lavoro mi ha aiutata perché mi ha abituato a una routine mai scandita da orari fissi e allo stare molto spesso da sola, a studiare, a pensare, a guardare film. L’inizio del lockdown ha combaciato con il mio ritorno da Berlino, Favolacce aveva appena vinto l’Orso d’Argento per la sceneggiatura e io ero gasatissima. Mi sono guardata allo specchio e mi son detta: “Vai Ileana, questo è il tuo momento!”. Insomma ero pronta a non fermarmi più, ma una sorte ironica ha deciso di chiudermi in casa. Le mie giornate sono state altalenanti: a volte mi svegliavo piena di voglia di fare altre, quelle più no, le passavo a letto, tra libri e pensieri. La cosa bella è stata che durante questo periodo ho avuto la possibilità di sentirmi veramente vicino il mondo fuori. Mi spiego meglio: fin da piccolissima, ho sempre avuto una grande empatia verso gli altri e durante l’isolamento forzato mi sono sentita un tutt’uno con il mondo che insieme a me soffriva, cambiava e si adattava passo dopo passo.

Nuovi progetti? Hai già qualcosa in mente?

Al momento c’è un progetto di cui però per ora preferisco non dire nulla. Parlando in generale del futuro comunque spero che questo brutto periodo ci abbia finalmente fatto capire quanto la cultura sia importante per tutti. Spero che l’industria cinematografica possa riprendere al più presto, perché senza i film in questi lunghi giorni chiusi in casa non ce l’avremmo mai fatta!  Come dice poi lo scrittore Stefano Massini, quando viene a mancare la cultura emergono emozioni come la paura e altri sentimenti che inducono alla violenza.

Mi piace concludere le mie interviste con una domanda. Se dopo di me potessi prendere un caffè con una persona per te importante, con chi lo prenderesti?

Oddio, questa è una domanda davvero difficile [ride ndr]… Posso dirti due persone? La prima sarebbe sicuramente stata Goliarda Sapienza, di cui in questa quarantena ho finito di leggere L’arte della gioia, un libro rivoluzionario, con una figura femminile in continua evoluzione. La seconda invece è Marion Cotillard, attrice di quel cinema francese che tanto amo. Non ti nego che uno dei miei più grandi sogni è quello di lavorare in un set internazionale, sono certa che mi arricchirebbe tantissimo. Sì, direi che farmi due chiacchiere con Marion mi farebbe molto piacere!

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Favolacce: i bambini ci guardano (e ci giudicano) https://www.fabriqueducinema.it/festival/favolacce/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/favolacce/#respond Wed, 26 Feb 2020 08:12:51 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13606 Favolacce è il secondo film dei gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo, una favola nera con protagonisti bambini e i loro genitori

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Una fiaba nera come la notte quella firmata da Fabio e Damiano D’Innocenzo con tanto di voce narrante che funge da cornice, colori acidi e sguardo infantile. Dopo aver raccontato l’adolescenza criminale della periferia romana ne La terra dell’abbastanza, i D’Innocenzo si spingono oltre e scandagliano il lato oscuro dei sobborghi residenziali. Quelle raccontate in Favolacce sono famiglie del sottoproletariato uguali a tante altre, disoccupati, venditori, camerieri, che fanno sacrifici per tirare avanti dando ai figli un po’ di quel che meriterebbero, ma il malessere che scorre sotto la superficie troverà il modo di manifestarsi in modo imprevedibile.

A trentun anni, i fratelli D’Innocenzo si avventurano in un territorio impervio che ha visto cadere nomi più illustri ed esperti, ma la visione lucida e coraggiosa dei gemelli romani non teme ostacoli nell’accostarsi all’infanzia con sguardo a tratti partecipe e a tratti distaccato. Il talento di Fabio e Damiano D’Innocenzo si manifesta fin dal casting, perfetto, dei piccoli protagonisti che incarnano bambini solo in apparenza normali, bambini isolati, timidi o smarriti, curiosi di sperimentare e di conoscere ciò che li aspetta nella crescita.

Per gran parte del tempo Favolacce sembra raccontare una quotidianità fatta di piccole cose, incontri, confronti coi genitori, tentativi di socializzazione, prime cotte. La crisi economica rende più duro il quotidiano, ma le famiglie si dimostrano presenti, attente. Elio Germano, Gabriel Montesi e gli altri adulti non nascondono i loro lati grotteschi, la loro loro volgarità intrinseca, che cozza con la purezza dello sguardo infantile e i D’Innocenzo traslano da un punto di vista all’altro in un equilibro che arriverà a incrinarsi nel climax finale.

I D’Innocenzo si distanziano dalla matrice neorealista che caratterizzava la loro opera prima per esplorare quella regione oscura dove reale e surreale si incontrano, ed è da questo scarto che nasce Favolacce. La visione del film risulta ancor più angosciante proprio in virtù del fatto che la storia narrata nel film utilizza strumenti desueti per il cinema italiano. Lo stile visivo dei D’Innocenzo si fa più raffinato e stratificato, con primissimi piani insistiti sui piccoli protagonisti a cui corrisponde una rarefazione della parola. I piccoli osservano muti il degrado degli adulti che invece riversano su di loro un mare di parole (parolacce spesso), in buona fede, ma si dimostrano incapaci di comprenderli fino in fondo. La presenza dell’elemento naturalistico, tipico delle aeree suburbane, unito alla suggestiva fotografia di Paolo Carnera e a un montaggio sapiente creano un’atmosfera straniante e allucinata amplificata dall’uso del silenzio, tanto più assordante man mano che gli adulti aprono gli occhi sulla vera natura dei piccoli fino a toccare con mano l’orrore che si nasconde dietro i loro sguardi dopo che la luce si è spenta.

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Festival di Berlino: l’Orso d’oro va all’Ungheria https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-di-berlino-lorso-doro-va-allungheria/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-di-berlino-lorso-doro-va-allungheria/#respond Mon, 20 Feb 2017 09:05:03 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=4201 Dopo dieci giorni di competizione, file e buona programmazione, la Berlinale cala finalmente il sipario e svela le carte.  La giuria presieduta dal regista olandese Paul Verhoeven premia infatti, un po’ a sorpresa, On Body and Soul della regista Ildikó Enyedi, che si aggiudica così l’Orso d’oro come miglior film, la prima volta per l’Ungheria, […]

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Dopo dieci giorni di competizione, file e buona programmazione, la Berlinale cala finalmente il sipario e svela le carte.  La giuria presieduta dal regista olandese Paul Verhoeven premia infatti, un po’ a sorpresa, On Body and Soul della regista Ildikó Enyedi, che si aggiudica così l’Orso d’oro come miglior film, la prima volta per l’Ungheria, riconoscimento che l’anno scorso era andato Fuocoammare di Gianfranco Rosi.

Liaison d’amore atipica e silenziosa quella raccontata, scoccata tra il direttore finanziario di una macelleria e la responsabile del controllo igiene, una coppia che lentamente si avvicina grazie però a un sogno ricorrente e comune, essere due cervi immersi nella neve.

Il Gran Premio della Giuria è andato invece alla pellicola franco-senegalese Félicitè di Alain Gomis, bellissimo ritratto al femminile sullo sfondo di Kinshasa, dove una madre-coraggio cerca i soldi per l’operazione alla gamba del figlio. Strameritato il riconoscimento per Agnieszka Holland e il suo Pokot, Orso d’argento (Alfred Bauer Prize), e soprattutto quello assegnato ad Aki Kaurismäki per The Other Side of Hope, racconto tragicomico sui rifugiati nella Finlandia odierna, che verrà distribuito in Italia dal prossimo 6 aprile grazie a Valerio De Paolis. Un cinema tecnicamente lontano (girato in 35 mm), ma con lo sguardo geniale rivolto al presente, e futuro, ironico, drammatico, attuale, a tratti surreale, che ha fatto riflettere con umorismo sincero e affettuoso, un vero gioiello.

Dopo il successo di qualche anno fa per Gloria, un nuovo riconoscimento per Sebastián Lelio (insieme a Gonzalo Masa) vincitori della miglior sceneggiatura per Una mujer fantàstica, a conferma di un Cile sempre più protagonista. Sul fronte interpreti, l’Orso al miglior attore è andato al tedesco Georg Friedrich (in Bright Night), quello femminile alla coreana Kim Minhee per On the Beach at Night Alone.

E se l’Italia quest’anno non aveva nessuno in competizione, non bisogna però dimenticare l’omaggio straordinario per Milena Canonero, che qualche giorno aveva ricevuto l’Orso alla carriera, e la grande reazione attribuita per Luca Guadagnino grazie a Call Me by Your Name, con un sold out di pubblico che non si ricordava da tempo. Non solo qualità e politica, il Festival, che aveva aperto con Django (incentrato sulla persecuzione riguardo a molti gitani durante la Seconda Guerra Mondiale), ha centrato l’obiettivo della qualità narrativa, esprimendo ulteriormente ciò che in molti, tra gli addetti ai lavori, già conoscevano.

Rimane la consapevolezza che Berlino sia ogni anno, sempre di più, uno degli appuntamenti cruciali, secondo solo a Cannes, per quel mercato distributivo e acquisto, perché queste storie possano girare il mondo.

 

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Festival di Berlino – I talenti del futuro, anche dall’Italia https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-di-berlino-i-talenti-del-futuro-anche-dallitalia/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-di-berlino-i-talenti-del-futuro-anche-dallitalia/#respond Fri, 17 Feb 2017 12:04:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=4191 Se la Berlinale dei volti noti e celebrati continua in questi giorni a raccontarsi attraverso il concorso e le altre sezioni, c’è una schiera di 250 talenti provenienti da tutto il mondo che nel Festival trovano un modo per farsi ulteriormente conoscere. E condividere le proprie storie. Il progetto è quello del Berlinale Talents, una […]

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Se la Berlinale dei volti noti e celebrati continua in questi giorni a raccontarsi attraverso il concorso e le altre sezioni, c’è una schiera di 250 talenti provenienti da tutto il mondo che nel Festival trovano un modo per farsi ulteriormente conoscere. E condividere le proprie storie.

Il progetto è quello del Berlinale Talents, una sorta di campus artistico a 360°, scandito da incontri, workshop, condivisioni, promozioni, insomma una vetrina, all’interno e parallelo al Festival, capace di farci scoprire il lato nascosto ed espresso di molti professionisti.

È il caso di Piernicola Di Muro, appassionato quarantenne romano, da dieci anni film composer per cinema e televisione, diventato anche music producer, che tra 5000 domande è uno dei pochi italiani in questo ambito ad essere stato scelto.

Quando parliamo, in un ristorante vicino a Potsdamer Platz, la sorpresa emerge subito riguardo ai suoi inizi, partiti grazie al Premio Oscar Vittorio Storaro: «Dal 1995 al 2000 ho studiato cinema all’Accademia Internazionale per le Arti e Scienze dell’Immagine dell’Aquila, ero lì per specializzarmi in fotografia cinematografica, fu proprio in quell’occasione che incontrai Storaro. Mi ha allevato e cresciuto, tanto che a un certo punto mi scelse per lavorare con lui fuori dall’ambito accademico, durò 6-7 anni. Ero nel camera department, tante collaborazioni, anche all’estero, ricordo il set a Praga di una serie come Dune, o su pellicole come L’esorcista – La Genesi, Mirka con Gerard Depardieu e Vanessa Redgrave. L’esperienza è stata cruciale, me ne rendo conto forse più oggi, anche se all’epoca decisi che volevo cambiare pagina e dedicarmi ad altro. Le colonne sonore appunto».

Da quel momento per Di Muro l’elaborazione creativa sul suono diventa così l’occupazione principale, una passione non solo focalizzata sulla composizione, ma che lo ha portato a confrontarsi, da autodidatta, a perfezionarsi in mixing e registrazioni. Da qualche anno infatti, uno dei progetti a cui tiene maggiormente, BeWider, lanciato nel 2013, lo ha difatti proiettato anche in una diversa orbita strumentale e di ricerca.

Ma è il binomio di musica e immagini che continua a scandire il ritmo del suo lavoro, anche pensando ai suoi riferimenti. « Il film che mi ha cambiato è stato Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg, la musica di John Williams interagisce su tutto. Negli ultimi vent’anni penso che però uno dei personaggi maggiormente rivoluzionari sia stato Hans Zimmer, senza dubbio, ha saputo concepire opere straordinarie, la sua sound signature è unica, lui come anche Alexandre Desplat, Clint Mansell, ascoltando nomi nuovi e provenienti da altri ambienti, da Ólafur Arnalds a Nils Frahm. Bisogna distinguere bene però quello che faccio io, da chi opera invece solo come musicista. Cambia naturalmente la grammatica che usi, ecco perché il background di lavoro sulle immagini si è rivelato utilissimo, conosci il montaggio, i tempi, la recitazione, e su quello puoi esprimerti, insieme ai registi, trovando il percorso sonoro giusto. Amo mischiare le librerie virtuali, le funzionalità, senza perdere i suoni veri, i violoncelli, la tecnologia deve fondersi con la performance vera».

«Desidero crescere con gli autori e andare avanti insieme – prosegue di Muro – penso a Lamberto Sanfelice, con il quale realizzai la colonna sonora di Cloro. Ora sono occupato dalla seconda stagione di una serie TV, È arrivata la felicità, e poi c’è una scommessa a cui tengo particolarmente, Echo, un cortometraggio realizzato da un regista e animator spagnolo Victor Perez. È qualcosa di sperimentale, costruito con la tecnologia motion control usata per Gravity, lui lavora negli effetti visivi, ha doti di compositing molto avanzate, la cosa interessante è che tra poco mi sposterò negli Stati Uniti, alla Skywalker Sound fondata da George Lucas, proprio per ultimare il lavoro».

 

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Festival di Berlino: “Call me by your name”, l’idillio cinechic di Guadagnino https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-di-berlino-call-me-by-your-name-lidillio-cinechic-di-guadagnino/ https://www.fabriqueducinema.it/festival/dal-mondo-festival/festival-di-berlino-call-me-by-your-name-lidillio-cinechic-di-guadagnino/#respond Tue, 14 Feb 2017 15:03:58 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=4161 La bolla di “Call Me by Your Name”, di Luca Guadagnino, è un’estate afosa da spendere in giardini rigogliosi, mordendo con pigrizia frutta senza imperfezioni, perfettamente rotonda, lascivamente succosa. È una bolla dei sensi, consumata all’ombra di fronde messe in piega da invisibili giardinieri: l’acqua fredda (lago, mare, piscina, fate voi: nella bolla c’è tutto) […]

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La bolla di “Call Me by Your Name”, di Luca Guadagnino, è un’estate afosa da spendere in giardini rigogliosi, mordendo con pigrizia frutta senza imperfezioni, perfettamente rotonda, lascivamente succosa.

È una bolla dei sensi, consumata all’ombra di fronde messe in piega da invisibili giardinieri: l’acqua fredda (lago, mare, piscina, fate voi: nella bolla c’è tutto) che increspa la pelle al contatto, l’umido della notte che impregna gli anfratti di ville-labirinto, il sole d’agosto che invita a godere, a prendersi tutto, a inseguire qualsiasi desiderio – senza distinzione fra uomini, donne, cose.

La bolla di Guadagnino è un banchetto dei sensi apparecchiato su una tavola idilliaca, l’Italia agreste-chic del countryshire, del vino buono, del pescatore/contadino che porta a tavola il pesce ancora vivo, l’Italia delle rovine fascinose e dei reperti che sbucano dal mare, un’Italia di fantasia dove in casa si parlano quattro lingue, si studia il greco, si suona Bach, dove a nessuno frega niente di politica o lavoro e i padri perdonano, le madri amano incondizionatamente, gli amanti si piegano al desiderio senza sforzo alcuno.

È una bolla, il film di Guadagnino, perché esiste e funziona solo se si accetta il patto scritto all’inizio del viaggio. Siamo “da qualche parte nel Nord Italia”, dicono i titoli di testa, e Craxi, gli orecchini a cerchio e i Talking Heads ci suggeriscono il setting anni ’80: bastino queste vaghe unità di tempo e luogo per dettare i confini del quadretto. La storia è un’impalcatura sottile, del resto a sostenere una bolla non serve chissà quale architettura. C’è un ragazzo giovane e sensibile (Timothée Chalamet: bravissimo) e c’è un bell’uomo straniero (Armie Hammer: lanciatissimo) che vivrà per qualche tempo in casa sua. I due si scoprono, si piacciono, si amano. Non c’è antagonista né opposizione, non c’è l’ombra di un contrasto, non ci sono barriere a impedire l’incontro fra i due corpi: il film è tutto qui, consumato nell’atto del cercarsi, nel piacere di trovarsi, nel godimento del desiderio realizzato.

Sono due ore di benessere artificiale, quelle di Call Me by Your Name, iperchic cine-spa che intorpidisce leggermente i pensieri ma ammalia i sensi. Certo, per farla scoppiare basterebbe poco. Ma è una bolla così bella, così rotonda e così felice che la voglia di crederci, sia pure per lo spazio di un film, è più forte di ogni tentazione.

Inclusa quella di bucarla, sadicamente, con il pungolo della realtà.

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“Fuocoammare”, la scelta di Rosi https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/fuocoammare-la-scelta-di-rosi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/fuocoammare-la-scelta-di-rosi/#respond Wed, 24 Feb 2016 10:12:33 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2760 Incontro con Gianfranco Rosi, trionfatore a Berlino con il suo documentario Fuocoammare, dedicato alla tragedia dei migranti nelle acque di Lampedusa. Non c’è solo una storia in questo film, ce ne sono varie… Si tratta di tre storie parallele: c’è la storia di un salvataggio in mezzo al mare, quella dell’isola con i personaggi, fra […]

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Incontro con Gianfranco Rosi, trionfatore a Berlino con il suo documentario Fuocoammare, dedicato alla tragedia dei migranti nelle acque di Lampedusa.

Non c’è solo una storia in questo film, ce ne sono varie…

Si tratta di tre storie parallele: c’è la storia di un salvataggio in mezzo al mare, quella dell’isola con i personaggi, fra cui Samuele, che sono poi diventati protagonisti del film e c’è la storia del centro. Sono come tre dimensioni separate che lo sono anche nella realtà.

C’era già qualcosa di scritto, di preparato nella sceneggiatura?

È tutto molto vero. Io dico sempre che è un film che si è come autofecondato, si è fatto da solo. La scrittura era attraverso la cinepresa, attraverso le improvvisazioni. Ho sempre voluto usare una dimensione cinematografica anche di racconto, però tutto quello che avveniva davanti alla macchina era assolutamente spontaneo e reale. Come la difficoltà che un bambino (Samuele) ha nel confrontarsi con la crescita, con l’adolescenza, con il mare, con il confine. Lui soffre persino il mare (come me del resto…). Poi, piano piano, accadevano dei fatti che sono diventati delle piccole metafore per il film: l’occhio pigro, l’ansia, l’invenzione del nemico con i fichi d’india. Samuele è diventato così anche uno stato d’animo del film.

Quanto è stato difficile scegliere di riprendere la morte di così tante persone?

Estremamente difficile: è stato un punto di arrivo del film. Quando sono arrivato sull’isola c’era l’assenza della tragedia, ma se ne udiva ancora l’eco, perché era appena accaduto il dramma del 3 ottobre in cui erano annegate più di 300 persone. Poi, quando ho iniziato il viaggio sulla nave della Marina Militare Italiana Cigala Fulgosi, mi sono confrontato anche io con la morte. Lì la morte mi è arrivata addosso, non potevo girare lo sguardo da un’altra parte. Mi sono dovuto confrontare con una scelta immediata, filmo o non filmo, e la stessa cosa nel montaggio: cosa posso far vedere di tutto questo? È stata una scelta dura, ma penso inevitabile.

Fuocoammare_05_registaQuale il momento più forte che si è trovato a documentare?

Siamo usciti con l’idrobarca per avvicinarsi un barcone, e sembrava una delle tante operazioni di intercettazione che avevo già filmato: ma quando siamo arrivati ho visto dei corpi agonizzanti davanti a me, ho sentito il loro respiro affannoso, e decidere di filmare è stato molto difficile. È stata la realtà più forte che abbia documentato, quella che ti lascia un segno. Dopo quel momento ho deciso che il film doveva chiudersi e che dovevo iniziare a montare con quello che avevo, più o meno 80 ore di girato, non avevo più la forza di continuare a filmare.

Quanto tempo ha trascorso sulla nave della Marina?

Ho fatto due viaggi. Il primo, di 2-3 settimane, è servito a conoscere il comandante, l’equipaggio, la vita di bordo, ma senza incontri con i profughi sul mare: è stato una specie di test, credo, per vedere come mi sarei comportato su una nave con una cinepresa. Ma senza questa introduzione non sarei stato in grado di girare e fare scelte così ardue: da allora ho sentito davvero l’adesione di tutto l’equipaggio.

Ritiene che Fuocoammare si possa considerare un film politico?

Io penso che il film sia politico a prescindere: non ci sono dei messaggi politici, c’è semplicemente la testimonianza di una tragedia che spero porti consapevolezza. Però il dibattito in Europa è talmente forte, il tema pulsante – me ne sono reso conto a Berlino – che il film non può prescindere da un’interpretazione politica, anche se non era la mia intenzione iniziale.

Sicuramente testimonia un messaggio umano e civile: come dice il medico, un uomo che voglia definirsi tale non può rimanere indifferente alla tragedia di queste persone.

Spero che il film porti proprio a questo, a una consapevolezza da parte della politica a livello europeo a trovare delle soluzioni che certamente non possono consistere nell’innalzare barriere o fili spinati. Anche se la cosa che mi fa più paura è la chiusura nella mente delle persone.

Nei suoi film di solito non usa musica: qui invece ci sono molte canzoni della tradizione siciliana e poi una canzone poco conosciuta che dà il titolo al film, Fuocoammare.

Non sono mai riuscito a usare la musica nei miei film perché sarebbe come sottolineare,mettere una voce fuori campo. Invece qui la musica veniva da una storia vera, la storia di Pippo, un dj che mette le canzoni su richiesta alla radio di Lampedusa, protagonista involontario del documentario, ed è perciò diventata un’esigenza narrativa all’interno del film.

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