Festival dei Popoli Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Fri, 15 Jul 2022 10:27:25 +0000 it-IT hourly 1 L’età dell’innocenza: il giudice, mia madre https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/leta-dellinnocenza-il-giudice-mia-madre/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/leta-dellinnocenza-il-giudice-mia-madre/#respond Fri, 17 Jun 2022 10:48:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=17291 28 maggio 1974, Brescia. Una bomba nascosta in un portarifiuti esplode ferendo 102 persone e uccidendone altre 8, durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista. Una delle piazze più famose del bresciano diventa all’improvviso un sostantivo macabro del vocabolario italiano, come succede solo alle località colpite dalla cronaca nera: La strage di Piazza della Loggia. […]

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28 maggio 1974, Brescia. Una bomba nascosta in un portarifiuti esplode ferendo 102 persone e uccidendone altre 8, durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista. Una delle piazze più famose del bresciano diventa all’improvviso un sostantivo macabro del vocabolario italiano, come succede solo alle località colpite dalla cronaca nera: La strage di Piazza della Loggia. 43 anni dopo il giudice Anna Conforti pronuncia l’ultima sentenza del processo e della sua carriera: «È stato il momento in cui ho deciso di fare questo film, L’età dell’innocenza. Mi sembrava che stessimo vivendo tutti e due, in contemporanea, un momento di passaggio importante. Io me n’ero andato di casa da poco, mia madre stava per chiudere la sua vita lavorativa con una sentenza storica».

A parlare è Enrico Maisto, autore del docufilm L’età dell’innocenza, prodotto da Start e Rai Cinema e premiato al 62º Festival dei Popoli come Miglior documentario italiano. Attraverso lo spirito young-adult, e senza voler più trovare risposte né emettere “sentenze”, Maisto racconta la storia vera del distacco tra lui e sua madre, filmandola nel suo ultimo giorno di lavoro alla Corte d’Assise di Milano. «Pensa che all’inizio immaginavo un film molto più cupo, con un sentimento di lutto rispetto a un’epoca che finisce. Poi la commedia della vita è entrata a gamba tesa».

Dopo l’ultima sentenza la telecamera spia la coppia di genitori in cucina, dove regna un silenzio quasi mistico. Senza mai romperlo, il marito dà alla moglie una pacca leggera sulla spalla e poi un bacio, sempre piccolo e sempre sullo stesso punto. La delicatezza è quella dell’Amour di Haneke, ma senza messa in scena. «Due ergastoli. Chiudere una carriera con due ergastoli è pesantissimo, ti sconvolge anche se sei convinto che sia la scelta giusta. Tornati a casa dopo la sentenza, nell’aria c’era il senso della fine e anche il rendersi conto che tutti i telegiornali già ne stavano parlando. Mia madre, ovunque fosse in quel momento, era irraggiungibile. Solo lei può sapere cosa stava provando, noi le giravamo intorno senza capire come accarezzarla. Mio padre era l’emblema di questa tensione, e alla fine è venuto fuori un gesto molto semplice, che dice tutto di quel momento e di loro due».

Enrico Maisto è nato alla fine degli anni Ottanta, figlio di magistrati in un’epoca in cui esserlo conferiva un’aura di timore e insieme di ammirazione. «In quegli anni sono successe due cose fondamentali rispetto alla magistratura: le stragi, che hanno trasformato i giudici in martiri, e poi Tangentopoli, che prima li ha visti come degli eroi e poi, con l’arrivo di Berlusconi, ha rovesciato totalmente la loro immagine. Ma il periodo in cui erano sia martiri che eroi ha coinciso con il momento in cui io ero più piccolo, e questo ha lasciato un segno profondo. C’era anche la paura di perderli, che li ammazzassero. Arrivavano echi dagli anni di piombo, i delitti di mafia, quelli legati al terrorismo politico. L’aspetto di morte, lugubre e tetro, ancora risuonava. Così da piccolino mi è venuto da fare questo paragone tra la toga di mia madre e il mantello di Batman. Nel ’92 avevo quattro anni ed erano appena usciti i primi film di Tim Burton, che mi hanno investito in pieno. Non è un caso che il mio eroe preferito sia un orfano».

L'età dell'innocenzaImpenetrabile, ironica, mordace. Anna Conforti è un magistrato rigido e perso nei silenzi del film, che poi d’improvviso si fa carico di tutta una comicità materna dal retrogusto alla Zerocalcare (è uno spasso vederla uscire fuori dalla TV, mentre al telegiornale scorrono le immagini della sentenza, e andare a parlare col figlio assumendo quasi le sembianze di Lady-Cocca). «Mi sono reso conto che mia madre era un personaggio bellissimo, da film. Non ho fatto nient’altro che provocarla perché si potesse rivelare. Lei ha questi lampi, queste frasi che hanno un carattere quasi lapidario. A volte sono molto divertenti, altre molto incisive».

Tra le frasi più forti (rispetto a ciò che ci aspetta che una donna pensi e dica, ancora oggi) Anna confessa: «Non voglio giudicare più, e soprattutto non voglio più essere giudicata. Perché chi giudica alla fine viene giudicato sempre». Maisto commenta: «Vai a costruire le tue piccole trappole per provocare i bersagli del film ma poi succede qualcosa che ti spiazza. Quel momento rappresenta il logoramento che quel ruolo ha prodotto in mia madre in quarant’anni di professione. La fatica, il convivere con la paura del dubbio e dell’errore, il desiderio di liberarsi di questa toga. Non è un caso che quando lei dice di non voler più giudicare inizi anche un dialogo nuovo tra di noi».

«Mi sono innamorata di te e della maternità poco per volta… Che poi, quando c’ero riuscita, tu te ne sei andato. Che sfiga, eh?». L’altra frase è fulminante, eppure Enrico-figlio non solo la accoglie, ma da regista sceglie anche di inserirla nel film. «È una frase che ti rovescia addosso un bel senso di colpa. Esprime tutto il suo desiderio di volersi riappropriare di quello che ha perduto a causa del lavoro, di tutti i momenti della vita in un colpo solo». E di far pace con il periodo storico in cui Anna ha iniziato ad essere madre e giudice insieme, che ha più a che fare con le aspettative sociali mancate che con le mancanze di un genitore.

Divertito all’idea che il suo terzo film sia uscito in sala insieme a Top Gun: Maverick – «Ovviamente lo so solo io, Tom Cruise non ne ha idea» – Maisto nota che mentre Cruise è arrivato a pilotare aerei per far coincidere la sua persona con il personaggio (sul mito di quel cinema partito negli anni Ottanta che sognava da bambino), lui stia invece portando avanti una narrazione che «fa i conti con un uomo fragile e vulnerabile, diverso da quei modelli maschili introiettati in passato». Enrico incarna una dimensione generazionale, il conflitto di quelli nati sotto il segno dell’adolescenza perpetua e che non smettono mai d’essere figli. Il confronto con sua madre è spietato: uno va via di casa a trent’anni, l’altra chiude il capitolo di una strage italiana. Si scrutano e quasi non si conoscono: l’età dell’innocenza del figlio si conclude quando inizia quella della madre.

Questa è un’anticipazione dell’articolo che sarà pubblicato per intero sul prossimo numero di Fabrique du Cinéma, disponibile solo per gli abbonati: per abbonarti vai sulla pagina Fabrique du Cinéma/Abbonamenti

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Rondò final: il film d’archivio come esperimento creativo https://www.fabriqueducinema.it/magazine/documentario/rondo-final-il-film-darchivio-come-esperimento-creativo/ Fri, 26 Nov 2021 13:19:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=16445 Dopo l’anteprima mondiale al prestigioso Festival Visions du Reel di Nyon lo scorso aprile, Rondò final è ora in concorso nella 62° edizione del Festival dei Popoli a Firenze (20 al 28 novembre). Rondò final (di Gaetano Crivaro, Margherita Pisano e Felice D’Agostino) è un’affascinante avventura cinematografica che dietro la vieta etichetta del documentario etnoantropologico […]

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Dopo l’anteprima mondiale al prestigioso Festival Visions du Reel di Nyon lo scorso aprile, Rondò final è ora in concorso nella 62° edizione del Festival dei Popoli a Firenze (20 al 28 novembre).

Rondò final (di Gaetano Crivaro, Margherita Pisano e Felice D’Agostino) è un’affascinante avventura cinematografica che dietro la vieta etichetta del documentario etnoantropologico o di quella del film d’archivio, tutte e due tecnicamente corrette e contemporaneamente del tutto inadeguate, cela una doppia eccezione, due diverse ragioni d’interesse che sono in realtà le due fasi di un unico processo. Da una parte la forma non convenzionale di un film rigoroso che da una struttura quasi geometrica sublima in direzione di un onirico poema politico; il risultato si potrebbe dire, dall’altra parte, di un modus operandi fuori della norma, collettivo e anarchico, dialettico, ma non mirato alla sintesi. L’esito dell’incontro e degli sforzi congiunti, tra l’altro, di due coppie di filmmaker: Felice D’Agostino e Arturo Lavorato (calabresi, meridionalisti, tra i più rigorosi, colti e originali autori di documentario di questi anni), Margherita Pisano e Gaetano Crivaro (compagni d’arte e di vita, sarda lei, calabrese lui anche se trapiantato sull’isola da una decina d’anni, ricercatori e artefici di cinema viandante) riuniti a lavorare in Sardegna.

All’origine del film l’immagine di una visione, la visione di un’immagine: una lunghissima processione che si snoda sullo sfondo vicino di un gigantesco impianto industriale. È il 2014, Pisano e Crivaro intercettano la processione della festa di Sant’Efisio – celebrazione tradizionale sarda che si ripete ormai senza interruzioni da più di trecentosessant’anni muovendo un corteo religioso per molte decine di chilometri tra Cagliari e Nora e ritorno, per sciogliere il voto del 1652, quando il santo liberò la città dalla peste – e iniziano ad accumulare i primi materiali autoprodotti senza ancora una meta cinematografica precisa. Nel 2018, con il coinvolgimento di D’Agostino, Lavorato e Massimo Carozzi, inizia un periodo di laboratori, ricerche negli archivi fra cui soprattutto la Cineteca Sarda, esperimenti, incontri che pochi mesi più tardi darà l’origine al progetto del film.

I titoli di coda di Rondò final spiegano in sintesi la natura del processo. Si legge: «Un film a staffetta, ideato, sognato, incominciato e coordinato da Gaetano Crivaro e Margherita Pisano»; e poi «smontato, discusso, montato e rimontato dall’Assemblea di Montaggio composta da: Luca Carboni, Alberto Diana, Margherita Riva, Vittoria Soddu» oltre ai quattro succitati autori; e infine «accordata, ispirata e coordinata da Arturo Lavorato e Felice D’Agostino».

Tra il ’18 e il ’20 si selezionano riprese d’archivio di diverse origini, in diversi formati (pellicola, VHS, file digitali), si gioca a tagliarli e combinarli aprendo su questo lavoro un confronto e un dibattito a più voci; si registrano anche nuove riprese visive e sonore, in formati analogici e digitali, e li si “mette nel mucchio” concettualmente confondendoli con gli altri, raccogliendoli in un unico grande blocco di materia dalla quale far emergere la forma di un’idea. All’inizio della pandemia in tre – Pisano, Crivaro e D’Agostino – prendono in mano i trenta minuti circa lievitati fin là e rifiniscono una versione definitivamente temporanea del film che diventa un mediometraggio lungo.

Rondò final
“Rondò final”, un’immagine del film.

Un modo inconsueto e di fatto “fuorilegge” per fare del film una forma che produce pensiero e che è al contempo risultato di un lavoro, e officina nella quale questo lavoro ha luogo. Il lavoro è il gioco di scritture sovrapposte, manipolazioni e manomissioni, confronti e giustapposizioni che per un verso rendono il materiale d’archivio nuovo e lo dirottano nella direzione del discorso dei suoi nuovi autori; per l’altro espropriano i materiali (i nuovi e i vecchi, visivi e sonori, più i secondi dei primi) dalla patria potestà di chi li ha realizzati, allontanandoli come nel tempo sospeso del sogno. Una direzione più esplicita al discorso aperto proposto dal film la danno due voci: una femminile l’altra maschile, una italiana, l’altra straniera, una che rilancia l’omonimo testo di Sergio Atzeni dedicato alla festa del santo (contenuto in I sogni della città bianca), l’altra che getta su quelle immagini le parole di Frantz Fanon (I dannati della terra), usate come motori per la trasfigurazione concettuale del materiale documentale.

Come in una trance ossessivo-riflessiva, teorie di volti e di corpi attraversano lo schermo da una parte all’altra, ripresi da lontanissimo e da vicinissimo: attraversano la durata di un’inquadratura, attraversano cent’anni di liturgie civili sovrapposte a quelle religiose, cent’anni di processioni oranti, di cortei ippici, di danze del potere che si dispongono nel mezzo del rito innescando un gioco di campi e controcampi tra sacro e profano. Un cerchio che diventa spirale, uno schema che sembra ripetersi ma che non torna mai identico a se stesso e che anzi cambia a ogni ciclo spostandosi su un nuovo livello formale, tecnologico, ideale.

 

 

 

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