Federico Fellini Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Wed, 22 Jun 2022 10:35:11 +0000 it-IT hourly 1 Fellini: perché non possiamo fare a meno del suo genio https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/fellini-perche-non-possiamo-fare-a-meno-del-suo-genio/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/fellini-perche-non-possiamo-fare-a-meno-del-suo-genio/#respond Fri, 19 Jun 2020 13:31:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=14141 Quattro volte premio Oscar In esclusiva su Fabrique un’anticipazione della bellissima intervista che apre il libro di Aldo Tassone su tutti i film di Fellini, di prossima uscita per la Cineteca di Bologna: l’unico volume che, nel centenario della nascita, esamina uno a uno i 24 film del regista che ha vinto per ben quattro […]

L'articolo Fellini: perché non possiamo fare a meno del suo genio proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Quattro volte premio Oscar

In esclusiva su Fabrique un’anticipazione della bellissima intervista che apre il libro di Aldo Tassone su tutti i film di Fellini, di prossima uscita per la Cineteca di Bologna: l’unico volume che, nel centenario della nascita, esamina uno a uno i 24 film del regista che ha vinto per ben quattro volte l’Oscar (per La strada, Le notti di Cabiria, 8 e 1/2, Amarcord).

Tassone-Fellini, un’amicizia lunga quarant’anni

Quello che ha legato per oltre quarant’anni lo storico del cinema Federico Fellini ad Aldo Tassone (direttore di un indimenticato festival del cinema francese a Firenze, France Cinéma, dal 1986 al 2008) è stato un rapporto di grande amicizia e un sodalizio professionale che negli anni ha condotto a numerose conversazioni in cui il Fellini, grande affabulatore, spiegava il suo cinema, non di rado depistando scherzosamente intervistatore e lettori.

[questionIcon]Si dice che Federico Fellini non vada quasi mai al cinema, e non rivedrebbe mai i suoi film.

[answerIcon]Quando un mio film è finito, ne esco come da una malattia. Rivederlo dopo anni mi sembra qualcosa di vagamente indecente, come riesumare appunto dei fatti patologici. Non so distinguere un film da un altro; per me, ho sempre girato lo stesso film. Si tratta di immagini, e solo di immagini, che ho realizzato usando i medesimi materiali, forse sollecitato di volta in volta da punti di vista diversi. Non è la memoria che domina i miei film. I miei film non sono autobiografici, questa è una classificazione sbrigativa: io mi sono quasi tutto inventato, un’infanzia, una personalità, nostalgie, sogni, ricordi, per il piacere di poterli raccontare. Nel senso dell’aneddoto, di autobiografico, nei miei film non c’è nulla. Quel che so è che ho voglia di raccontare. Raccontare mi sembra l’unico gioco che valga la pena di giocare.

[questionIcon]In una sequenza del suo film Roma, rispondendo sul set alla domanda capziosa di un giornalista lei dice: «Ciascuno deve fare solo ciò che gli è più congeniale».

[answerIcon]Mi pare che uno dovrebbe tentare di fare quello che sa fare, cosa ancora più importante, dovrebbe imparare a riconoscere in tempo che cos’è quello che sa fare. Ad esempio, io non saprei mai fare un film politico come li fanno ottimamente i fratelli Taviani, Rosi, Maselli, e quindi non mi ci provo nemmeno. Le idee generali, i sentimenti da barricata, l’abbandono rivoluzionario, possono anche commuovermi per un certo tratto, poi improvvisamente mi svuotano, mi disancorano, non capisco più. Allora mi ritiro, torno sul terreno che mi è più congeniale, quello di rappresentare magari una volta o l’altra anche una rivoluzione, la storia di una rivoluzione. Fallita. Che male c’è a stare a guardare e raccontare quello che si vede? Ma raccontare quello che si vede significa anche fare politica, oggi, dirà qualcuno. Certo, se per politica si intende solo sottolineare un episodio di malcostume politico o sociale, in questo senso io non faccio politica. Ma se per politica si intende la possibilità di vivere insieme, di operare in una società di individui che abbiano rispetto per se stessi e che sanno che la propria libertà finisce là dove comincia la libertà altrui, allora tutti i miei film sono politici in quanto parlano di queste cose; magari denunciandone esclusivamente l’assenza, rappresentando un mondo che ne è privo. Credo che tutti i miei film tentino di smascherare il pregiudizio, la retorica, lo schema, le forme aberranti di un certo tipo di educazione e del mondo che ha prodotto.

Federico Fellini con Marcello Mastroianni
Federico Fellini con Marcello Mastroianni

[questionIcon]Può succedere che un artista metta la stessa carica in un soggetto che non gli piace?

[answerIcon]Sì, certo. C’è solo bisogno di un pretesto per mettere in moto l’energia creativa. Superata la fase adolescenziale o della giovinezza, in cui sembri aver bisogno di tutto, di coincidenze, identificazioni, accensione ideologica, affermazioni autobiografiche, un motivo vale l’altro. Il pretesto più valido tutt’oggi per me è il contratto e l’anticipo. Sarei favorevole a una qualsiasi autorità statale o privata, come nel Quattrocento, quando un papa, un granduca, un viceré, chiamavano un pittore o un poeta e gli commissionavano l’opera, e se l’artista non l’eseguiva non gli davano da mangiare. Andando avanti con gli anni ho scoperto che se prima, per fare un film, il film mi doveva piacere, ora un film mi piace perché lo faccio.

[questionIcon]L’immagine, per lei, è protagonista assoluta. Lavora molto intensamente con l’operatore prima di iniziare a girare?

[answerIcon]Il cinema è immagine. L’immagine è fatta di luce. Quindi nel cinema la luce è tutto. Ideologia, sentimento, tono, colore, profondità, atmosfera, racconto, stile. Con un riflettore e un paio di “bandiere” il volto più opaco e inespressivo può diventare intelligente, misterioso, affascinante. La scenografia più elementare o rozzamente realizzata può con la luce rivelare prospettive insospettate e dare al racconto un’atmosfera sospesa, inquietante, oppure, spostando appena un cinquemila e accendendone un altro in controluce, ecco che ogni senso di angoscia scompare e tutto diventa sereno, amichevole, confortante. Il film si scrive con la luce, lo stile di un autore si esprime con la luce.

[questionIcon]La scelta degli attori è sicuramente un momento capitale. A proposito del suo cinema si parla troppo poco della sua capacità straordinaria di “dirigere” gli attori.

[answerIcon]Scelgo io anche la faccia dell’ultima comparsa, anche di quelle che stanno in mezzo a una folla e che non si vedranno nemmeno in proiezione. Ma come potrebbe essere diversamente? Eppoi, scusi, domanderebbe a un pittore se c’è qualcun altro oltre a lui che decide i colori di un suo dipinto? Non mi sono mai deciso alla scelta di un attore attratto dalla sua bravura, dalla sua capacità professionale; come non mi ha mai trattenuto dal prendere un non attore la sua inesperienza. Per i miei film vado in cerca di facce espressive, caratterizzate, che interessino, incuriosiscano, divertano subito, appena appaiono, e tendo a sottolineare con il trucco e il costume tutto ciò che può evidenziare la psicologia del tipo. Per scegliere non ho un sistema. La scelta dipende dalla faccia che ho davanti e da quel tanto che posso intuire o fantasticare su chi vedo per la prima volta. Mi capita anche di sbagliare, è ovvio, e di accorgermi alle prime inquadrature di avere sopravvalutato un volto, e che quella espressione che mi aveva colpito era del tutto casuale e ora il tipo non ce l’ha più, forse non l’aveva mai avuta, è proprio diverso… Che fare in questi casi? Be’, preferisco cambiare il personaggio della sceneggiatura piuttosto che obbligare il prescelto a entrare in panni non suoi. Il risultato per me è positivo. Ognuno ha la faccia che gli compete, non può averne un‘altra: e tutte le facce sono sempre giuste, la natura non sbaglia. Una risorsa per me, in questo campo, è osservare l’attore durante i momenti di pausa; a tavola, per esempio, quando cominciano le confidenze, i discorsi sulla politica; quando chiacchierano con i macchinisti. All’attore che deve dire all’amante o al suo torturatore: «È atroce passare un’altra notte come questa!» suggerisco: «Fai come quella volta che hai detto al cameriere: “Mi hai portato il riso scotto!”». Anzi a volte arrivo a far dire all’attore: «Mi hai portato il riso scotto!» anziché dichiarare che un’altra notte come quella è atroce. Al doppiaggio risistemo tutto, e la notte atroce torna al posto del riso scotto.

Federico Fellini sul set de La dolce vita
Federico Fellini sul set de “La dolce vita”

[questionIcon]Per fortuna Federico Fellini non sembra appartenere alla categoria dei “cervelloni armati” e nemmeno a quella degli “improvvisatori”, contrariamente a quanto si è a volta scritto.

[answerIcon]Quella di essere un “improvvisatore sul set” è una favola. Non si improvvisa mentre si gira, a parte qualche suggerimento e avvertimento marginale. La traduzione di una fantasia in termini plastici, corposi, fisici, è un’operazione delicata. Ora, il fascino maggiore di queste fantasie sta proprio nella loro non definizione. Definendole si perde inevitabilmente la dimensione sognata, lo smalto del mistero. Poi, quando giri, tutt’intorno c’è il pullulare di vita della troupe; e ci sei tu con le tue sollecitazioni private di simpatia o antipatia, e la noia, il fastidio, la stanchezza. Tutto ciò, se indubbiamente rappresenta un depauperamento, è a volte anche un arricchimento: in questa nuova vita nasce qualcosa di definito, di concreto, di permanente, qualcosa che è il film cosi come sarà visto anche dagli altri. Dal film che avevi in testa ne nasce un altro che è solo simile al primo, ma non è più quello. Per questa ragione non vorrei mai andare in proiezione a vedere ciò che ho girato. Perché a me sembra che, quando vai a vedere giorno dopo giorno il materiale girato, vedi un altro film, vedi cioè il film che stai facendo e che comunque non sarà mai identico a quello che volevi fare. E il film che volevi fare, avendo questo continuo termine di paragone nel film che stai realmente facendo, rischia di mutarsi, si affievolisce, può sparire. Questa cancellazione del film che volevi fare deve avvenire, sì, ma soltanto alla fine delle riprese, quando in proiezione accetterai il film che hai fatto e che è l’unico possibile; l’altro, quello che volevi fare, avrà avuto così soltanto una sua determinante funzione di stimolo, di suggerimento, e ora dinanzi alla realtà fotografata non lo ricordi nemmeno più, si è come scolorito, sta scomparendo. Perciò ritengo che sia assolutamente inutile e stupido parlare di un film prima di farlo, e anche parlarne dopo. Non se ne dovrebbe parlare mai: non c’è proprio niente da dire.

Leggi l’intervista completa sul numero 28 di “Fabrique du Cinema”

 

 

L'articolo Fellini: perché non possiamo fare a meno del suo genio proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/fellini-perche-non-possiamo-fare-a-meno-del-suo-genio/feed/ 0
Il nuovo numero di Fabrique finalmente online! Leggilo ora https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/il-nuovo-numero-di-fabrique-online/ https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/il-nuovo-numero-di-fabrique-online/#respond Fri, 17 Apr 2020 14:51:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13795   LEGGI E SCARICA QUI FABRIQUE N. 28! Per la prima volta il nuovo numero di Fabrique du Cinéma è pubblicato esclusivamente sul web: certo, è una scelta dettata dal lockdown che in questi mesi ha rivoluzionato ogni aspetto dell’economia e della società di tanti Paesi, e il cinema è uno di quei settori che ne […]

L'articolo Il nuovo numero di Fabrique finalmente online! Leggilo ora proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
 

LEGGI E SCARICA QUI FABRIQUE N. 28!

Per la prima volta il nuovo numero di Fabrique du Cinéma è pubblicato esclusivamente sul web: certo, è una scelta dettata dal lockdown che in questi mesi ha rivoluzionato ogni aspetto dell’economia e della società di tanti Paesi, e il cinema è uno di quei settori che ne ha particolarmente sofferto. Le produzioni sono tuttora bloccate e l’uscita di tanti film molto attesi, di cui parliamo nelle pagine del nuovo numero (preparato prima dell’emergenza), è stata rimandata a data da destinarsi e non possiamo nasconderci che tutta la filiera stia attraversando un momento particolarmente difficile.

Tuttavia noi siamo assolutamente convinti che questo sovvertimento porterà con sé anche tante novità positive, nelle modalità di fruizione e nei contenuti del cinema, e con il 28esimo Fabrique lo gridiamo a gran voce: e come noi ci credono tanti registi, sceneggiatori, produttori, distributori ed esercenti, che si stanno attrezzando per trasformare gli ostacoli in opportunità.

Ed ecco cosa trovate nel nuovo numero di Fabrique: un focus sui fratelli D’Innocenzo, trionfatori alla Berlinale – Berlin International Film Festival con il loro Favolacce, Daphne Scoccia, scoperta per caso da Claudio Giovannesi e che, a soli venticinque anni, ha partecipato all’ultima Berlinale come protagonista dell’opera prima di Chiara Bellosi, Palazzo di giustizia.

Giovani, pieni di idee e di entusiasmo sono anche i nostri Futures Martina Scarpelli, Damiano Giacomelli e il duo composto da Andrea Brusa e Marco Scotuzzi, così come l’autore teatrale Fabio Condemi e il fumettista Toni Bruno. Dialogano con noi anche il direttore delle serie Netflix per l’Europa Felipe Tewes e la presidente di Italian Film Commissions Cristina Priarone.

Nell’anno del centenario della nascita, non potevamo tralasciare in questo nuovo numero un omaggio a Federico Fellini, il cineasta più rappresentativo del cinema italiano che rivive con forza nell’intervista rilasciata allo storico del cinema Aldo Tassone e che pubblichiamo in esclusiva.

Last but not least il team di giovani attori pronti a sbalordire pubblico e critica sul grande e piccolo schermo: Elisa Visari, Davide Calgaro, Roberto Luigi Mauri, Serena De Ferrari, Filippo Marsili, Gea Dall’Orto.

Ringraziamo i nostri partner:
Teatro BrancaccioIlaria Di Lauro make-up artistHarumi RomaD-Vision Movie PeopleZero21 Braziliansushibar

L'articolo Il nuovo numero di Fabrique finalmente online! Leggilo ora proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/tuttiacasaconfabrique/il-nuovo-numero-di-fabrique-online/feed/ 0
25 anni senza Fellini: Lo sceicco bianco, tra miti e illusioni https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/25-anni-senza-fellini-lo-sceicco-bianco-tra-miti-e-illusioni/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/25-anni-senza-fellini-lo-sceicco-bianco-tra-miti-e-illusioni/#respond Thu, 01 Nov 2018 09:22:01 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=11721 Federico Fellini è considerato uno dei maggiori registi della storia del cinema, nell’arco di quasi quarant’anni, da Lo sceicco bianco (1952) a La voce della luna (1990), ha vinto cinque premi Oscar e dato vita a personaggi memorabili. I suoi film più celebri La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8½ e Amarcord sono entrati nell’immaginario collettivo cambiando il concetto di cinema e influenzando intere generazioni […]

L'articolo 25 anni senza Fellini: Lo sceicco bianco, tra miti e illusioni proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Federico Fellini è considerato uno dei maggiori registi della storia del cinema, nell’arco di quasi quarant’anni, da Lo sceicco bianco (1952) a La voce della luna (1990), ha vinto cinque premi Oscar e dato vita a personaggi memorabili. I suoi film più celebri La stradaLe notti di CabiriaLa dolce vita e Amarcord sono entrati nell’immaginario collettivo cambiando il concetto di cinema e influenzando intere generazioni di registi (come racconta Spielberg).

Fellini a sedici anni è già innamorato del cinema, inizia da giovanissimo a disegnare fumetti satirici e a scrivere sui giornali, per poi cimentarsi nella sceneggiatura radiofonica e cinematografica. Roberto Rossellini lo chiama per collaborare a Roma città aperta e continua a lavorare come sceneggiatore con Lattuada, Germi e Comencini.

Il momento cruciale per Fellini è proprio il passaggio alla regia, quando non pensava di fare il regista ma credeva di bivaccare sornione nel limbo della sceneggiatura, irresponsabile e lontano dal lavoro collettivo. Il primo giorno di lavorazione de Lo sceicco bianco (1952) si rivela un fallimento: non riesca a girare neanche un’inquadratura. Parte da Roma all’alba con la sua Cinquecento, con il batticuore come poco prima di un esame, e si ferma a pregare in chiesa perché il portone che si apre gli sembra di buon auspicio.

lo sceicco bianco

Sulla strada buca una gomma e soffre al pensiero di essere in ritardo per la sua prima regia, per buon cuore un camionista siciliano gli cambia la ruota ma il coraggio è un servizio extra che non fornisce nessuno. La paura di Fellini è fortissima e mentre il motoscafo lo porta verso il barcone, dove già da un’ora è imbarcata tutta la troupe, non si ricorda neanche la trama del film; ma poi, posa il piede sul set ed è pronto all’avventura.

Lo sceicco bianco è un’opera creata da quelli che sarebbero stati i grandi nomi del cinema italiano: Michelangelo Antonioni è coautore del soggetto, Ennio Flaiano della sceneggiatura e il protagonista è un giovane Alberto Sordi. Il film ha uno stile umoristico e onirico che viene definito fantarealismo. La pellicola esordisce al Festival di Venezia, dove subisce lo snobismo di critica e pubblico, gli stessi che l’anno successivo lo premiano con il Leone d’Oro per I vitelloni.

Fellini nella sua opera prima smonta gli idoli, le illusioni e i fenomeni di costume della borghesia provinciale italiana del dopoguerra. La sua attenzione è però rivolta soprattutto ai sentimenti della protagonista e alla piccola tragedia personale che si compie nel cuore di Wanda, prima che nella vita dei coniugi Cavalli. Wanda (Brunella Bovo) ed Ivan (Leopoldo Trieste), sono in viaggio di nozze a Roma. Lei ne approfitta per recarsi alla redazione del suo fotoromanzo preferito per incontrare il protagonista: lo Sceicco bianco (Alberto Sordi).

lo sceicco bianco

Wanda capisce presto che il suo idolo è un uomo patetico e volgare e ne respinge le pesanti avances. Afflitta tenta di gettarsi nel Tevere ma viene salvata, mentre Ivan la cerca per tutta Roma e vive delle rocambolesche avventure che lo portano a dormire con una prostituta – senza però tradire la moglie. I due alla fine si ritrovano, un po’ disillusi e senza eroi.

In questa pellicola è palese la nostalgia felliniana per le icone popolari, che sempre l’hanno sedotto, La vita vera è quella dei sogni dice una signora alla spaesata Wanda e, man mano che la giovane vede il suo sogno svanire, le luci si fanno opache e Fellini ci mostra le bassezze di chi si preoccupa dell’onore, delle conoscenze in Vaticano e della retorica patriottica, prima che dei sentimenti.

Lo Sceicco Bianco è una commedia nel senso più stretto del termine, tratta il dramma umano, quello risibile, che racconta le illusioni e le spoglia e permette di grattare oltre la superfice della satira ecclesiastica, collegiale e goliardica. Perché alla fine il cinema, come la vita, a volte è un circo, un varietà di marcette e udienze pontificie e idoli vecchi e nuovi e siamo un po’ tutti borghesi e provinciali, mentre scordiamo l’autenticità per inseguire i miti.

L'articolo 25 anni senza Fellini: Lo sceicco bianco, tra miti e illusioni proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/25-anni-senza-fellini-lo-sceicco-bianco-tra-miti-e-illusioni/feed/ 0
Duel: il folgorante esordio di Spielberg (errori compresi) https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/duel-folgorante-esordio-spielberg-errori-compresi/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/duel-folgorante-esordio-spielberg-errori-compresi/#respond Sun, 25 Mar 2018 20:00:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=9980 Il 21 marzo si è svolta la 62esima edizione dei David di Donatello, Steven Spielberg è stato l’ospite più atteso: durante la serata, Monica Bellucci gli ha consegnato la statuetta alla carriera. Il suo discorso di ringraziamento è diventato subito virale, moltissime le belle parole spese nei riguardi del cinema italiano: dall’ammirazione per i maestri […]

L'articolo Duel: il folgorante esordio di Spielberg (errori compresi) proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Il 21 marzo si è svolta la 62esima edizione dei David di Donatello, Steven Spielberg è stato l’ospite più atteso: durante la serata, Monica Bellucci gli ha consegnato la statuetta alla carriera.

Il suo discorso di ringraziamento è diventato subito virale, moltissime le belle parole spese nei riguardi del cinema italiano: dall’ammirazione per i maestri come Pasolini, Fellini e Antonioni ai colleghi di origine italiana come Tarantino, Scorsese e Minelli che, in un’epoca fatta di accoglienza e meno barriere, hanno permesso al cinema italiano e a quello americano di fondersi.

Duel, il regista Spielberg ai David di Donatello

L’aneddoto più magico resta l’incontro con Fellini: nel 1971, a inizio carriera, il grande regista l’aveva cercato per complimentarsi per Duel, il suo esordio, proiettato la sera prima alla presentazione romana del film. Fellini e il regista americano, ancora sconosciuto, passeggiarono per Roma e Spielberg vide la città attraverso gli occhi del suo mito. Soprattutto, non dimenticò mai il suo consiglio: è importante intrattenere il pubblico, ma è ancora più importante intrattenere sé stessi. Per conquistare il pubblico bisogna essere il pubblico, consiglio seguito alla lettera e mai dimenticato. Da 45 anni, una fotografia di quel giorno a Roma è appesa alla parete del suo ufficio.

Spielberg comincia a fare cinema da giovanissimo, con la cinepresa regalatagli dal padre. Il suo primo cortometraggio, Amblin (1969), attirò l’attenzione della Universal che gli offrì un contratto per la tv. Ventunenne in un settore dominato da autori e registi ultracinquantenni, Spielberg diresse alcuni episodi di vari telefilm. Alla fine degli anni ’60 la Universal cercava però di produrre lungometraggi per la televisione associandosi all’emittente ABC, con l’obiettivo di abbattere i costi ma soddisfare comunque il grande pubblico ancora innamorato del cinema.

In queste circostanze, gli viene commissionato il suo primo film per la televisione, da girare in dieci giorni con un budget di 450.000 dollari. La segretaria di Spielberg, Nona Tyson, esorta il regista appena ventiquattrenne ad adattare un racconto del grande scrittore Richard Matheson, pubblicato su Playboy e basato su un episodio autobiografico. Il film ha una lavorazione rapidissima: girato in appena tredici giorni, con la colonna sonora composta in una settimana e ben cinque editor al montaggio, per rispettare i tempi strettissimi.

Duel è la storia surreale e adrenalinica di un uomo che si trova coinvolto in un duello nel deserto. Come in un tipico road-movie, ci sono le classiche immagini del paesaggio desertico degli Stati Uniti: le strade sbiadite, i bar, i dirupi, le stazioni di benzina e le cabine telefoniche dall’aria malconcia. Ad attraversare il deserto è David Mann (Dennis Weaver), un uomo comune perfettamente calato nello stile di vita dei sobborghi californiani: vive con la moglie casalinga e i due figli, mangia nei fast-food, non ha uno scopo e il suo ruolo di padre e marito è in crisi. David, con un’auto rossa qualunque, si allontana sempre di più dal mondo civilizzato e va incontro a un pericolo inaspettato.

Duel

L’antagonista è l’autocisterna: mossa da un’inspiegabile volontà di distruzione, tenta di mandare David fuori strada. Il film non mostra mai il conducente, ma solo il Peterbilt 281 del 1955. Spielberg lo scelse fra tanti perché frontalmente dava l’idea di un volto, e il motore rombava tanto da sembrare un ruggito. In questo scontro, David incarna l’uomo medio che si ritrova in una situazione incredibile e non è preparato ad affrontarla: un meccanismo narrativo che diventerà un vero e proprio leitmotiv nel cinema spielberghiano.

Duel non è un film perfetto, è quasi del tutto privo di dialoghi e presenta tanti piccoli errori, anche perché il giovane Spielberg non riguardava mai i giornalieri. Ad esempio, in una scena, è possibile intravederlo riflesso sul vetro della cabina telefonica mentre legge il copione.

Nonostante il ritmo frenetico, la giovane età del regista e qualche imprecisione, il film ebbe un enorme successo e una distribuzione internazionale. Spielberg, anni dopo, ammise: «Se non avessi avuto la possibilità di girare Duel, la mia carriera sarebbe stata molto diversa» e, forse, non avrebbe mai passeggiato per Roma con Fellini.

Con questo articolo Fabrique inizia una serie di approfondimenti sugli esordi di autori divenuti maestri del cinema italiano e mondiale. L’appuntamento è ogni venerdì su sito e social. Non perdetevi la prossima uscita!

L'articolo Duel: il folgorante esordio di Spielberg (errori compresi) proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/opera-prima/duel-folgorante-esordio-spielberg-errori-compresi/feed/ 0
Lina Wertmuller: “Meglio non crederci troppo” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/lina-wertmuller-meglio-non-crederci-troppo/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/lina-wertmuller-meglio-non-crederci-troppo/#respond Wed, 27 Jan 2016 09:40:49 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=2574 Incontrare Lina Wertmuller non è certo una questione da poco. In primo luogo per la sua attività artistica dallo stile fortemente personale, come gli ormai celebri occhiali bianchi, e, poi, per quel carattere volitivo che, fuori e dentro il set, ha contribuito a costruire il mito di “un osso duro” da affrontare. Il fatto è […]

L'articolo Lina Wertmuller: “Meglio non crederci troppo” proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
Incontrare Lina Wertmuller non è certo una questione da poco. In primo luogo per la sua attività artistica dallo stile fortemente personale, come gli ormai celebri occhiali bianchi, e, poi, per quel carattere volitivo che, fuori e dentro il set, ha contribuito a costruire il mito di “un osso duro” da affrontare.

Il fatto è che Lina (87 anni vissuti tutti con passione), restia a raccontarsi e a celebrarsi, prova molto più interesse per le vicende altrui che per le proprie. Per questo motivo, dopo avermi accolto nella sua casa a pochi passi da Piazza del Popolo tra meravigliose lampade tiffany e sotto lo sguardo vigile del gatto Nerone, sembra preferire i miei racconti ai suoi ricordi. Eppure, nonostante tanta riservatezza, qualcuno è riuscito a guadagnare la sua fiducia, tanto da convincerla a consegnargli i momenti e le sensazioni più importanti di un’intera vita, professionale e non. Si tratta di Valerio Ruiz, giovane aiuto regista della Wertmuller, che ha firmato il documentario Dietro gli occhiali bianchi. Presentato all’ultimo festival di Venezia, questo docufilm rappresenta un viaggio nei luoghi che hanno caratterizzato la carriera della prima regista a ottenere una nomination agli Oscar per Pasqualino Settebellezze.

Così, dai primi passi cinematografici accanto a Fellini, che le insegnò il valore della leggerezza e del divertimento, passando poi per l’indimenticabile coppia Giannini/Melato, con la quale è stata “travolta da un’insolito destino”, Valerio ha cercato di tratteggiare il carattere e gli elementi fondamentali di un’icona dallo stile dissacrante.

Tuttavia, da parte sua Lina Wertmuller non si riconosce come maestra di cinema. Anzi, con uno sguardo tra lo scettico e il divertito, risponde: «Il segreto è sempre stato non crederci troppo».

Flora Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, e Federico Fellini sembrano essere stati due presenze fondamentali nella sua vita, soprattutto per quanto riguarda i primi passi nel cinema. In che modo hanno contribuito alla sua formazione?

Flora è stata l’amica per eccellenza. Ci siamo conosciute sui banchi di scuola e a lei devo il mio avvicinamento al teatro e al cinema. Inoltre, insieme a Mastroianni, mi ha introdotto a Cinecittà facendomi conoscere Fellini, tanto che ho lavorato come suo aiuto regista in 8 e 1/2. Cosa dire di Federico, poi. Lui era la vita. Una meraviglia assoluta. Grazie a lui ho appreso un segreto fondamentale, ossia l’importanza di divertirmi sempre e comunque facendo cinema. Molte sono le storie legate a lui e che possono raccontare il suo modo completamente libero di lavorare, oltre che l’uomo. Una di queste riguarda l’affetto nato tra lui e una bambina su un set mentre stavamo lavorando in Piemonte, se non sbaglio. Federico stava girando Boccaccio ’70 e con lei nacque un legame fortissimo, che io e la madre guardavamo da lontano con grande stupore.

Ha mosso i suoi primi passi professionali in televisione con Gian Burrasca, poi ha frequentato il teatro leggero di Garinei e Giovannini, quello più impegnato di Giorgio De Lullo e, infine, è approdata al grande schermo. Tutte queste esperienze, questi diversi linguaggi, come hanno influenzato il suo modo di fare cinema?

Onestamente non lo so. Non ho mai fatto alcuna differenza. Per me l’intrattenimento e l’arte hanno un valore universale e non importa in che luogo si esprimono. La mia generazione ha avuto, però, un grande vantaggio, ossia quello di poter fare riferimento a dei grandi maestri, dei capifila da seguire e da cui imparare. C’erano Fellini, Monicelli, Visconti, che seguivamo con attenzione e passione. Oggi, invece, chi sono i punti di riferimento? Ce ne sono ancora? Questo, secondo me, è il grande problema delle nuove generazioni di registi. Oltre a dei produttori che non sembrano avere il coraggio di rischiare.

Lina Wertmuller
Lina Wertmuller durante la nostra intervista (ph. Francesca Fago).

Lei è riuscita in un’impresa molto difficile. Pur non girando film di cassetta, le sue storie sono entrate nell’immaginario popolare. In sintesi ha fuso un cuore narrativo intelligente e colto con una forma diretta e facilmente riconoscibile dallo spettatore. Una strada che il cinema italiano attuale sembra non aver seguito.

E ha fatto male. In questo momento nel panorama del nostro cinema mi sembra di vedere un deserto. Apprezzo il lavoro di Matteo Garrone, mentre non amo particolarmente Paolo Sorrentino. Non ho visto La grande bellezza, ma credo che Roma, in particolare, non sia una materia adatta a lui e al suo cinema.

In anni in cui la commedia all’italiana aveva grande forza, lei si è ritagliata uno spazio del tutto personale utilizzando l’arma del grottesco. In che modo questa scelta ha definito il suo cinema? È un po’ come se avesse inventato un nuovo genere, la commedia grottesca alla Wertmuller.

Non so. In verità non mi sono mai soffermata a pensare quale fosse lo stile e la forma narrativa da impiegare. Più di una volta il mio cinema è stato definito grottesco, anche se non comprendo bene gli elementi che hanno portato a questo giudizio. Semplicemente ho fatto delle scelte. Ho scelto le storie e i personaggi che mi piacevano e mi divertivano. Lo stesso vale per lo stile, se così possiamo dire. Però non ho mai applicato delle definizioni al mio lavoro.

Il suo amore per il Sud è sempre presente. Lo troviamo nei luoghi, sicuramente nei personaggi e nel linguaggio. Per quanto riguarda il dialetto, poi, come ha lavorato per renderlo un elemento credibile e fondamentale del suo cinema? 

Senza dubbio il Sud Italia è nel mio cuore. Al Nord credo di aver lavorato veramente poco. Ho girato una parte di Mimì Metallurgico, poi Tutto a posto e niente in ordine e Metalmeccanico e parrucchiera. Il bello dell’Italia è che ci sono molte culture e il loro incontro crea sempre magia. Il dialetto, poi, è fondamentale. Quando collaboravo con il Centro Sperimentale imponevo ai ragazzi di studiarne due, uno del Nord e uno del Sud. E lo fanno ancora oggi. Vedete, non è che gli italiani parlino l’italiano. Prima viene il proprio dialetto. Per questo motivo ho sempre avuto particolare attenzione per questo linguaggio e l’ho costruito per i miei personaggi con amore. Giannini, poi, è stato un interprete meraviglioso di questa lingua.

 Il suo cinema, pur avendo questo cuore così regionale, è stato molto amato dal pubblico e dalla critica americani. Com’è il suo rapporto con i critici?

A me della critica non è mai importato nulla. Ho fatto i film che volevo. Questo è stato importante. Poi, il caso ha voluto che io sia stata molto amata da John Simon, all’epoca spietato critico cinematografico del New York Magazine. Era lo spauracchio di tutti i registi e le attrici. Le cronache delle serate mondane raccontavano dei piatti e bicchieri gettati in faccia a Simon dalle star che aveva criticato. Per questo motivo il suo amore assoluto per Pasqualino Settebellezze è risultato strano perfino al suo editore, tanto da pagargli la trasferta in Italia per venire a intervistarmi. Ricordo che suonò alla mia porta un pomeriggio ma io non lo volli incontrare. Ha provato altre volte, fino a quando è diventato molto amico di mio marito, Enrico Job.

Dopo che Pasqualino Settebellezze ricevette quattro nomination agli Oscar, i produttori americani le fecero una corte spietata. In momenti come quelli, come si resiste alle lusinghe del successo?

Quel periodo è stato intenso. Ero stata nominata come miglior regista dall’Academy e i cinema a Times Square proiettavano i miei film. L’America mi ha amato e io l’ho riamata con entusiasmo. Per quanto riguarda la pressione del successo, poi, è molto facile; basta non ascoltare. Anzi, meglio sarebbe non crederci troppo.

L'articolo Lina Wertmuller: “Meglio non crederci troppo” proviene da Fabrique Du Cinéma.

]]>
https://www.fabriqueducinema.it/magazine/icone/lina-wertmuller-meglio-non-crederci-troppo/feed/ 0