Fabio Massimo Capogrosso Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 07 Nov 2024 16:54:55 +0000 it-IT hourly 1 Colonne sonore: i nuovi compositori tra film e serie https://www.fabriqueducinema.it/focus/colonne-sonore-i-nuovi-compositori-tra-film-e-serie/ https://www.fabriqueducinema.it/focus/colonne-sonore-i-nuovi-compositori-tra-film-e-serie/#respond Wed, 23 Oct 2024 13:55:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=19407 In Italia la musica per il cinema è sempre stata uno spazio di sperimentazione e ha dato vita a colonne sonore entrate nella storia (di Nino Rota, Ennio Morricone, Piero Piccioni e via citando).  Ma com’è cambiato il panorama oggi?  Mario Nascimbene e il neorealismo, Nino Rota e Federico Fellini, Piero Piccioni con il jazz […]

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In Italia la musica per il cinema è sempre stata uno spazio di sperimentazione e ha dato vita a colonne sonore entrate nella storia (di Nino Rota, Ennio Morricone, Piero Piccioni e via citando).  Ma com’è cambiato il panorama oggi? 

Mario Nascimbene e il neorealismo, Nino Rota e Federico Fellini, Piero Piccioni con il jazz nella commedia all’italiana, Piero Umiliani e Riz Ortolani, il Re Mida Ennio Morricone, tutti questi compositori lavorarono su una vasta gamma di generi – dai drammi in bianco e nero degli anni Sessanta ai poliziotteschi e al crime splatter di Dario Argento – creando uno stile unico che avrebbe accompagnato il nostro cinema fino alle fine agli anni Settanta. Le loro colonne sonore abbracciavano dal jazz e dalla bossa nova al funk e alla bizzarra musica lounge, all’esotica selvaggia e alla musica elettronica psichedelica, definendo l’epopea della colonna sonora all’italiana e portandola a influenzare non solo il linguaggio internazionale ma tutta la musica popolare nostrana.

Ma oggi si può dire che esista la stessa varietà e ricchezza dell’epoca d’oro? Se più che a mancare una nuova scuola di compositori, è soprattutto totalmente assente un sistema che valorizzi e tuteli coloro che hanno reso il cinema italiano famoso in tutto il mondo? Benché negli ultimi anni ci siano stati alcuni episodi sporadici, come la vittoria agli Oscar di Nicola Piovani per La vita è bella e di Ennio Morricone per The Hateful Height, ancora figli dell’epoca in cui i musicisti venivano valorizzati, oggi sembra mancare totalmente una visione sulla musica per immagini.

Non a caso ad aprile di quest’anno aveva fatto rumore la rinuncia alla candidatura ai David di Donatello del compositore Franco Piersanti (non proprio un esordiente) per Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. Piersanti accusava l’Accademia dei David di non saper comprendere il ruolo e il valore del compositore, poiché faceva concorrere nella stessa categoria film con musica originale e film che ne erano quasi sprovvisti: «se il premio va a chi scrive musica originale, non può essere equiparato a chi fa cose completamente diverse». Ma la querelle è stata oscurata, lasciando intatta non solo la candidatura di Piersanti, ma anche un successivo comunicato dell’ACMF (Associazione Compositori Musica da Film). L’esposto, apparso sulle pagine di The Hollywood Reporter Roma, denunciava come da anni la stessa associazione cercava inutilmente un confronto con l’Accademia, non solo rispetto al ruolo del compositore, come già sottolineava Piersanti, ma soprattutto per entrare di diritto nel direttivo dell’Accademia come figura autoriale (stando alla legge 633 del 22 aprile 1941, tuttora in vigore).

Perché da un’occasione così importante, su cui si potevano costruire le basi per un confronto costruttivo, si è cercato unicamente di evitare lo scandalo? I motivi sono molteplici e non si possono imputare unicamente all’industria stessa. Si va da un’eccessiva esterofilia, che alcune volte spinge un regista esordiente ad affidarsi a compositori internazionali per dare più appeal al suo progetto, alla mancanza di una formazione adeguata a comprendere la centralità del comparto sonoro nel cinema contemporaneo, che ha portato nel tempo a non considerare più la musica come un aspetto centrale del prodotto audiovisivo, causando molteplici scompensi non solo alla categoria ma soprattutto alla qualità dei film.

Secondo Massimiliano Mechelli, compositore di A Classic Horror Story e La legge di Lidya Poet: «purtroppo vedere che negli ultimi cinque anni solo un compositore per film con il nome prestigioso di Piovani ha vinto il David per miglior colonna sonora,  porta a domandarsi se l’industria cinematografica crede ancora nel mestiere e nella professione di compositore per film. Sempre più spesso vediamo che le produzioni chiamano artisti del mondo della musica estranei a questo campo specifico per firmare le colonne sonore dei loro film, spesso puntando sulla loro visibilità. Con questo non sto dicendo che sia sbagliato a prescindere, ma non può essere una costante. Altre volte invece viene preso il repertorio di un artista musicale per poi farlo montare su scena, altre ancora nei film d’autore diretti da giovani registi vengono chiamati artisti indipendenti sempre estranei al campo. Questo fa dubitare se lavorare con un professionista del mestiere sia ancora una priorità. Per fortuna ci sono produzioni che stanno investendo nei giovani compositori anche qui in Italia come Groenlandia, qualcosa si sta muovendo, ma molti registi famosi ancora non hanno voglia di cercare nuovi volti nel campo delle colonne sonore e lavorare con loro per generare qualcosa di innovativo. Dovrebbero esserci sicuramente più fondi stanziati per l’assunzione di compositori under 35 e le produzioni dovrebbero essere facilitate nel coinvolgere giovani figure. Il rinnovamento a mio avviso premierebbe tutti indistintamente».

Se la serialità, così come l’avvento delle piattaforme, ha sicuramente portato una ventata di aria fresca sia per la musica composta che per quella edita, coinvolgendo moltissimi compositori ai tempi esordienti, come ad esempio i Mokadelic che a partire da ACAB di Stefano Sollima e successivamente con Gomorra hanno creato un vero e proprio standard compositivo, si può dire che il cinema fatica ancora a trovare una propria strada rispetto a una categoria che ha scritto la sua stessa storia.

Infatti, come sottolinea Lorenzo Tomio, compositore di Dampyr, Tutto chiede salvezza, I delitti del BarLume e Il giovane Berlusconi: «in questi anni il settore cinematografico, e nel dettaglio quello della musica per l’immagine, ha beneficiato di una vastissima richiesta di produzione e di professionisti, grazie alla crescita delle piattaforme. Al contempo via via si è affievolito il rispetto e l’autorevolezza per le professionalità artistiche di alto profilo, ai fini del confezionamento dell’ennesimo prodotto nel minor tempo possibile e al minor costo. Credo che i problemi che stiamo vivendo siano dovuti alla mancanza di una vera e propria cultura di registi e produttori rispetto al ruolo della musica anche all’interno della filiera produttiva. Il compositore deve essere inteso come un collaboratore che può dare voce a differenti livelli di lettura del racconto, che può scrivere un contrappunto alle scene e arricchirle di ulteriori significati. Invece spesso viene inteso come qualcosa da aggiungere alla fine, il bollo decorativo che chiude il pacco e, considerando l’importanza che ha sempre avuto la musica nella storia in Italia, non ha davvero senso.

Il giovane Berlusconi
“Il giovane Berlusconi”, colonna sonora di Lorenzo Tomio.

Perché maestri come Marco Bellocchio scelgono di affidarsi a compositori esordienti al linguaggio cinematografico come Fabio Massimo Capogrosso, che ha avuto la capacità di rappresentare perfettamente in musica il racconto episodico e le differenti anime in scena di Esterno Notte così come di Rapito, puntando anche sugli aspetti più sperimentali, e i giovani registi sembrano essere quasi spaventati dalla musica quasi come fosse un impedimento alla strutturazione del proprio racconto? Sembra mancare la consapevolezza che la musica può diventare veramente un acceleratore di emozioni facendo sì che quel dato film possa realmente entrare nell’immaginario collettivo per sempre. Pensiamo ad esempio alle note agrodolci e scanzonate del tema principale di Amarcord, o al flauto di Pan di C’era una volta in America: sono temi che hanno reso quei film unici per sempre, portando lo spettatore a immedesimarsi perfettamente nella storia unicamente attraverso l’ascolto della musica.

Vero è che nelle accademie cinematografie c’è sempre di più una maggiore sensibilità e attenzione al ruolo del compositore: è il caso del Laboratorio di musica per film del Centro Sperimentale di Cinema o il progetto del regista Gianfranco Cabiddu che, all’interno dell’isola felice di Carloforte in Sardegna, ha creato la summer school CAMPUS – musica e suono per il cinema e per l’audiovisivo (grazie al quale 30 allievi del CSC insieme ad altri 12 allievi musicisti provenienti da diverse realtà formative arrivano a Carloforte per un’esperienza di condivisione e apprendimento). Ma mancano  effettivamente dei corsi formativi pluriennali che mettano costantemente a confronto le tante figure del comparto sonoro, dal sound designer al music editor, con tutta la filiera produttiva.

Infatti come aggiunge anche la compositrice Ginevra Nervi (Il cacciatore, SKAM Italia, Prisma, Come pecore in mezzo ai lupi): «l’industria cinematografica è cambiata profondamente negli ultimi anni, di conseguenza lo ha fatto il mercato, e così le figure professionali che operano in questo settore. Credo che più o meno tutte le categorie (sceneggiatori, registi, compositori, montatori, tecnici del suono, scenografi, costumisti) stiano vivendo un periodo di difficoltà e di forte cambiamento rispetto al modo in cui venivano considerate all’interno del sistema produttivo in passato. Le nuove generazioni hanno però la possibilità di guardarsi attorno e capire quale posizione prendere per salvaguardare quello che domani chiameremo ancora cinema».

L’ultimo anno cinematografico è stato ricco di opere prime che, sia per la loro qualità che grazie al passaparola, sono riuscite ad attirare l’attenzione del pubblico. Sicuramente uno degli esempi più interessanti è stato l’esordio di Margherita Vicario con Gloria!, che ha costruito il proprio racconto basandosi su una storia “nascosta” che si fonda e cresce totalmente sulla musica. Insomma le risorse ci sono, e sono anche abbondanti, ma dobbiamo cominciare ad avere il coraggio di guardare oltre la siepe.

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Marco Bellocchio è prossimo agli 83 anni ma la sua linfa cinematografica è a un punto inarrivabile, per ispirazione, per ambizioni tematiche e visive, per profondità di indagine sul cinema, sulla Storia, perfino su se stesso: Esterno notte, l’opera monumentale che è stata presentata a Cannes e uscirà nelle sale italiane divisa in due tranche, da tre episodi ciascuna, è un richiamo al Buongiorno, notte del 2003 ma ne rappresenta il controcanto.

Un controcanto sinfonico nella misura in cui quello era una lettura cameristica di una pagina oscura della storia italiana: l’autore getta contro la sua creatura (peraltro, una creatura meravigliosa, considerabile un classico della modernità) un guanto di sfida, un processo condotto con il codice del cinema, cambia l’angolazione da cui osserva l’affaire Moro e lo espande in un affresco corale con tanti protagonisti, ognuno con una statura epica, avvolgendo il tutto nei toni foschi della fotografia di Francesco Di Giacomo e nella partitura drammatica, bellissima, di Fabio Massimo Capogrosso.

La prima grande virtù dell’opera di Bellocchio è già nella scrittura, e un plauso va tributato a Ludovica Rampoldi, Davide Serino, Stefano Bises e il regista stesso: la più coraggiosa e anche più vincente delle idee è stata quella di raccontare la prigionia di Moro attraverso le reazioni dei politici, dei suoi cari, dei brigatisti stessi. Un “colore”, come insegnano nelle scuole di sceneggiatura: un evento che non è in primo piano, ma influenza tutto quello che vediamo sullo schermo.

Mantenendo la struttura corale del racconto, ci sono comunque personaggi che si elevano a protagonisti di puntata (espressione televisiva, non proprio piacevole da usare per un’opera come questa): è il caso di Toni Servillo nel secondo episodio, straordinario per l’intensità sofferta che ha conferito a papa Paolo VI, dapprima apparentemente padrone della situazione quando illustra alla signora Moro “lo sterco del diavolo” e i suoi impieghi, ma poi in preda a una dolente crisi quando arriva il fatidico momento della scrittura della lettera ai brigatisti.

Ma su tutti, probabilmente, svetta il Cossiga di Fausto Russo Alesi, che già era stato Giovanni Falcone ne Il traditore: è stata decisiva la scelta in sceneggiatura di dare la giusta centralità al ministro degli interni, di fatto il primo a dover correre ai ripari quando la situazione precipita, quando c’è uno stato di allerta da gestire e gli equilibri non si decidono più nelle stanze del palazzo fra un compromesso e l’altro. Cossiga era molto affezionato a Moro, il loro rapporto è molto ben raccontato, e l’impossibilità di trovare una soluzione per l’amico rapito (nonostante l’imponente e avveniristico impiego di risorse investigative), la successiva crisi e il definitivo senso di colpa rendono il personaggio drammaturgicamente fondamentale.

Non si può non ammirare, infine, il Moro di Fabrizio Gifuni: il grande, grandissimo attore riesce a fugare fin dalla prima scena, fin dal discorso all’assemblea, il sospetto della semplice imitazione e grazie a un sapiente uso del corpo, delle mani soprattutto, il suo Moro è più vero del vero: la scena del ritorno a casa e della umile cena a base di uova è una vetta poetica, da parte sua e da parte di Bellocchio.

Esterno notteè più vicino a Todo modo e Cadaveri eccellenti che non ad altri film orientati verso la cronaca e la ricostruzione d’epoca: nella modellazione plastica degli uomini di potere, le cui fisionomie e fisicità sono esaltate, sottolineate, scolpite quasi a fare di loro delle maschere piuttosto che fac-simile storici fedelmente ricostruiti col trucco e il parrucco, Bellocchio raggiunge il difficile e sempre insidioso traguardo del grottesco. Ma sarebbe riduttivo limitare a questo aspetto la riuscita dell’opera di Bellocchio: come ha bene scritto su Quinlan Alessandro Aniballi, “Bellocchio si sta imponendo di fare grandi film, grandi affreschi storici. E meno male, viene da concludere. Perché, oltre a Martone, non c’è nessun altro nel cinema italiano contemporaneo che sia in grado di farlo, nessun altro che abbia la volontà, la voglia e la capacità di scavare a fondo nei nostri misteri e nelle nostre ambiguità, in quei fatti e in quegli snodi che in fin dei conti formano la nostra identità”.

 

 

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