Ex-Otago Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Mon, 21 Jun 2021 17:17:42 +0000 it-IT hourly 1 Ex-Otago, musica e pura vida https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/ex-otago-musica-e-pura-vida/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/ex-otago-musica-e-pura-vida/#respond Tue, 23 Apr 2019 10:32:28 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=12931 Siamo a metà concerto forse un po’ oltre, sul palco semi buio gli strumenti continuano a suonare prima che le luci si offuschino ulteriormente. La voce di Mauri, il cantante degli Ex-Otago, compare d’un tratto dalla diffusione, ma proviene da qualche altra parte, lontana dal palco. Il bancone del bar è quasi vuoto, una ragazza […]

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Siamo a metà concerto forse un po’ oltre, sul palco semi buio gli strumenti continuano a suonare prima che le luci si offuschino ulteriormente. La voce di Mauri, il cantante degli Ex-Otago, compare d’un tratto dalla diffusione, ma proviene da qualche altra parte, lontana dal palco. Il bancone del bar è quasi vuoto, una ragazza confusa aspetta la sua birra mentre un energumeno della sicurezza le si posiziona dietro. Mauri con un balzo si siede proprio sul bancone, con le gambe penzolanti, guardando la folla dalla sinistra, in fondo al locale; al suo fianco compare Simmi, il chitarrista a fargli da spalla. “Molto più fico stare qui che là sopra” dice indicando il palco, mentre cerca di attirare l’attenzione di tutti, note leggere suonano sotto la sua voce che scandisce l’intro di una delle canzoni più sentite, leggera nella sua semplicità, profonda nei suoi significati. Le parole di Costa Rica riecheggiano tra gli smartphone e gli occhi chiusi nell’atto di canticchiare, una canzone che parla di Italia, sì ma vista da lontano, dai tropici di un paese dal fascino intramontabile, raccontata dalle parole di un genovese.

Forse per noi romani è un po’ più difficile capirlo, quel rapporto con il mare sempre presente nei testi della band, quella sensazione costante di sabbia e neve, terra e cielo, figli di una città antica che combatte con la modernità, incastonata a metà tra il porto e tutte quelle montagne, che gli stanno così bene. Le note di Costa Rica vibrano ad altezza uomo, nel calore familiare di un concerto appagante, nei sogni marini di un gruppo che vive senza impegno questa coinvolgente esperienza musicale, un’avventura di lungo corso, nata agli albori del nuovo millennio, ma che trova la sua consacrazione solo negli ultimi anni, con l’album Marassi prima e con il recentissimo Corochinato poi. Un gruppo di genovesi legati alla loro città ed alle loro vite compassate che non barattano tanto facilmente con la celebrità, come la cascina in Val Borbera dove il cantante vive insieme alla fidanzata e dove sono nati gli album della loro vita, tra la produzione di vino locale e la riscoperta della terra.

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Una semplicità ed una leggerezza esistenziale che si rispecchia nei loro testi, nelle corde emozionali che vanno a raggiungere, a stuzzicare, nei loro excursus alcolici, romantici, bambineschi. Ragazzi che viaggiano verso i quaranta, a caccia di una maturità tardiva, ritardataria, ma serena, pacata, da affrontare senza i traumi di questa società accelerata e forse scellerata. Come la domanda di tutta una vita, Cosa fai questa notte?, che inaugura come traccia d’apertura la serata, perché è tutto lì, nei pochi attimi prima del buio, quando c’è una luce che fa bene al panorama, nella scelta di trascorrere l’acquietarsi del giorno con qualcuno, poi di tutto il resto chi se ne fotte, a sostenersi dentro una supplica d’amore scandita da quel resta con me, anche se è una vita che usciamo insieme.

Gli Ex-Otago sono così, romantici sempre, ma mai banali, sono pop certamente ma con un’identità invidiabile, quel tipo di identità che da sempre ha affascinato i poeti, gli scrittori, i canzonieri di ogni epoca, quell’identità che abbiamo sognato nei marinai, nei pirati, negli aviatori, negli scalatori, nei viaggiatori che si portano dietro un legame con le proprie origini, dalle quali non si scappa, dei Conti di Montecristo senza necessità di vendetta, degli Ulisse sempre in procinto di tornare a casa, nella loro terra, perché alla fine della corsa non c’è solo Penelope, ma Itaca.

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I ragazzi che compongono il pubblico dell’Atlantico di Roma, in questa fredda serata primaverile, sono più giovani degli Ex-Otago, li hanno scoperti solo ora, lo confessano quando dal palco chiedono per quanti sia la prima volta, sono tante le mani che si alzano, sorprendendo anche i componenti della band, sono tante mani giovani che li scoprono live, mani che forse guardano con un po’ di invida a quei ragazzi cresciuti, che cantano con orgoglio che in discoteca non ci vanno più, di chi ha ormai le spalle abbastanza larghe e l’età giusta per preferire una nottata in camera invece delle strobo, la techno e la vodka, di chi vive la sua età e i suoi amori con consapevolezza e senza rimorsi, guardando al passato con un sorriso senza perdere quel ritmo, quel beat vitale che continua a sostenerli, che continua a dare il passo ad ognuno di quei ragazzi di quartiere che oggi ballano sui palchi di tutta Italia.

E ballano anche tra gli applausi di Roma, offrendo un concerto snello, fresco, che scivola via con delicato entusiasmo e smussata irriverenza, e tra le belle versioni de Gli occhi della luna, Stai tranquillo e la splendida Quando sono con te, gli Ex-Otago trovano anche il tempo di omaggiare il più grande genovese del Novecento, cantando Amore che vieni, amore che vai, uno degli innumerevoli capolavori di De Andrè, riarrangiata secondo le sonorità proprie della band, così devota alla città ed alla musica tricolore. Lo spettacolo giunge alla fine con un preventivatile bis ad alto grado di coinvolgimento, con Solo una canzone, Ci vuole molto coraggio e Cinghiali incazzati la band ringrazia e si congeda, chiudendo una serata come una foto ricordo che non si è vissuta, una storia allegra con un finale aperto, un pinocchio appeso in una Fiat Punto, un bosco ligure in pieno centro Italia.

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Il concertone è finito, andate in pace https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/concertone-finito-andate-pace/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/musica/concertone-finito-andate-pace/#respond Thu, 04 May 2017 08:19:14 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8175 Via Emanuele Filiberto chiusa al traffico è una romantica sinfonia da città dopo un bombardamento, con i semafori che cambiano colore nel vuoto di macchine e routine. Due camionette blindate annunciano blocchi di controlli e metal detector, sempre meno serrati degli stadi di Serie A. Il concerto è vicino. Un altro primo maggio a San […]

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Via Emanuele Filiberto chiusa al traffico è una romantica sinfonia da città dopo un bombardamento, con i semafori che cambiano colore nel vuoto di macchine e routine.

Due camionette blindate annunciano blocchi di controlli e metal detector, sempre meno serrati degli stadi di Serie A. Il concerto è vicino. Un altro primo maggio a San Giovanni incombe, sul palco ci aspetta tanta Italia e una scaletta non troppo ambiziosa, rispetto ai ricordi di fasti andati.

Il meltin’ pot di genti e sorrisi si ritrova sulle strade, tra i palazzi che rimbalzano i suoni del concerto ancora lontano, tutti si riscoprono più uniti con la cosa più multiculturale che c’è, che anticipa persino la musica, c’è un pallone che schizza in aria inseguito da mani e piedi multietnici, nel loro splendido linguaggio universale; tirare calci.

Ex-Otago

Entriamo nella piazza che va colmandosi e sul palco troviamo gli Ex-Otago che ci accolgono a Marassi, subito dopo che qualcuno ha dimostrato quanto sia facile ridicolizzarsi davanti a migliaia di persone, ricordandoci, con la più spietata banalità, che ogni emozione si ascolta col cuore e non con le orecchie. C’è bisogno di una birra.

La Press Area ci accoglie mentre Motta batte il suo tamburo, il vento impazza e la folla si anima dei primi entusiasmi sinceri. Ci muoviamo nell’area riservata cercando qualcosa da raccontare, troviamo solo una riunione di vecchi amici e giornalisti annoiati. Tutti con in mano un piattino di affettati, fave, pasta fredda e un bicchiere del vino in cartone più democratico che ci sia.

Gli Ex-Otago sono ora appollaiati su pochi sgabelli, in posa davanti al backdrop, e sono gli unici che rispondono alle domande di tutti. Massimo Marino si aggira spettrale intervistando persone che non sapremo mai chi siano. Tanti scrivono convulsamente sui loro laptop, seduti al coperto sotto i gazebo preposti, vivendo l’esperienza del concertone attraverso i televisori appesi qua e là.

Le persone che dovranno raccontare l’evento lo seguono filtrato dalla tv e ne sentono l’eco scomposto dell’enorme retropalco, tutto agghindato a lutto.

Le Luci della Centrale Elettrica si prendono la scena ma Vasco Brondi non è nella sua migliore giornata, un giornalista un po’ ubriaco in fila per il bagno, oltre a mostrarci la sua indifferenza all’ennesimo primo maggio, ci spiega che è lo stesso problema di sempre, gli strumenti regolati in cinque minuti, il sound check inesistente e il ritorno in cuffia che ovatta tutto. Di certo non ci siamo innamorati de Le Luci per la voce da usignolo di Brondi. La pazienza che gli concediamo viene ripagata quando lo sentiamo cantare «sono sacri gli interessi dell’Eni» proprio sotto al simbolo giallo, al cane a sei zampe che campeggia tra i main sponsor dell’evento.

Le luci della centrale elettrica

I tempi televisivi impongono un lungo stop e la noia lambisce tutti gli angoli del quartiere. Quando Levante riattacca sul palco siamo già usciti dal limbo del backstage, la notte incombe e la folla si agita danzando. La piazza col buio sembra più piena e la cantante siciliana illumina la serata, scaldando la scena prima che si manifesti il pezzo forte di giornata.

Sono gli Editors, che dall’Inghilterra portano pioggia fitta e musica che ti sorride. Non si scompongono neanche di fronte alla distesa di ombrelli che si dipana davanti a loro, alle persone che vanno a nascondersi sotto gli alberi, ai capannelli che occupano la piazza fino alle insegne luminose dei paninari in fila.

Il concerto torna indie quando sul palco si affacciano quei bei ragazzi de Lo Stato Sociale, con gli abiti privi di una manica e una gamba, salutano le mani che si levano nel pubblico e chiamano in causa il Ministro Poletti e le sue infelici uscite sul calcetto, tornando quindi al sempreverde linguaggio universale del calcio.

Lo Stato Sociale

I ragazzi ci suggeriscono di mettere dei curriculum nei nostri palloni, lanciandoli sulla folla e partendo con l’immortale Mi sono rotto il cazzo. Canzone che non si vergogna di cantare «tutti a lavoro in auto, ma una persona per auto per finanziare meglio l’Eni» sempre sotto al simbolo che si staglia maestoso ai loro lati. La piazza è già tutta loro, quasi non serve quella battuta su Salvini, però fa sempre ridere.

La sfilata prosegue con Gabbani in splendida forma, mentre noi aspettiamo Brunori Sas, con la sua verve da intellettuale anacronistico. Attacca con il nuovo album, tutto fila liscio e si conferma uno degli artisti più promettenti della scena.

Tra una canzone e l’altra sbrodola anche qualcosa a proposito del lavoro su se stessi e sull’aggregazione, poi per fortuna si scagiona annunciando la profonda falsità dei cantanti, ci strappa un sorriso e si libera dalla banalità a comando da impegno sociale.

Clementino pensa a introdurci il resto della serata, insieme a Camila Raznovich che ha finito la voce quando ancora il sole era alto, non sono finite invece le storie strappalacrime e piene di retorica tra una performance e l’altra. Dovrebbero richiamare Vasco Brondi, o aspettare Bennato, e farsi spiegare come si possa parlare di qualunque argomento senza scadere nella più scontata moralità a buon mercato.

Arriva Ermal Meta e lo segue proprio Bennato, che esordisce cantando una frase che dovrebbe essere da monito «via da quei luoghi comuni», nell’incipit della canzone Pronti a salpare, con il suo ossessivo ripetersi del titolo.

Samuel

Attendiamo di scoprire live la nuova solitudine di Samuel senza i Subsonica, e non delude neanche così, prima di congedarsi ci lascia cantando Vedrai, uno dei singoli più riusciti del nuovo album, un inno alla speranza che ci strilla in faccia che «se siamo ancora qui, vedrai che un motivo c’è…».

Quando, dopo di lui, i Planet Funk cantano Who Said capiamo quel motivo e ci emozioniamo dei nostri ricordi bambini, la nuova formazione del gruppo illumina la scena e fa saltare convulsamente la folla già agitata. I Public Service Broadcasting chiudono la serata mentre gli angoli della piazza si smussano di persone che raggiungono la metro anzitempo. Una ragazza dai capelli lunghi e castani balla da sola con gli occhi chiusi.

Qualcuno provvederà alla sporcizia e all’incuria. Un giorno qualcuno provvederà anche ai lavoratori. Forse.

 

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