effetti speciali Archivi - Fabrique Du Cinéma https://www.fabriqueducinema.it La Rivista Del Nuovo Cinema Italiano Thu, 05 Sep 2019 08:57:46 +0000 it-IT hourly 1 Dietro al successo del Re Leone gli effetti visivi targati MPC https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/dietro-al-successo-del-re-leone-gli-effetti-visivi-targati-mpc/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/dietro-al-successo-del-re-leone-gli-effetti-visivi-targati-mpc/#respond Thu, 05 Sep 2019 08:56:04 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=13228 Con un trionfo al box office internazionale da oltre 1 miliardo e mezzo di dollari, Il re leone si attesta tra i film più riusciti di casa Disney: sebbene sia da molti considerato un vero e proprio feature film per il realismo delle immagini e per l’effettivo impiego di alcune riprese reali, se considerato film d’animazione si […]

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Con un trionfo al box office internazionale da oltre 1 miliardo e mezzo di dollari, Il re leone si attesta tra i film più riusciti di casa Disney: sebbene sia da molti considerato un vero e proprio feature film per il realismo delle immagini e per l’effettivo impiego di alcune riprese reali, se considerato film d’animazione si attesterebbe come quello di maggiore incasso di tutti i tempi.

Per realizzare questa produzione il regista Jon Favreau è stato riconfermato dalla Disney dopo il successo de Il libro della giungla, vincitore dell’Oscar per i migliori effetti visivi, assieme a un team di circa 1250 artisti e tecnici, parte dei quali avevano già lavorato al precedente successo di Favreau. Ma grazie al lavoro di animazione ed effetti visivi svolto dalla società MPC, il livello della computer grafica impiegata nel Re leone si è spinto ancora oltre. L’obiettivo del regista era infatti quello di realizzare un film che avesse il realismo visivo di un documentario ma lo stile di racconto e il consueto mood disneyano.

Il lavoro di dettaglio raggiunto sui personaggi e le ambientazioni è in effetti stupefacente, e ancora più la coerenza delle inquadrature con l’iconico film del 1994: con questa recente produzione si è infatti voluto replicare l’esatto stile registico del predecessore, incrementandone il realismo sì con la nuova grafica, ma anche mediante animazioni secondarie sulla moltitudine di personaggi realizzati.
L’esperienza visiva è certamente coinvolgente e l’animazione dei personaggi principali è credibile perché, nonostante parlino, si è impiegato uno stile di animazione non invasivo e quindi il “volto” dei personaggi si muove in base ai reali movimenti che la muscolatura facciale degli animali è in grado di compiere.

Il re leoneDal punto di vista tecnico, l’innovazione più significativa è stata certamente quella di aver impiegato la realtà virtuale quale ambiente immersivo per la ripresa delle scene. In pratica, il regista e i suoi collaboratori più stretti, tra i quali il direttore della fotografia Caleb Deschanel e il supervisore degli effetti Rob Legato, indossavano dei caschi da realtà virtuale che li immergevano interamente nei set realizzati in computer grafica: in questo modo erano in grado di consultarsi su come impostare le inquadrature ed effettivamente girarle mentre guardavano all’animazione dei personaggi già presenti all’interno del mondo virtuale. Era possibile anche modificare le luci in tempo reale ed impiegare diversi sistemi di ripresa come carrelli, crane ecc; insomma, era come girare su un set reale con attori in carne e ossa, ma in un ambiente controllato e con la possibilità di ripetere il ciak quante volte necessario.

Nel prossimo numero di Fabrique, Gianluca Dentici che ha lavorato al film come Senior Compositor Key Artist a MPC London, ci illustrerà il percorso realizzativo e tecnico che ha portato alla creazione delle splendide immagini del Re leone. Stay tuned!

 

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ILM: da Doctor Strange a Spielberg https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/ilm-doctor-strange-spielberg/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/ilm-doctor-strange-spielberg/#respond Fri, 09 Jun 2017 17:47:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8709 Daniele Bigi, comasco doc, da oltre 12 anni lavora nei più importanti studi d’effetti speciali, tanto da essere diventato uno dei talenti d’eccellenza di questo settore. Anche se lui continua a essere il ragazzo di sempre. Dopo la laurea in Disegno Industriale conseguita al Politecnico di Milano, sono arrivate le prime collaborazioni ad Atlanta, Bangalore, […]

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Daniele Bigi, comasco doc, da oltre 12 anni lavora nei più importanti studi d’effetti speciali, tanto da essere diventato uno dei talenti d’eccellenza di questo settore. Anche se lui continua a essere il ragazzo di sempre. Dopo la laurea in Disegno Industriale conseguita al Politecnico di Milano, sono arrivate le prime collaborazioni ad Atlanta, Bangalore, proseguendo all’Ardman Animation di Bristol, fino all’approdo in Inghilterra, ormai la sua seconda casa. Dapprima alla Framestore, poi per sei anni nella prestigiosa Moving Picture Company, arrivando, da poco più di due anni, nell’olimpo del settore, la ILM, Industrial Light&Magic, fondata da George Lucas nel 1975, oggi passata alla Disney. Una carriera fulminante la sua, ricoprendo incarichi sempre più diversi, da look developer e lead lightner in lavori come Harry Potter e i doni della morte, X-Men, First Class, diventando in poco tempo CG Supervisor in Seventh Son, Prometheus, Guardiani della Galassia, così nella sua nuova avventura su progetti come Ant-Man e l’acclamato Doctor Strange. «Tutto è nato guardando pellicole come Jurassic Park e Terminator 2, in quel momento capii che volevo intraprendere questa strada».

Un percorso necessario e da tenere molto segreto: «Ci sono delle regole interne che dobbiamo rispettare riguardo ai contenuti che vediamo in anteprima. Ma al tempo stesso c’è grande apertura, possiamo vedere tutto o quasi di ciò che altri colleghi stanno portando avanti, periodicamente ILM organizza per proiezioni, c’è un ottimo rapporto. Il fatto che la compagnia sia passata alla Disney spesso ci mette nelle condizioni di poter dialogare con i colleghi del team tecnico di Pixar e accedere alle loro tecnologie, partecipando spesso ai meeting organizzati dagli sviluppatori».

Ed è proprio dall’ultimo progetto, quel Doctor Strange nominato all’Oscar per gli effetti speciali, che Bigi prosegue il suo racconto tecnico e affascinante: «È stata una delle esperienze maggiormente avvincenti, dove mi sono ritrovato anche realmente sul set. Negli studi di Long Cross a Londra si è lavorato a una scena di combattimento, la “Hong Kong Reverse Destruction sequence”. C’erano alcuni aspetti da seguire, rispondevo e consigliavo in termini di illuminazione, se il green screen doveva essere illuminato ad esempio in un certo modo, per evitare problemi nella fase di chroma key. Verificavo soprattutto come venissero posizionati i 4-5 lidar scan, macchine dotate di testa ruotante a 360°, capaci di colpire una superficie con dei laser, usate in diversi settori industriali per l’acquisizione di misure ad alta precisione. Nel nostro caso – continua Bigi – i laser si attivavano a intermittenza con intervalli di decimi di secondo, colpendo gli oggetti circostanti e registrando la distanza tra la testa del lidar e il punto colpito dal laser. Dopo diverse ore di acquisizione dati, il tutto viene salvato in una “nuvola di punti”, chiamata point clouds, che successivamente viene usata per creare un modello poligonale 3D.  Questo lavoro è stato fondamentale  per poter costruire l’estensione digitale del set in modo che combaciasse perfettamente con quello reale creato in studio».

A sentirlo parlare tutto sembra molto semplice, in realtà il settore in cui opera è ancora un mondo che spesso deve essere compreso, spiegato, e nulla sui termini può essere lasciato al caso. «È stato complesso, non solo abbiamo creato delle forze fittizie che spingessero i palazzi senza andare a coprire gli attori, ma ci siamo soffermati su ogni frammento caduto, chiedendo che fosse girata una library con quattro telecamere, posizionate da prospettive diverse. Nel nostro settore le “librerie” sono un insieme di micro scene, richieste per inserire degli extras (comparse) che, talvolta, consigliamo di girare indoor con il green screen: gruppi di persone che corrono, cadono, fanno finta di essere spaventati, ma anche fiamme, esplosioni, fumi. Clip che, in post produzione, usate in fase di compositing, diventano fondamentali per riprodurre e simulare in digitale».

Archiviato un lavoro complesso e ambizioso, la sua prossima sfida è già avviata e sarà focalizzata su Ready Player One, il nuovo atteso film di Steven Spielberg, sempre per ILM, tratto dal romanzo di Ernest Cline.

«Parliamo di una storia che si ispira al mondo dei videogame, in questo senso è stata già fatta una pre-visualizzazione, ora comincia il bello. È presto per dirlo, ma ci sono le basi per creare un punto di vista visivo nuovo. L’altra cosa interessante sarà il fatto che appassionerà pubblici e culture diverse, secondo me potrebbe rivelarsi un successo incredibile. Il lavoro creativo è davvero enorme, per ora stiamo solo animando, la cosa che mi ha colpito però è quanto lo stesso Spielberg riesca a darci in termini di feedback. Con lui abbiamo call periodiche, è incredibile. Fornisce note, dettagli, è attento a ogni aspetto. A differenza dei precedenti incarichi sarò Associated V-Effect Supervisor, un ruolo intermedio, in cui vengo coinvolto in aspetti tecnici, però seguo meeting legati anche ad argomenti più estetici ed espressivi».

Si parla del presente, con lo sguardo però rivolto a cosa il futuro del settore potrà ancora regalare. «Il fatto che in Rogue One sia resuscitato digitalmente un attore come Peter Cushing è già un segno tangibile di avanzamento, una maturità tecnologica che dimostra come ILM sia una delle migliori compagnie in circolazione. Dopo un progetto come questo ti rendi conto che c’è ancora molta strada, il problema sarà la qualità, la ricerca della perfezione. Il fatto di non conoscere però tutto è la molla per sperimentare e innovare».

Tuttavia un passo in avanti l’artista italiano lo anticipa già: «Si sta parlando di passare a una risoluzione a 4k, questo creerà problemi nei tempi di rendering. La tecnologia dei proiettori, TV, che quasi tutti oggi possono comprare, i sensori delle telecamere, è avanzata negli ultimi otto anni al punto che la scena di Doctor Strange è stata girata a 6k. Succederà presto, la larghezza dell’immagine arriverà circa a 4000 pixel, anche alcuni cinema ne sono dotati, dovremmo essere tutti pronti». 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La nuova fantascienza italiana: verso l’infinito e oltre https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/la-nuova-fantascienza-italiana-verso-linfinito-oltre/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/la-nuova-fantascienza-italiana-verso-linfinito-oltre/#respond Thu, 18 May 2017 07:59:46 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=8541 La primavera della fantascienza italiana viaggia su sottomarini trasformati in astronavi (la cabina di pilotaggio dello storico sommergibile Nazario Sauro è la location de L’anomalia, corto di Luca Franco in lavorazione ora, scritto con Giovanni Robbiani), su cinegiornali diventati cronache dal futuro, sullo modellini e ottiche diverse con l’aiuto del green screen solo proprio quando […]

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La primavera della fantascienza italiana viaggia su sottomarini trasformati in astronavi (la cabina di pilotaggio dello storico sommergibile Nazario Sauro è la location de L’anomalia, corto di Luca Franco in lavorazione ora, scritto con Giovanni Robbiani), su cinegiornali diventati cronache dal futuro, sullo modellini e ottiche diverse con l’aiuto del green screen solo proprio quando non puoi usare la scenografia naturale.

Viaggia sulle spalle di esploratori che non hanno paura di perdersi nelle odissee nello spazio oscuro della produzione cinematografica italiana, pur di continuare a vivere il proprio sogno, che parte da Méliès e che ora si riconosce soprattutto in Alfonso Cuaròn (I figli degli uomini più di Gravity), un po’ in Neill Blomkamp (District 9, Elysium, Humandroid) e in parte Gareth Edwards (l’ultimo Star Wars, ma anche Monsters). Quella fantascienza umanista, politica, sociale, intimista e metaforica che trova nella distopia, più che nelle scene belliche tra astronavi o cloni, la propria profonda realizzazione.

A spiegarlo meglio di tutti è Lorenzo Sportiello, che con Index Zero neanche tre anni fa ci ha regalato uno dei lungometraggi più interessanti della nostra nouvelle vague sci-fi. «La fantascienza fa parte del mio immaginario fin da piccolo e da adulto, da regista, ho capito che tutto può entrare in questo genere: horror, comicità, sentimenti. Solo in questo recinto riesci a raccontare il nostro mondo per renderlo più chiaro, e questo grazie all’iperbole naturale che ha in sé. Un film sui migranti, come Index Zero, fatto più “dritto”, magari su Lampedusa, non lo avrei trovato interessante né efficace: là traspongo tutto in un mondo non visto». Perché le influenze sono soprattutto di scrittura e si raccolgono ovunque. Anche nell’attualità. «I tunnel del mio film, percorsi da una coppia che vuole dare un futuro migliore al figlio nascituro, non sono solo quelli palestinesi, ma una metafora del mare, che mi era vietato dal budget».

In ognuno di questi film c’è un muro. E non parliamo solo di quello produttivo e distributivo, contro il quale tutti hanno sbattuto – “e speriamo che Jeeg Robot abbia cambiato le cose” dicono tutti come un mantra – ma di quelli che compaiono nei loro film. Veri o figurati, si va verso o si fugge da essi, sono parte integrante dei loro universi narrativi. «La complessità del presente, tra verità e post verità – aggiunge Sportiello – puoi interpretarla solo elevando la realtà dalla melma del populismo, del dibattito politico di questi anni. Dobbiamo insistere su questo sentiero, il mash up di generi è la vera sfida del futuro delle arti visive».

Sembra lontanissimo Riccardo Bolo dall’immaginario del collega, eppure il suo futuro (passato) remoto, debitore di Chris Marker in Tanabata, ma anche di un’estetica espressionista e allo stesso tempo debordiana in Blue Screen, ideato e scritto con Alessandro Arfuso, ci restituisce un universo politico e creativo altrettanto potente e originale. «Quest’ultimo nasce da un premio di sviluppo che prevedeva l’utilizzo dell’Archivio Audiovisivo del movimento operaio e democratico: quindi, un po’ per caso e per necessità, abbiamo visto i materiali e ci è venuta l’idea dei cinegiornali dal futuro, un futuro tutto fondato sull’emancipazione dal lavoro ».

La forza di questi ragazzi – sono tutti giovani, seppur con notevole esperienza – è proprio nel recuperare la lezione dei grandi del passato, dei Kubrick e dei Lucas. «L’anomalia – ci dice Luca Franco – è tutto fatto di modellini e riprese in studio. Chiusi in un’unica location, in cui Marte e Terra sono luoghi lontani e noi viviamo il limbo del viaggio di tre amici in un’astronave-baracca». E se tutto questo non vi sembra faccia abbastanza Star Wars, sappiate che il buon Franco ha come stelle polari 2001 Odissea nello spazio, Alien, Blade Runner e sì, George Lucas. Tanto che fu in una libreria, guardando una foto in cui dei tecnici costruivano il Millenium Falcon, che ha tratto l’ispirazione per il suo futuro mediometraggio.

E lo conferma Angelo Licata, che da fan di quella saga fa partire la sua carriera artistica e che ora aspetta l’ultima risposta da parte di una major italiana per una sua sceneggiatura sci-fi, dopo aver scritto lo splendido Engel, già di suo un universo cineletterario fertilissimo. «È la mitologia del nostro tempo, i nostri racconti attorno al fuoco. Star Wars è il capostipite che ha cambiato il cinema e la vita di molti, con archetipi, miti e una grande capacità di trasmettere principi morali importanti. Insieme a Cameron, chiaro». Non manca a questi autori l’ambizione nei contenuti e nell’estetica. Lo capisci quando Roberto Schoepflin, inventivo e raffinato nel suo cinema caustico e immaginifico, ti confessa che in lui c’è «Bunuel, quella fantascienza fantasiosa e surreale, con personaggi fuori luogo e il tempo che si annulla. Ma anche l’espressionismo tedesco, il primo Flash Gordon e i B-movies più recenti. Gli effetti speciali sono interessanti solo se non fini a se stessi. La fantascienza è un contenitore che ti dà grande libertà. Se avessi avuto la CGI, ad esempio in 666 Desdemona, avrei fatto esattamente le stesse cose».

Nicola Piovesan, forse il più eclettico, capace di creare universi come quello del prossimo Attack of the Cyber Octopuses (progetto apprezzatissimo su Kickstarter) ma anche di corti come Il Garibaldi senza barba, Deus in machina e Of your wounds, uniti solo dal suo sguardo altro e dall’impatto visionario del suo cinema, aggiunge al pantheon Stalker e Asimov, «su cui sogno di girare una trilogia sul cinema della Fondazione. La fantascienza per me è simile alla filosofia: un modo per riflettere sulle nostre esistenze, chi siamo e cosa ci facciamo qui. Per questo è nel mio cuore e torno sempre da lei: Attack of the Cyber Octopuses prende inspirazione dal cyberpunk anni ’80». E anche lui “giocherà” con modellini e miniature fatte a mano.

Matteo Scarfò, autore del potentissimo e solo apparentemente post apocalittico L’ultimo sole della notte, geniale nel trovare il suo centro narrativo nel rimpianto del superfluo e non nella ricerca del necessario, denuncia un’ispirazione più letteraria: da Dick a, soprattutto, James Ballard. «Condominium e l’Isola di Cemento, con un pizzico dello Straniero di Camus: da qui nasce questo racconto che vuole rovesciare, nei paletti del genere, i suoi archetipi».

Sono sghembi, ingegnosi, determinati. Sono ironici e arguti, sono impegnati. Perché la fantascienza è un luogo cinematografico che permette ai The Jackal di esordire con Addio fottuti musi verdi, dalle parti di Mel Brooks e non solo, o al duo Guaglione-Resinaro (sì, quelli di Mine) di tirar fuori dal cappello Afterville, corto che nel cast ha Bruce Sterling e Giorgia Wurth (vera musa sci-fi, se si pensa che già era nel mitico cult pionieristico Dark Resurrection vol. 1 di Licata), ultima tappa di un viaggio che aveva già portato i due a E:d:e:n e The Silver Rope e che di questa avanguardia sono stati i capofila.

Il presente, insomma, è luminoso, ma il sospetto è che in un cinema italiano asfittico, il futuro potrebbe essere già alle loro e nostre spalle. Ma questo gruppo, che guarda verso l’infinito e oltre, non ha paura. Sono una factory di idee senza saperlo. Ci scherza proprio Licata, che da fan è diventato regista e sceneggiatore, citando Yoda: «Sempre in movimento il futuro è. Il problema in Italia è che non c’è know-how. Talenti ne abbiamo, che magari vanno a lavorare con i Wachowski, mentre qui i produttori hanno paura di un reparto in più, quello degli effetti visivi, non sanno gestirlo. La strada c’è, ma non è facile percorrerla».

Luca Franco parla della computergrafica «come una droga che nel genere ha portato l’iperbole visiva dimenticando i contenuti; tuttavia negli ultimi anni stiamo tornando a una fantascienza più povera ma più profonda: c’è spazio per noi europei, perché gli americani hanno perso la stella polare fantascientifica da Matrix in poi e si sono dati alle baracconate come gli ultimi Star Wars». Piovesan sottolinea amaro come «tutto il cinema di genere italiano ha faticato negli ultimi decenni e pensare che ne eravamo la punta di diamante, grandi cineasti ancora oggi si dichiarano alunni della nostra scuola. Esigenze e volontà produttive e distributive hanno determinato questa crisi, non la mancanza di talenti e idee. Ma il ricambio generazionale in atto nel cinema e il ruolo di internet stanno dando una spinta decisiva a progetti indipendenti sempre meno underground».

Scarfò però mette in guardia «dal successo indipendente: è importante, ma ci fa rimanere in una nicchia. E la fantascienza in Italia, se si escludono casi come Bava e Margheriti, lo è sempre stata, anche quando il cinema di genere volava. Abbiamo produttori che temono i costi dei nostri film, senza capire che spesso sono low budget con tante idee, invenzioni e poche spese. Abbiamo bisogno di arrivare al grande pubblico, questa è la vera scommessa». «Si deve solo capire – sottolinea Bolo – che la science fiction è uno strumento straordinario per parlare di qualcosa di nostro, ma con uno sguardo più trasversale. Trasformare, come è successo a me, un filmato sul 1968 in una manifestazione di androidi che reclamano i propri diritti è qualcosa che mi spiazza da regista e da spettatore. L’alto budget è una condizione sufficiente, ma non necessaria». Necessari sono loro, così vicini e così diversi e che potrebbero diventare la nostra fanteria nello spazio sci-fi, tra cinema e realtà.

di Boris Sollazzo illustrazioni di Guido Salto*

* 28 anni, concept artist e illustratore 2 e 3D, ha collaborato ad Attack Of The Cyber Octopuses e a molti progetti per startup tecnologiche, case editrici (Dixidiasoft), aziende di videogiochi (ad es. il videogame The Steampunk League, ancora in produzione).

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“Buffet” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/buffet/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/buffet/#respond Tue, 22 Nov 2016 15:43:15 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3806 Che l’avvento del digitale abbia schiuso nuove prospettive nel mondo delle produzioni adiovisive non è una novità. Ma che ormai si faccia uso degli effetti digitali non solo nelle grandi produzioni, ci fornisce la misura del grado di diffusione che la tecnologia VFX ha ormai raggiunto. Nel cortometraggio Buffet di Alessandro D’Ambrosi e Santa De […]

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Che l’avvento del digitale abbia schiuso nuove prospettive nel mondo delle produzioni adiovisive non è una novità. Ma che ormai si faccia uso degli effetti digitali non solo nelle grandi produzioni, ci fornisce la misura del grado di diffusione che la tecnologia VFX ha ormai raggiunto.

Nel cortometraggio Buffet di Alessandro D’Ambrosi e Santa De Santis ci si potrebbe legittimamente chiedere che cosa abbia spinto i registi ad affidarsi agli effetti digitali piuttosto che a un bravo scenografo per realizzare una composizione di piatti sporchi e avanzi di cibo, disposti in maniera apparentemente caotica, su di un tavolo alla fine di un ricevimento. In questo caso la funzione del digitale non è stata quella di soppiantare la tradizione, ma di fornire un ulteriore strumento nelle mani di chi realizza un prodotto, che sia di natura commerciale o artistica; per quanto riguarda Buffet, la soluzione digitale si è resa necessaria perché l’allestimento della scena avrebbe richiesto troppo tempo, dovendo soddisfare alcuni requisiti fondamentali per i due registi.

Siamo all’ultima scena-chiave del corto, il dolly è pronto, si prova la ripresa un paio di volte, sul tavolo devono essere “apparecchiati” i piatti sporchi e gli avanzi, alcuni finiti direttamente sulla tovaglia sgualcita e macchiata; a un primo sguardo la scena deve apparire disordinata, ma né i resti dell’abbuffata né le macchie sulla tovaglia possono essere disposti in maniera casuale, perché la forma descritta da questo piccolo ammasso di resti e macchie deve essere la replica, quanto più fedele possibile, di una mappa. Neanche l’effetto cromatico può essere affidato al caso.

Un lavoro del genere si prospettava fin troppo impegnativo per essere realizzato direttamente sul set, considerando che il tutto andava girato come ultima ripresa dell’ultimo giorno di lavorazione. Perciò, grazie all’ausilio della tecnologia, la sfida è passata dal fare in fretta un lavoro complicato al ricreare digitalmente, come spesso accade, una scenografia convincente sia sul piano artistico che su quello materico.

Il confronto con Alessandro e Santa, che avevo conosciuto in veste di attori ­in occasione della la­vorazione di Geekerz,­ una webserie sugli ­zombie, è stato costante. Ogni fase­ dello sviluppo è sta­ta approvata da loro ­che avevano un’idea estremamente chiara di­ quello che doveva es­sere rappresentato nell’ultima scena: u­n ammasso di avanzi con una forma e dominanti cromatiche ben definite.

Il primo, fondamentale passaggio, è stato quello della presenza sul set, perché la supervisione rappresenta in tutto e per tutto la prima fase della realizzazione di un effetto visivo digitale, ben prima di accendere il computer. In occasione della riprese abbiamo avuto la possibilità di documentar­e con le foto l’illum­inazione realizzata d­a Ciprì e a fotografa­re il materiale di sc­ena da ricostruire in­ 3D.

Tecnicamente il lavoro si è svolto secondo varie tappe. Insieme a Gianluca Lo Guasto­ ci siamo preoccupati­ di costruire una mappa ­dell’illuminazione pe­r ricreare la scena 3D, di fotografare i pi­atti di avanzi e le­ stoviglie per avere ­delle texture e, molt­o importante, abbiamo­ usato una “griglia” ­(un pannello con un d­isegno a scacchiera) ­per registrare la def­ormazione della lente­ usata nell’inquadrat­ura finale. In fase di postprodu­zione ho stabilizzato­ l’inquadratura, ho r­ealizzato il track de­lla camera per ottene­re il movimento della­ stessa in una scena 3D, ho realizzato i m­odelli 3D, li ho illu­minati e texturizzati­, li ho renderizzati ­e, infine ho realizza­to il compositing.
Nella realtà ogni le­nte genera una distor­sione nell’immagine c­he inquadra, mentre l­a camera 3D nasce pri­va di distorsione, pe­rciò per generare del­le immagini dal 3D ch­e si comportino in ma­niera coerente con il­ video originale, pri­ma di realizzare il t­rack della camera, oc­corre rimuovere la de­formazione del video.­ Alla fine di tutto i­l processo l’ultimo s­tep consiste nel riap­plicare la distorsion­e eliminata all’inizi­o al compositing fina­le di video e 3D: l’e­ffetto è quasi imperc­ettibile, ma contribui­sce a rendere realist­ico l’effetto finale.

Infine, oltre alla scena di chiusura, fra gli altri interventi che ci sono stati richiesti c’è stata l’aggi­unta dei fumi per le pietanze che dovevano­ sembrare calde, e il potenziamento dell’esplosione di una torta.

Guarda le immagini dei VFX e del backstage a pag. 64 di Fabrique du Cinéma n° 15

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Contro gli alieni l’arma più potente sono i VFX italiani https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/contro-gli-alieni-larma-piu-potente-sono-i-vfx-italiani/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/contro-gli-alieni-larma-piu-potente-sono-i-vfx-italiani/#respond Sun, 11 Sep 2016 09:17:24 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3524 C’è anche una giovane società italiana di VFX dietro al blockbuster USA “Independence Day – Rigenerazione”, nelle sale in questi gioni.  Ci racconta Pietro Silvestri, Visual Effect Project Manager della romana Why Worry Production, di Diego Panadisi, «la nostra società è stata l’unica in Italia ad aver lavorato nel film di Roland Emmerich. Abbiamo cominciato con la […]

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C’è anche una giovane società italiana di VFX dietro al blockbuster USA Independence Day – Rigenerazione”, nelle sale in questi gioni.  Ci racconta Pietro Silvestri, Visual Effect Project Manager della romana Why Worry Production, di Diego Panadisi, «la nostra società è stata l’unica in Italia ad aver lavorato nel film di Roland Emmerich. Abbiamo cominciato con la pubblicità e, dopo aver lavorato ad oltre 300 scene del film  Beyond the Reach (Caccia all’Uomo) interpretato da Michael Douglas, la  20th Century Fox ci ha affidato  alcuni effetti digitali del secondo film della saga di Emmerich».

In otto mesi di duro lavoro, al fianco di Greg Strasz, VFX Supervisor di Centropolis Entertainment che fa capo direttamente a Roland Emmerich, Why Worry si è occupata in primis della previsualizzazione di alcune parti del film come il prologo e la parte del finale: «In particolare, per la scena iniziale abbiamo prodotto due possibili scene alternative del “sogno” dell’ex Presidente e per il finale abbiamo creato le sequenze della nave aliena, viste da Washington DC, Marocco, Parigi, Area 51. Poi siamo stati coinvolti nella realizzazione di oltre 20 tagli del trailer “ESD” Earth Space Defence».

Una fatica premiata, visto che a Why Worry sono state poi affidate alcune sequenze finali che sono state effettivamente montate nel film, come quella della Alien Gunship che attacca il bunker delle Cheyenne Mountain dove si è rifugiato il Presidente USA. Spiega Pietro: «Una sequenza creata da zero utilizzando tecniche interamente digitali: siamo partiti dalla definizione dell’azione, dei movimenti di camera e inquadratura come se si trattasse di una scena live. Abbiamo lavorato con dei matte paintings realizzati da noi per lo sfondo montagnoso (un mix tra tecniche 2D e 3D), e con tecniche completamente 3D per la costruzione della base e di tutti gli elementi coinvolti nell’azione. Tutto è stato realizzato in tempi strettissimi, sempre con assoluta attenzione alle richieste della produzione, due astronavi e decine di caccia alieni, azione adrenalinica ed effetti pirotecnici digitali tutti in un solo shot».

Troverai l’intervista a Why Worry con tutti i dettagli tecnici della lavorazione sul prossimo numero di Fabrique du Cinéma.

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Come abbiamo creato i VFX di “Jungle Book” https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/come-abbiamo-creato-i-vfx-di-jungle-book/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/come-abbiamo-creato-i-vfx-di-jungle-book/#respond Thu, 21 Jul 2016 10:11:05 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=3405 Il film di Jon Favreau ha segnato un nuovo punto di arrivo nel cinema internazionale sotto il profilo degli effetti visivi: Gianluca Dentici e Korinne Cammarano, che hanno lavorato al film nello staff londinese della società leader dei VFX MPC, ci spiegano come e perché. Quali sono stati i tempi di lavorazione e quante le […]

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Il film di Jon Favreau ha segnato un nuovo punto di arrivo nel cinema internazionale sotto il profilo degli effetti visivi: Gianluca Dentici e Korinne Cammarano, che hanno lavorato al film nello staff londinese della società leader dei VFX MPC, ci spiegano come e perché.

Quali sono stati i tempi di lavorazione e quante le persone impiegate?

Gianluca e Korinne: Jungle Book è stato certamente il progetto filmico più grande che MPC abbia mai realizzato sino ad ora, sia in termini di tempo che di artisti coinvolti, il film ha infatti impiegato circa due anni per venire alla luce, dal concepimento fino al termine della post produzione. In totale sono stati coinvolti circa 800 artisti tra le sedi di Londra e quella di Bangalore in India per un totale di quasi un anno di post produzione. Come molti sapranno, il film ha richiesto tutto questo tempo perché l’ambientazione nella giungla e gli animali sono stati interamente realizzati in CG e l’unico attore vero è Neel Sethi, che interpreta Mowgli, anche se in qualche caso è stata utilizzata anche una controfigura digitale. Le riprese reali del film si sono svolte a Los Angeles all’interno di un teatro blue screen di modeste dimensioni, dove sono state ricreate piccole porzioni di scenografia per aiutare l’attore a interagire con alcuni elementi fisici e l’impiego di sagome e praticabili dipinti di blu, poi sostituiti dalle immagini in CG.

Il film è davvero di un realismo finora mai visto nonostante i personaggi siano… animali parlanti!

G. K. Il metro di misura a cui tutti sino a ora ci riferivamo quando si parlava di un film realizzato interamente in CG era ovviamente Avatar, ma in Jungle Book lo sforzo è stato di gran lunga superiore per due motivi: anzitutto l’ambientazione doveva avere un sapore realistico, quindi differente rispetto a quella fantastica di Avatar, e poi per la presenza di animali reali che tutti ben conosciamo, invece delle creature immaginarie Ridley Scott.

Spiegateci il più possibile nel dettaglio le tecniche impiegate per raggiungere questo effetto.

G. K. Durante le riprese il regista Favreau insieme al supervisore degli effetti visivi Rob Legato (premio Oscar per Titanic) avevano a disposizione un sistema Simulcam della società 3rd Floor, che si è occupata della gran parte della previsualizzazione del film: questo permetteva di visualizzare contemporaneamente la scena live e il set in CG (seppur in bassa qualità). Il regista aveva quindi la possibilità di muovere la macchina da presa in piena libertà nello spazio del set visualizzando sul monitor un’idea del tutto fedele di quella che sarebbe stata l’inquadratura finale.

Per l’interazione con gli animali della foresta, l’attore è stato aiutato da alcuni performers della Jim Henson’s Creature Shop, che hanno impiegato piccoli puppet anch’essi dipinti di blu per recitare insieme al piccolo Neel Sethi. Questi stessi performers hanno anche indossato delle tute blu per altre scene del film, come ad esempio quella in cui le scimmie rapiscono Mowgli. In realtà sul set i performers simulavano i movimenti delle scimmie sollevando il piccolo attore e facendolo volteggiare. Le scimmie sono state realizzate dalla società WETA Digital, famosa per Avatar, Lord of the Rings e ovviamente il Pianeta delle scimmie.

Nel frattempo a MPC si preparava un grandissimo lavoro di animazione dei personaggi e di costruzione delle ambientazioni. Per darvi qualche numero, sono 54 le specie animali animate, considerando ovviamente anche quelle di secondaria importanza, mentre le ambientazioni digitali sono 284 con 500 differenti tipologie di piante. Il lavoro di ricerca si è basato su circa 100.000 reference fotografiche che sono state scattate in 40 location indiane, infatti il ruolo della sede indiana di MPC ha avuto un ruolo fondamentale per la riuscita del film. Sono state fotografate rocce, sassi, alberi, piante, foglie.

Una volta approvate le pre-composizioni mostrare al regista, il lavoro prosegue poi in altri reparti come quello del texturing, che si occupa di inserire le superfici e i colori della pelle dei personaggi, così come l’aspetto degli environment, e successivamente il reparto di lighting rifinisce l’illuminazione finale, genera i riflessi e le ombre.

L’ultima fase è quella del compositing, reparto dove io e Korinne abbiamo lavorato, ed è quello dove le scene prendono vita; l’attore viene scorporato dalla ripresa in blue screen e inserito nel contesto interamente digitale. La difficoltà di questa fase sta proprio nell’amalgamare in maniera realistica i due elementi. A seguire tutte le fasi di lavorazione del film e specialmente quella di finalizzazione in compositing c’era con noi Adam Valdez, VFX supervisor di MPC.

Per alcune scene di particolare complessità il supervisore ha preferito utilizzare un digital double, ovvero un Mowgli virtuale che è stato scannerizzato utilizzando il Lightstage della University of Southern California, sistema inventato da Paul Debevec. Grazie a questo sistema è stata ottenuta una qualità della pelle fedele all’attore reale e un dettaglio elevatissimo. In qualche caso nemmeno il colorist del film riusciva a capire se l’attore fosse virtuale o reale.

MPC ha generato un totale di 1984 TB di dati per circa 240 milioni di ore di rendering.

Quali i software impiegati?

G. K. I software impiegati sono stati ovviamente tanti considerando i vari reparti coinvolti, ma in generale Maya per la modellazione e animazione dei personaggi e ambienti, Zbrush e Mudbox anche per lo sculpting delle ambientazioni, Katana per il lighting, Renderman per il rendering e Nuke per il compositing. Ovviamente sono stati sviluppati molti tool in tutti i reparti e molte procedure di lavoro, in quanto la pipeline doveva essere condivisa e impiegata da tantissimi artisti, come abbiamo detto anche in sedi distanti. Bisogna ricordare inoltre che Jungle Book è un film nativo in 3D stereoscopico: questo ha significato per tutti i reparti la gestione di due flussi di dati, uno per il canale destro e uno per quello sinistro, e ciò si traduce in doppi tempi di calcolo e un incremento della sofisticazione generale di tutti i processi. Le scene infatti dovevano essere controllate anche dai supervisori della stereografia affinché non risultassero fastidiose agli occhi dello spettatore o errate nella loro collocazione nello spazio tridimensionale.

Potete commentare i momenti del film più significativi dal punto di vista dei VFX?

G. K. Mowgli sulla pancia di Baloo nel fiume è forse tra le scene più complesse. È stata ricostruita in esterni una piscina dove è stata posizionata una sagoma blu semovente di Baloo su cui l’attore era seduto. Per far sì che l’attore reale avesse delle reazioni in base ai movimenti dell’orso, la Legacy Effects ha inserito nella sagoma un sistema idraulico motion control in grado di muoversi con gli stessi movimenti che erano stati attribuiti a Baloo in fase di pre-animazione. Nella fase di post produzione, per ragioni tecniche, le gambe di Mowgli sono state sostituite da quelle in CG, quindi all’interno di alcune inquadrature, di cui tra l’altro io [Gianluca], mi sono anche occupato, l’attore è per metà vero e per metà virtuale.

Di quali scene vi siete occupati in particolare all’interno della lavorazione?

Korinne: Ho lavorato principalmente nella sequenza finale del film, cioè quella del combattimento tra gli animali nella giungla in fiamme. La lavorazione è stata particolarmente complessa perché l’intera scena è molto concitata e l’animazione degli animali che combattono molto rapida, quindi enfatizzare i momenti cruciali in quasi assenza di luce ha richiesto un lavoro di bilanciamento molto accurato.

Gianluca: Per quanto mi riguarda mi sento di citare la sequenza del raduno dei lupi durante la pioggia. Ovviamente la resa del pelo bagnato degli animali ha richiesto un grande impegno sia da parte del reparto di FX che del nostro di compositing, con il trattamento separato di ogni singolo elemento che è stato possibile solo grazie all’impiego di una metodologia chiamata Deep Compositing. Ho anche lavorato alla sequenza della tigre nella grotta durante il ricordo di Mowgli bambino, qui abbiamo inserito la bruciatura digitale della tigre Shere Khan.

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Com’è organizzata una megaproduzione Disney? Da profani ci si immagina vari team al lavoro sparsi per il mondo, molto verticalismo… È così?

G. K. È esattamente così, ed in generale è il funzionamento di tutte le grandi compagnie che lavorano nel settore dell’entertainment. Il supervisore agli effetti del film è colui che fa da ponte tra la produzione e le società che partecipano alla realizzazione degli effetti, garantendo cosi la continuità visiva e lo scambio di comunicazione per tutta la durata del progetto. Si tratta di una figura al di sopra delle parti, il quale, non appartenendo alla società di effetti visivi, cerca di ottenere il miglior risultato visivo per soddisfare il cliente. Jungle Book, insomma, segna una tappa davvero importante dal punto di vista produttivo e da quello del risultato visivo raggiunto, sforzi premiati da ottimi incassi al box office. Ci auguriamo che vengano riconosciuti anche dall’Academy americana.

(Ringraziamo Jonny Vale di MPC)

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Trent’anni e oltre il doppio delle produzioni all’attivo sul suo curriculum tra pubblicità, cortometraggi, lungometraggi, film tv e video arte. Pasquale Di Viccaro e la sua Metaphyx, fondata sei anni insieme a Luca Saviotti, sono gli autori degli effetti visivi digitali di Tempo instabile con probabili schiarite, ultimo film di Marco Pontecorvo.

Con Metaphyx in pochi anni avete già fatto tante cose, qual è il lavoro del quale sei più orgoglioso?

Venti Sigarette è sicuramente un ottimo traguardo, ci ha fatto anche vincere il David di Donatello. Ma sono molto contento anche di quest’ultimo di Marco Pontecorvo, Tempo instabile con probabili schiarite, perché abbiamo raggiunto un livello tecnico e realizzativo molto alto che ci avvicina alle possibilità di studi americani o inglesi, con budget che loro userebbero per una sola inquadratura.

Come si costruisce un effetto digitale?

Per costruire un effetto bisogna sempre, innanzitutto, capire a cosa serve, qual è l’obiettivo del regista: può essere realizzare cose che nella realtà avrebbero un costo eccessivo, cose che sarebbe difficile affrontare … oppure cose che nella realtà non esistono. Poi ci sono gli effetti correttivi, a volte ci si accorge in fase di montaggio che c’è la necessità di cambiare una scena girata di giorno in una notturna; il nostro in fondo è un lavoro di servizio.

Gli effetti visivi di Tempo instabile sono qualitativamente impressionanti: che tipo di lavoro avete fatto?

Abbiamo dovuto realizzare delle trivelle, una richiesta decisamente nuova; per farlo siamo entrati in contatto con una società che produce trivelle, ci siamo fatti mandare i loro modelli e le scansioni con il laser per poi transcodificare il tutto con nostri software. Stessa cosa per l’animazione: abbiamo analizzato migliaia di video che sfruttavano i movimenti delle trivelle e abbiamo tentato di riprodurli a mano, con tutte le variazioni tecniche che questo comporta. Anche quando si realizza una creatura vivente, un animale o un drago, ad esempio, prima di poterla modellare c’è un complesso studio di anatomia e poi un lungo lavoro di reference visive per capire come muoverlo. Ne passa di tempo prima di poterlo presentare al regista!

Marco Pontecorvo è stato, tra l’altro, direttore della fotografia per tre episodi del Trono di spade, non è quindi nuovo agli effetti digitali: vi ha fatto richieste più specifiche del solito?

No, non direi, sicuramente lavorare con Marco è stato più semplice che con un altro regista. Marco ha una grande esperienza come direttore della fotografia, è un regista che viene dalla tecnica e ne conosce i limiti, coglie prima le problematiche e può darti lui stesso delle soluzioni. Una richiesta particolare però me l’ha fatta: un giorno arriva sul set e dice che deve chiedermi un grosso favore. Ho cominciato a preoccuparmi, pensando a una scena complessa appena inserita in sceneggiatura o a qualcosa di costosissimo fuori dal preventivo, invece mi spiega che John Turturro gli aveva chiesto una spalla per supportarlo in alcune scene, gli serviva un ingegnere, possibilmente nerd… e quindi per tre scene del film ho recitato l’assistente di John Turturro. Sicuramente è stata una richiesta molto più semplice di quanto mi aspettassi, ma tanto quelle difficili sono venute comunque, mi riferisco a un’inquadratura in CGI dove la ripresa di base era solo uno sfondo, tutto quello che vediamo sullo schermo non esiste, è digitale. Sono inquadrature impiegate per grandi film tipo Transformers.

E in che modo ci siete riusciti?

Ci sono voluti quattro computer e cinque giorni di rendering.

 Com’è stato lavorare a una commedia?

Ci capita spesso di lavorare a delle commedie, la novità questa volta è che Tempo instabile con probabili schiarite è una commedia che fa un uso intensivo, ma intelligente, di effetti digitali. Di solito nelle commedie lavoriamo principalmente per sopperire ai problemi di set: rimuovere una troupe riflessa su un vetro o impiegare green screen semplici; in questo caso c’è addirittura un protagonista del film che è interamente digitale, la trivella, questo ci ha permesso un uso molto creativo degli effetti e non è una cosa che capita tutti i giorni.

 I software che utilizzate sembrano difficilissimi da maneggiare, è così?

Allo stato attuale della tecnologia si può creare veramente di tutto, questo significa che la curva di apprendimento è sicuramente molto alta; matematica e logica sono indispensabili, ma l’industria sta cercando di implementare sempre più anche il lato artistico. Non dobbiamo dimenticarci l’importanza della componente umana che è dietro la tecnologia, a Hollywood parliamo di migliaia di persone, tra le dieci e le quindici per singola inquadratura, ognuna con un compito molto specifico. Lavorare con gli effetti visivi richiede grande sensibilità, perché il risultato è pur sempre un prodotto artistico, anche se di derivazione tecnologica, e soprattutto è un gioco di squadra formidabile.

Avete usato tecnologie specifiche per Tempo instabile?

In realtà no, i tool sono gli stessi che usiamo sempre, ma stavolta ci siamo concentrati sulla costruzione delle dinamiche. Nel caso della trivella di cui parlavo, ad esempio, abbiamo dovuto lavorare singolarmente su ogni ingranaggio e calcolare i pesi specifici di ogni componente meccanica, tutto questo solo per poterne ricostruire i movimenti. Poi abbiamo dovuto costruirne due versioni, una pulita e una sporca di petrolio. La pioggia di petrolio invece è stata fatta davvero, noi abbiamo solo dovuto rinforzarla.

Tenersi al passo con le nuove tecnologie non sarà semplice…

La cosa più bella di questo lavoro è che si parla tutti la stessa lingua e internet ci permette di comunicare con le case di produzione dei software stessi che, oltre ad aiutarci in casi di malfunzionamento, spesso ci chiedono aiuto per testare le versioni beta. Questo ci rende parte di un processo di ricerca e sviluppo costante. Io stesso, in quanto coordinatore del corso di computer grafica allo IED, alcuni prodotti li uso con i ragazzi come testing per decidere se implementarli durante le produzioni.

Guardando al futuro, tra 3D e realtà virtuale, in che direzione stanno andando gli effetti visivi?

Oggi gli effetti visivi hanno costi molto ridotti rispetto al passato ed è per questo che entrano sempre più spesso anche nel panorama produttivo del cinema indipendente, permettendo ai registi di fare cose che prima erano impensabili per un film low budget. Anche nelle serie tv stiamo assistendo a un incremento esponenziale di personaggi con super poteri o di eventi straordinari, perché la tecnologia è sempre più accessibile. Inoltre ormai a registi, produttori e direttori della fotografia è richiesta una conoscenza di base degli effetti visivi per poter interagire con i tecnici, sia nella preparazione che nella post produzione del film.

Guardando al vostro di futuro, mi hai parlato di questo film come qualcosa di nuovo nell’orizzonte dei vostri lavori precedenti, cosa vi è rimasto?

Su questo film ci siamo accorti che collaborando strettamente con il regista e il direttore della fotografia, pianificando bene le inquadrature, viene fuori un lavoro eccellente. Durante la lavorazione, ogni volta che finivamo un effetto lo portavamo subito in color correction per una proiezione con regista e dop, perché spesso ciò che è perfetto sul monitor del computer non lo è sul grande schermo; se ci rendevamo conto che qualcosa non andava o non ci soddisfaceva tornavamo a lavorarci sopra. Purtroppo non sempre è facile collaborare così bene; su questo film abbiamo fatto davvero un ottimo lavoro di squadra, che è alla base per ottenere ottimi risultati. Sempre.

Tutte le immagini pre e post sull’articolo a pag. 62 del numero 12 di Fabrique

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Da E.T. a Mosè https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/da-e-t-a-mose/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/da-e-t-a-mose/#respond Wed, 10 Jun 2015 09:46:12 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=1568 Ha curato gli effetti visivi di “Exodus”, “La buca”, “Viva la libertà”, “Confusi e felici”. Lavora fra Roma e Londra, e nel tempo libero insegna ai ragazzi anche come valorizzare all’estero il talento italiano. Gianluca Dentici ha le idee molto chiare, e non solo sui vfx.  Come sei arrivato al mondo della computer grafica? A […]

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Ha curato gli effetti visivi di Exodus”, “La buca”, “Viva la libertà”, “Confusi e felici”. Lavora fra Roma e Londra, e nel tempo libero insegna ai ragazzi anche come valorizzare all’estero il talento italiano. Gianluca Dentici ha le idee molto chiare, e non solo sui vfx.

 Come sei arrivato al mondo della computer grafica?

A tre anni già frequentavo i set con le scenografie di mio padre Marco Dentici, quindi da sempre ho respirato l’aria del cinema e questo mi ha aiutato non solo a capire il workflow di lavoro della “macchina cinematografica” ma anche gli equilibri del set e il rispetto verso tutte le professionalità coinvolte.  Ma fu E.T. a impressionarmi talmente che già allora decisi che era quello che volevo fare da grande. E il sogno si è trasformato in realtà, poiché anni dopo frequentavo l’accademia di effetti speciali diretta da Carlo Rambaldi, appunto il creatore dell’alieno di Spielberg. Dopo esperienze in varie società (Videa Vfx, Reset Vfx da me fondata assieme ad altri), attualmente lavoro in proprio e insegno nel poco tempo che trascorro in Italia, perché ho iniziato a collaborare con la MPC (Moving Picture Company) di Londra, una delle maggiori società di effetti visivi al mondo: è lì che ho lavorato per Exodus e per un altro grosso progetto che non posso ancora rivelare.

Quali tra i film a cui hai lavorato ritieni più interessanti sotto il profilo tecnico?

In Italia ho lavorato a circa 60 film, ma non tutti meritano di essere menzionati per il loro interesse visivo perché, come sappiamo, in Italia non produciamo storie in grado di sfruttare a pieno le capacità tecniche e artistiche degli operatori di VFX. Tra quelli degni di nota c’è il film di Daniele Ciprì La buca: si è trattato di una lavorazione inusuale, così come poco usuale è tutta l’atmosfera che Daniele ha voluto creare mediante un look surreale e al tempo stesso realistico in un contesto di “non luogo”, come ama definirlo lui.

Per il film sono stati realizzati molti effetti di set extension per ricreare porzioni di strade cittadine; ho lavorato sia come supervisore sul set sia nella fase di pre produzione affrontando lo studio tecnico con lo scenografo e con il regista, poi come 3D artist e compositor. Durante la post produzione abbiamo costruito molti palazzi in CGI seguendo le refence fotografiche concordate e realizzando blocchi di diversa tipologia; li abbiamo poi catalogati in una libreria 3D e usati per estendere la strada reale. Ho fatto anche girare dei contributi green screen di figurazioni che camminavano, che abbiamo utilizzato per “popolare” la porzione di scenografia creata virtualmente. Nella fase di rendering abbiamo posto particolare attenzione alla creazione di vari livelli che chiamiamo passes e che sono dei rendering separati di colori, ombre, riflessi, specularità, insieme ad altri che servono per la selezione e correzione di singoli oggetti. Questi ci hanno permesso di modificare ogni singolo elemento della CG per amalgamarli al meglio con le immagini del girato. Infine ho realizzato dei matte painting impiegando sia tecniche pittoriche che fotografiche.

Che tipo di tecniche e sistemi avete impiegato per Exodus?

È stato un impegno molto duro ma mi ha dato grandissime soddisfazioni. Nello specifico ho lavorato nelle scene in cui gli ebrei sotto la guida di Mosè attraversano il Mar Rosso. Queste scene sono state girate a Fuerteventura nelle Canarie e le abbiamo popolate di molti altri elementi virtuali come folle, cavalli, carri egiziani, uccelli e ovviamente l’enorme onda anch’essa generata in computer grafica con un sistema proprietario di MPC chiamato Flowline.

I software impiegati sono per lo più quelli in commercio che si usano anche in Italia, come ad esempio Nuke per il compositing e Maya per il 3D; la differenza sostanziale sta però in alcuni strumenti che vengono sviluppati internamente che sono sia a servizio della pipeline che del risultato visivo. Ad esempio, MPC ha sviluppato per le masse Alice, uno strumento davvero impressionante nella simulazione dei comportamenti dei digital extras, tool creato per Troy e perfezionato e utilizzato in tutte le successive produzioni. Inoltre, per migliorare ancora l’aspetto degli elementi in CG prima della fase di compositing, si impiega il software Katana dal reparto di lighting. Poi c’è Furtility, un tool che permette il controllo di elementi come peli e capelli, vegetazione, foglie e altre fibre, mentre Kali, che porta non a caso il nome della dea della distruzione, serve appunto per distruggere gli oggetti realizzati in CG.

Ovviamente tutta la fase di compositing delle scene reali ed elementi virtuali è stata eseguita in stereo, poiché il film è stato rilasciato in 3D, quindi ogni compositor ha dovuto lavorare inquadrature con un doppio flusso di dati. Il controllo periodico e quello finale della stereografia viene eseguito dai supervisori della stereografia su postazioni dotate di sistemi di visualizzazione polarizzati oppure nella sala di proiezione, dove il nostro supervisore Jessica Norman seguiva meticolosamente le scene dal punto di vista artistico analizzandole insieme a ognuno di noi.

Quale fase o parte del tuo lavoro preferisci?

Mi ha sempre affascinato il fotorealismo delle immagini, quindi le maggiori soddisfazioni le ottengo quando, lavorando su un’immagine sintetica, vedo che comincia a diventare realistica e si amalgama completamente con il girato del film. È importante saper osservare tutto quello che ci circonda, la luce, gli oggetti e come questi rispondono all’atmosfera attorno: mi piace dire che per fare questo lavoro bisogna saper impare a “vedere”. Gli stimoli visivi sono fondamentali e anche vedere molti film, studiare tecniche e tenersi aggiornati aiuta tantissimo.

Un confronto fra Italia e USA da chi, come te, conosce bene entrambi i mondi: parlaci delle differenze fra metodi di lavoro, di che cosa dovremmo imparare da loro, ma anche delle loro (eventuali) debolezze, che potremmo sfruttare a nostro vantaggio.

La differenza è abissale. Nel caso dell’Italia parliamo di una realtà ormai microscopica, non professionale né professionalizzante e tristemente elitaria, nel senso che spesso permette solo a pochi soliti noti di creare qualche prodotto interessante. Nel caso degli USA parliamo invece di una vera e propria industria che funziona a pieno regime, seriamente organizzata, che premia chi lavora duramente e fa emergere davvero i talenti. Polemiche a parte, le differenze sono principalmente due. La prima riguarda la natura stessa dei progetti: da noi si lavora principalmente su commedie e solo di rado su progetti visivamente interessanti, mentre all’estero si realizzano effetti per film con scene complesse e spettacolari. La seconda è relativa all’aspetto economico che è a dir poco avvilente nel nostro paese, perché se la crisi ha determinato un clamoroso abbassamento dei costi di lavorazione, le richieste delle produzioni sono invece rimaste le medesime. Va da sé che le società di effetti visivi coraggiosamente rimaste a lavorare si trovano a operare con budget da terzo mondo, costrette spesso a sottopagare i propri collaboratori o a scendere a compromessi vergognosi.  Mi rendo conto della durezza di queste parole, ma credo siano uno specchio fedele della situazione attuale, che non possiamo nascondere sotto un velo di pericoloso ottimismo.

Ciò che invece gioca a nostro favore è lo spiccato senso artistico, un fattore realmente riconosciuto all’estero, e infatti non è un caso che nelle più grandi società di effetti visivi si trovi un’elevata percentuale di connazionali. Vivere in un paese con una grande storia che ci offre enormi spunti culturali fa sì che anche l’italiano meno erudito possieda un senso estetico e un gusto superiore alla media di molti altri paesi.

Sei anche un insegnante, ti rapporti con giovani che vogliono imparare il mestiere: quali consigli dai loro?

Ci sono tantissimi ragazzi che sognano di fare questo lavoro e questo mi aiuta a ricordare che opero in un settore davvero affascinante: perciò cerco sempre di trasmettere durante le lezioni un’energia positiva, la passione e la grinta necessaria per proseguire.

Con gli allievi della scuola Gian Maria Volontè di Roma ho svolto un percorso di due anni in cui ho cercato di insegnare loro tutte le tecniche adoperate nel nostro settore, persino quelle più complesse, affinché siano spendibili anche su progetti più grandi. È indispensabile non scoraggiarsi di fronte alle prime difficoltà perché il settore è molto complesso, entrarvi lo è altrettanto e anche l’aggiornamento deve essere continuo. Inoltre, come dicevo, l’Italia non offre tanti spunti e possibilità di esprimere tutte le nostre capacità artistiche e tecniche, quindi per chi cerca qualcosa di più un’alternativa può essere senza dubbio quella di rivolgersi all’estero. Certamente bisogna avere un po’ di coraggio ma, credetemi, le soddisfazioni arriveranno.

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“Romeo & Juliet” – effetti speciali tutti italiani https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/romeo-juliet-effetti-speciali-tutti-italiani/ https://www.fabriqueducinema.it/magazine/visual-effects/romeo-juliet-effetti-speciali-tutti-italiani/#respond Mon, 16 Feb 2015 17:40:41 +0000 https://www.fabriqueducinema.it/?p=871 La Giulietta del Duemila non si affaccia più da un balcone, ma da uno schermo blu. Uno studio italiano composto da giovani ha creato gli effetti digitali della nuova versione della love story più famosa di tutti i tempi di Pasquale di Viccaro, visual effects supervisor di Metaphyx La realizzazione tecnico/artistica di un film è […]

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La Giulietta del Duemila non si affaccia più da un balcone, ma da uno schermo blu. Uno studio italiano composto da giovani ha creato gli effetti digitali della nuova versione della love story più famosa di tutti i tempi

di Pasquale di Viccaro, visual effects supervisor di Metaphyx

La realizzazione tecnico/artistica di un film è un vero e proprio secondo film che corre parallelamente alla storia narrata sulla pellicola. Ricca anch’essa di colpi di scena, emozioni, momenti tragici e comici, colpi di genio e tanto duro lavoro. Romeo&Juliet, diretto da Carlo Carlei, è un film ambizioso e coraggioso, girato con un piccolo/medio budget ma supportato da artisti e tecnici di alto livello. La pellicola, una coproduzione inglese, italiana, svizzera e americana (Swarovski Entertainment, Blue Lake Media Fund, Amber Entertainment, Indiana e Echo Lake Entertainment), è stata girata interamente in Italia in lingua inglese e distribuita in tutto il mondo.

La preparazione

La lavorazione che ha interessato gli effetti visivi è stata la più complessa che Metaphyx abbia mai affrontato dalla sua nascita. In fase di preproduzione la stima era di circa 150/170 effetti visivi, tuttavia a montaggio ultimato ci siamo trovati con un carico di lavoro di 340 inquadrature da lavorare, alcune delle quali davvero complicate. Per la prima volta una piccola factory digitale italiana si è trovata a gestire un progetto hollywoodiano, cercando di raggiungere la stessa qualità visiva e ricercatezza artistica delle concorrenti estere. Nella primissima fase di storyboarding abbiamo cercato di individuare le principali tipologie d’interventi: estensione del set reale, pulizia e rimozione di oggetti moderni, bluescreen e ricostruzioni complete (in fase di ripresa tuttavia ci siamo spesso accorti di problemi che potevamo risolvere solo in post, come ad esempio l’aggiunta di sangue sui costumi di scena che non potevano essere macchiati realmente). Fin dal primo giorno di riprese il regista ha chiesto alla produzione la presenza sul set del reparto effetti visivi, e spesso anche nelle situazioni più complesse abbiamo lavorato in gruppo con la crew per trovare soluzioni che contenessero il budget e facilitassero il lavoro da svolgere poi al computer. Come supervisore degli effetti visivi, sul set avevo costantemente bisogno di scambiare informazioni con il reparto fotografia e aver lavorato in sinergia con il direttore della fotografia David Tattersall (Star Wars, The Walking Dead, 007) è stato essenziale, oltre che formativo.

Per l’enorme quantità di dati che veniva immagazzinata ogni giorno di ripresa avevo creato un database con tutte le informazioni utili per la lavorazione in post: dalle ottiche alle coordinate spaziali della camera, setting di colore, situazione luminosa e tantissime foto di scena per le references e per le textures in HDR. Verona e Mantova sono dei veri musei a cielo aperto: palazzi, vicoli, piazze, tutto è stato utile per le ricostruzioni digitali. Alla fine delle riprese avevamo più di 1500 foto per supporto alla produzione, il resto l’abbiamo ricavato da libri, dalle informazioni scambiate con lo scenografo Tonino Zera e ovviamente da internet.

Come creare più di 300 vfx invisibili

Il film è stato girato totalmente in digitale utilizzando due Arri Alexa con immagazzinamento dei frame tramite Codex, per avere il massimo della qualità possibile, e lenti Arri MasterPrime e UltraPrime. Per la lavorazione abbiamo raggiunto un organico di 15 persone, nulla se paragonato ai numeri di Weta, MPC ecc., tuttavia non pochi per una piccola factory italiana. La nostra filosofia è quella di creare un team di lavoro composto persone talentuose: molti dei nostri collaboratori hanno infatti in curriculum grossi progetti hollywoodiani, proprio perché crediamo che questo settore abbia tante potenzialità anche nel nostro paese, e prendendoci enormi rischi abbiamo deciso di scommetterci.

Per quanto riguarda i vfx l’intero film è stato lavorato a Roma, l’unica scena realizzata all’esterno è il matrimonio, in cui la chiesa, completamente digitale, è stata in parte compositata anche dalla CompanyOne Entertainment di Budapest. Come dicevo, per lo stile architettonico delle ricostruzioni digitali abbiamo fatto moltissima ricerca, dagli edifici dell’epoca ai dipinti del Quattro-Cinquecento. Un esempio è la scena nel finale del film, in cui si svolge il funerale dei protagonisti: la location reale era in piazza Sordello a Mantova. La ricostruzione principale ha interessato il totale della chiesa, per la quale ci siamo ispirati a un dipinto di Domenico Morone (La cacciata dei Bonacolsi, 1494) segnalato dallo scenografo. Dapprima abbiamo ricostruito la facciata principale della chiesa e poi l’abbiamo arricchita fondendo elementi di altre chiese tipiche di Verona. Nella stessa scena inoltre abbiamo intensificato la folla con un centinaio di comparse digitali e poi trasformato l’area circostante sostituendo il cielo e ricreando l’atmosfera per rendere tutto più tragico.

Un altro esempio è la sequenza che racconta la storia del monastero di frate Lorenzo (Paul Giamatti). Da un punto di vista artistico l’idea era quella di un timelapse, ma in seguito a vari test ci siamo accorti che visivamente non funzionava; perciò, dopo numerosi tentativi, abbiamo ricostruito la struttura base del monastero in CGI e creato una composizione simile a un timelapse, ma molto più fluida poiché l’animazione del cielo e delle luci sulla struttura è totalmente animata in digitale. Il risultato è armonioso, qualcosa che nella realtà sarebbe impossibile. Un attento studio ci ha portati a creare da zero anche un design del titolo molto curato in ogni particolare, esempio sono le due iniziali di Romeo&Juliet che sembrano quasi arrivare a toccarsi.

www.metaphyx.com

 

 

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